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La ragazza gigante della contea di Aberdeen di Tiffany Baker

“Questa storia divertente e folkloristica assomiglia un po’ a Il brutto anatroccolo e un po’ a Big Fish di Tim Burton… Se cerchi di sconfiggere le crudeltà del mondo reale, questo romanzo è per te.’’– Marie Claire –

Alla scoperta di Truly Plaice, una donna dallo spirito indomabile con il cuore molto più grande del suogigantesco aspetto fisico, un po’ ippopotamo, un po’ strega e un po’ Cenerentola…

La ragazza gigante della contea di Aberdeen

 Quando la madre di Truly Plaice rimase incinta, l’intera cittadina di Aberdeen si riunì per scommettere sul peso del nascituro che era stato capace di deformare così tanto la donna da farle assumere proporzioni epiche.

La giovane Truly avrebbe pagato il prezzo della sua enormità.

Suo padre la incolpava per la morte della madre avvenuta durante il parto ed era assolutamente mal equipaggiato per crescere la figlia gigante e sua sorella maggiore, nonché suo esatto opposto, Serena Jane, la personificazione della perfezione femminile.

Mentre le notevoli dimensioni di Truly la rendono oggetto di curiosità e umiliazioni costanti, la bellezza di Serena Jane si dimostra essere una benedizione e una maledizione allo stesso tempo.

Il fatto di essere la più bella ragazza della città la farà infatti diventare l’ossessione di Bob Bob Morgan, il più giovane del clan dei Morgan, dottori di Aberdeen da generazioni.

Bob Bob darà il via a una catena di eventi che cambierà il destino dell’intera contea. Crescendo, in età e in larghezza, Truly si troverà sempre più legata al destino di Serena Jane diventando lei stessa uno degli obiettivi dell’intenso interesse di Bob Bob.

Scoprendo però il segreto della famiglia Morgan, il libro delle ombre vecchio di secoli, nascosto da Tabitha, prima moglie-strega del dottore, avrà la possibilità di trovare la chiave per il suo unico futuro possibile.

Armata dei pericolosi segreti del passato di Aberdeen, Truly affronterà presto decisioni morali in grado di cambiarle la vita.

Praticando i suoi rimedi curativi a base di erbe, si sentirà sempre più saldamente legata al cerchio della città, finché non verrà a conoscenza di una rivelazione così enorme da farla apparire minuscola.

Truly sarà costretta ad affrontare i propri demoni, ridefinire la pietà e prendere in considerazione la possibilità che l’amore non possa essere ordinato entro certe dimensioni.

L’AUTRICE:Tiffany Baker vive a Tiburon, in California, con il marito e i tre figli.

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La ricetta di Tiffany Baker per una vita da scrittrice:

Una manciata di isole: Belvedere, Aquidneck, Balboa, Manhattan, Corsica, Maui, il Regno Unito.
Tre bambini piccoli: due femmine e un maschio, paffuti sulle guance e sulle ginocchia. Testardi ma teneri quando vengono baciati.
Un Marito
Una quantità indecente di cioccolato e caffè
Il panorama che dà su una collina erbosa e su un vecchio eucalipto.

Un’altro gioiello edito ZERO91 editore.

Il volo di Alice. Quando l’amore viene da lontano di Zita Dazzi

Ispirato a una storia vera, il racconto della conoscenza, dell’amicizia, dell’amore tra due quindicenni compagni di banco al liceo: Alice, che vive in centro, ha una casa lussuosa e quasi sempre vuota, una madre spesso assente, un padre lontano e quasi sconosciuto, e Jaime, di origine peruviana, in Italia da quattro anni, il nuovo compagno di classe che subito stupisce per quanto è bravo. Alice vive in centro, Jaime al Giambellino: la città è Milano, ma la vita è diversa. Come diverso appare Jaime rispetto a tutti gli amici e compagni che Alice ha sempre avuto intorno. Piano piano la conoscenza di un mondo altro, della vita differente che vivono altre persone, la creazione di un legame così forte da tenere unite realtà differenti ma non distanti. Sullo sfondo la Milano del centro, del tutto subito, la Milano della periferia, delle bande rivali, dei tentativi di segnare dei territori, di emarginare e respingere il “diverso”.

Generazione A di Douglas Coupland

“Se un giorno le api dovessero scomparire, all’uomo resterebbero soltanto quattro anni di vita” – Albert Einstein.

Da questa frase di Einstein si sviluppa l’ultimo libro di Coupland, che come un moderno decamerone ci racconta della generazione A (o nativi digitali, o Net Generation, o come preferite) e del mondo che si trovano ad affrontare dopo la scomparsa delle api dalla terra.

