Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Faceva caldo e da poco eravamo tornati ad abitare nell’Isola della Giudecca. Questa volta l’appartamento era ben più grande di quello del Dolo e dalle finestre vedevo passare i vaporetti e le navi sul canale che divide l’isola della Giudecca dal centro storico.
Dal terzo piano osservavo benissimo Palazzo Ducale, la Riva di San Zaccaria e San Marco. Spesso soffermavo lo sguardo su una statua dorata, l’Angelo che sostava inesorabilmente sulla Punta della Salute. Un panorama unico al mondo!
Ma quello che mi entusiasmava tantissimo era la cameretta. Sì, una cameretta tutta per me, con il letto e l’armadio. I miei genitori potevano dormire tranquilli nella loro stanza, piuttosto ampia e ariosa tant’è che mio padre, preso da un’insolita allegria, si era finalmente tagliato la barba!
La cucina era ben ammobiliata e nel salotto regnava un divano verde, un tavolo tondo, due poltrone e una libreria stracolma di enciclopedie, volumi di politica, di economia e storia. Alcuni libri erano piuttosto consumati e altri nuovi di zecca che si alternavano a scartoffie e documenti.
Da giorni mia madre preparava asciugamani, borse con saponette impacchettate accanto ad un rastrello viola, una paletta rossa e un secchiello bianco. Addirittura avevo ricevuto in regalo un cappellino di paglia e un costume da bagno color pesca.
Era luglio e avevo 3 anni.
Seduta sulle ginocchia di mio padre ascoltavo curiosa il suo racconto sulla bellezza delle conchiglie e di quanto era grande il mare: «Non è come il Canale della Giudecca che vedi dalla finestra e non è neppure come la laguna. E’ molto ma molto più grande».
Non riuscivo ad immaginare la vastità e la profondità dell’acqua, eppure l’idea di trovarmi di fronte a quel luogo sconosciuto alimentava la mia curiosità. Era la prima volta che i miei genitori mi portavano in spiaggia, al Lido di Venezia e l’ansia di vedere il mare riempiva i sogni della notte. Ed ero ancor più agitata nel sapere che i miei genitori avevano prenotato una capanna. Già, a Venezia, le cabine della spiaggia si chiamano così. Sono piccole casette di legno, patio e tavolo con quattro sedie. Ebbene, giunti all’ingresso dello stabilimento balneare, affollato di mamme con bambini piccoli come me, giovanotti abbronzati e signorine dai grandi occhiali da sole, non volli più camminare. I granelli di sabbia mi terrorizzavano! E la spiegazione che in realtà erano conchiglie frantumate dal tempo non cambiò la mia opinione. I granelli di sabbia mi facevano schifo!
Mia madre insisteva dicendo che dovevo andare avanti e raggiungere la capanna ma io, con le scarpe immerse nella sabbia, ero rimasta immobile. I granelli mi davano un fastidio enorme e non sapevo come toglierli e pulire i piedi che ai miei occhi si erano sporcati fin troppo. Iniziai a strillare come una sirena. Bocca spalancata, occhi chiusi e lacrimoni densi di paura.
Mio padre, allibito, si innervosì parecchio. Mi prese in braccio mentre il pianto continuava incessante. Solo sulla battigia, davanti all’immensità dell’acqua, smisi di frignare. I piedi calciarono le onde e la sabbia bagnata diventò per me una materia morbida dove affondare le mani e il sedere!