Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Entrare in Corte Mosto era come approdare in un piccolo paradiso. C’erano tanti gatti che ronfavano in mezzo all’erba.
Appena attraversavo il sottoportico, salivo sulla scala in pietra ed entravo nella dimora di Margot, incredibile artista che con le canzoni e le marionette affascinava il mondo degli adulti e di noi bambini. Suo figlio, Andrea Liberovici, era già un bimbo geniale. Ora compositore e fine musicista. Era non solo divertente stare con lui davanti al pianoforte, perché l’importante era l’atmosfera libera e vivace che si respirava insieme. Ma l’armonia di Corte Mosto aveva tanto altro da regalarmi, e il dono dell’amicizia lo trovavo anche in un’altra casa, quella che spuntava in fondo alla Corte.
In quella casa abitava Fiorenza, la mia cugina preferita. Amare gli animali e la natura erano valori che condividevamo e per questo le ore trascorrevano liete nel giardino con gli alberi da frutto. Ma quando arrivavano i mesi freddi, con il permesso dei rispettivi genitori, c’era un posto dove andavamo con un entusiasmo esplosivo: il Luna Park!
Le giostre occupavano tutta la Riva degli Schiavoni fino ad arrivare al ponte per andare verso l’Arsenale. L’ultima giostra, però, era la più paurosa: quella dei mostri. Con fantasmi e scivoli, ragnatele e vampiri. No, là non ci andavamo! Fiorenza ed io preferivamo l’autoscontro e i dischi volanti. E con i soldini in mano compravamo i gettoni e lo zucchero filato. Ci sentivamo invincibili sopra i dischi volanti e premere il pulsante per sparare colpendo inesorabilmente tutti gli altri era un grande soddisfazione!
Ragazzine birichine che non avevano ancora la minima idea di cos’erano i ragazzi. Ma c’è sempre la prima volta. Un indizio. Un’emozione. E avvenne tra una giostra e l’altra. Ci eravamo accorte che un paio di maschietti ci stavano alle calcagna. Mostravano interesse in un modo assai ridicolo. Ci seguivano tentando qualche goffa confidenza. Un saluto, un sorriso e occhiate minacciose.
La nostra reazione fu di scoppiare in una risata. Correvamo come pazze per seminarli. Ricordo che uno di loro indossava un buffo berretto di lana verde. Era impossibile non notarlo. Lo scambio di battute non troppo amichevoli avvenne durante la sfida sull’autoscontro. Colpi rimbalzanti e giri del volante. Non eravamo bravissime a pilotare, però la vittoria fu nostra! Colpiti ed affondati!
Le insegne colorate delle giostre presero a luccicare, stava calando la sera e l’obbligo perentorio di ritornare a casa per le 6 del pomeriggio non si poteva dimenticare. E allora la corsa verso il vaporetto che ci riportava alla Giudecca diventava una vera gara di velocità.
Salite a bordo io mi girai verso la riva. Riconobbi quello con il berretto verde che se ne stava impettito davanti all’imbarcadero. Alzò un braccio e mosse la mano in un saluto che fu un addio.
Mai più rivisto. Mai seppi il suo nome. Fiorenza continuò a ridere a crepapelle. Quel giro alle giostre ci fece scoprire che stavamo crescendo. Senza più bambole ma con lo specchio che mostrava i primi segni di un’acerba femminilità.