 È il 2020. Le api si sono estinte. Cinque persone, a cinque diverse latitudini, vengono misteriosamente punte. È così che un coltivatore di mais dell’Iowa, un parigino fanatico di World of Warcraft, una ragazza neozelandese dedita a bizzarre sfide virtuali, una canadese affetta dalla sindrome di Tourette e un centralinista dello Sri Lanka la cui famiglia è stata spazzata via da uno tsunami vengono catturati, sottoposti a test e interrogati da un’organizzazione clandestina di sedicenti scienziati. L’improbabile gruppo viene dirottato su una remota isola al largo dell’Alaska e qui segregato e obbligato a raccontare storie, in una sorta di moderna maratona decameroniana. Quest’esperienza creerà tra i cinque un legame più profondo di quanto avrebbero mai immaginato.

Tutte le bugie che ho detto di Judy Blundell

Evie ha quindici anni ed è il 1947, la guerra è appena finita, il patrigno è tornato dall’Europa, ha lasciato l’esercito e sta facendo soldi a palate con gli elettrodomestici. Tutto è nuovo, nell’aria si sentono i cambiamenti, le possibilità del futuro, le trasgressioni, i sogni. Se guerra significa “non avere mai le novità”, questa volta la guerra è davvero finita, specie quando Joe, il patrigno, decide, alla vigilia del nuovo anno scolastico, di portare Evie e sua madre in Florida. Seduta sul sedile posteriore Evie guarda la sua bellissima mamma, all’ombra della cui bellezza lei è cresciuta e a cui sogna di assomigliare, e il paesaggio che scorre e cambia come muta l’umore di Joe. Palm Beach è meravigliosa ma deserta e tra i pochi avventori dell’albergo presto emergono nuovi personaggi, come i coniugi Grayson (che nascondono il loro essere ebrei per non essere cacciati dall’hotel) e l’affascinante Peter, di cui la ragazza si innamora all’istante, scoprendo che ci si può sentire “come se la notte mi avesse appena riempita di stelle“. Ma Peter faceva parte della stessa compagnia dell’esercito di Joe e nella loro permanenza sul fronte italiano si nasconde un segreto: che cosa è davvero successo? Chi è davvero Peter? Una sottile tensione che diventa piano piano più forte fino a sfociare in tragedia. Da leggere d’un fiato.

Ma se anche io avrei continuato a essere loro figlia, anche se avrei continuato a mangiare l’arrosto, a tornare a casa la sera dagli appuntamenti e a lavare i piatti, sarei stata nello stesso tempo me stessa. Avrei continuato a voler bene a mia madre, ma non avrei mai più voluto essere lei. Non sarei mai più stata qualcosa che qualcun altro voleva io fossi, non avrei mai più riso a una battuta che non trovavo divertente, non avrei mai più raccontato una menzogna. Da quel giorno in poi avrei detto sempre e soltanto la verità. Probabilmente sarebbe stata molto, molto dura. Ma io lo ero di più.

Il sito dell’autrice, che con lo pseudonimo di Jude Watson ha scritto numerosi altri libri, tra cui i romanzi legati alla serie di Star Wars e Premonizioni (Mondadori Junior Giallo).

STORIA SENZA UN TITOLO di Camilla Carniello

STORIA SENZA UN TITOLO

di Camilla Carniello

Sgambettò sul linoleum color crema dell’ospedale, producendo un ritmico ciaf ciaf che risuonò indisturbato per il corridoio semibuio e deserto.

Aveva una testolina perfettamente rotonda.

Era la particolarità che lo rendeva più tenero agli occhi di tutti. Una testolina tonda tonda, coperta solo da una pallida peluria. E due grandi occhi color nocciola.

Con fare esperto correva da una porta all’altra, fermandosi immediatamente prima e controllando che non ci fosse nessuno a controllare lui.

Era un po’ un gioco, un po’ un’avventura da compiere ogni sera.

Indisturbato arrivò fino al bancone grigio, coperto di carte e illuminato dal neon che penzolava pigro dal soffitto, dando a tutto un’aria asettica.

Non c’era nessuno. Come aveva previsto, l’infermiera di turno era a compiere il suo giro d’ispezione in quel reparto.

Lentamente, già assaporando il piacere della vittoria, che aveva il gusto dei biscotti al cioccolato a cui mirava, girò attorno al mobile e socchiuse il cassetto dove sapeva si trovava il suo tesoro.

Non c’era niente dentro. Vuoto! Completamente vuoto!

«Mattia!»

Il bambino si girò di scatto, colto con le mani nel sacco, sulla faccia dipinta un’espressione delusa, quella sera aveva perso.

«Cosa ci fai in piedi alle undici? Fila a letto.» disse Sara, l’infermiera del turno di notte.

Mattia aveva sette anni e otto mesi. Quasi otto, come diceva lui, e viveva in quell’ospedale da poco dopo il suo ultimo compleanno. Precisamente nel reparto Leucemia Infantile.

Vispo e allegro il bambino era diventato subito amico di tutti gli adulti all’interno della struttura ospedaliera ed era ormai un’abitudine quella del biscotto serale che ogni volta, puntualmente, Sara gli regalava.

La tradizione, tuttavia, essendo tra un’adulta e un bambino, voleva che l’infermiera se ne “dimenticasse”, in modo da fornire a Mattia l’occasione di conquistarsi il suo premio.

«Beh che aspetti? Su, muoviti» continuò lei, avvicinandosi. Svelto il bimbo si rifugiò dietro la sedia imbottita, guardando la sua interlocutrice con un sorriso così grande e birichino che la diceva lunga su quanto si stesse divertendo.

Mettendo le mani sugli abbondanti fianchi fasciati dalla divisa verde acqua, Sara lo fissò fingendosi esasperata, «Se ti do un biscotto, poi vai a letto?».

Drizzando la schiena, felicissimo di aver ottenuto, in un modo o nell’altro, il suo scopo quotidiano, Mattia ampliò il sorriso che evidenziò le deliziose fossette sulle sue guance e annuì soddisfatto.

Avvicinandosi ad un’anta, poco lontana dal cassetto in cui il bimbo aveva rovistato prima, Sara tirò fuori un sacchetto pieno di biscotti; ne prese uno e tenendo per mano Mattia, lo accompagnò di nuovo nella sua stanza.

«Ecco tieni – gli disse consegnandogli il prezioso bottino, – mi raccomando fa silenzio, altrimenti mi tocca dare tutti i biscotti anche agli altri e non è più il nostro segreto».

Mattia annuì facendo sparire il biscotto in due bocconi.

«Come si dice?»

«Grazie Sara» rispose il piccolo sparendo nella penombra della grande sala. Altri quattro letti occupavano quello spazio e il lieve respiro di altre persone riempiva il soffice silenzio della notte.

Accolto dai sogni dei suoi coetanei, Mattia si arrampicò sul proprio letto e si addormentò pensando che il biscotto, quella sera, era davvero buono.

Elisabetta cercava, in modo piuttosto impacciato, di farsi un timido spazio tra la marea di gente che si ammassava attorno alle bancarelle del mercato, quel sabato mattina.

Tutti sembravano parte di un unico corpo, alquanto aggressivo ed egoista, che si accaniva contro la minuta giovane donna.

Cercando di proteggere il sacchetto con le mele che aveva appena acquistato, indietreggiò fino a urtare qualcuno che era dietro di lei, che a sua volta fu quasi investito da una bicicletta che aveva sfortunatamente trovato abbastanza spazio da arrivare fino a lì.

«Mi scusi!» si affrettò Elisabetta, girandosi e inchinandosi leggermente per capire se la sua vittima fosse integra.

Accucciato per terra l’uomo alzò la testa, sorridendole: «Non si preoccupi signorina, non erano nemmeno buone le arance.»

«Oh, sono desolata, gliele ricompro se vuole!»

«Se ne trova di migliori volentieri, ma dubito in questo mercato oggi. Davvero, non si preoccupi.» rispose lui alzandosi e rivelandosi piuttosto alto, ben piazzato, capelli neri leggermente brizzolati sulle tempie, un accenno di barba sul mento e un grosso naso a patata.

«Ma che maleducato, non mi presento nemmeno. Giovanni Falchini, molto piacere.» aggiunse alzandosi e porgendole la mano, solo dopo aver raccolto tre arance ed essersele infilate nelle tasche dell’impermeabile color camoscio.

Ipnotizzata, più che stupita, dal bizzarro modo di comportarsi di quello semisconosciuto, la ragazza ci mise qualche secondo per riordinare le idee, ricordarsi il suo nome e quindi rispondere con voce persa: «Elisabetta Rossi.»

«Sembra più scioccata lei di me, dal nostro scontro.» scherzò il signor Falchini, tenendo le mani in tasca e dondolandosi sui piedi.

«Ehm, sì… Davvero mi dispiace tanto. Oggi il mercato sembra essere il punto di ritrovo del mondo intero. Cosa posso fare per farmi perdonare?» disse la donna, imperterrita nel volergli rendere giustizia.

Giovanni sorrise vedendo quella cocciutaggine concentrata in un esserino così piccolo, «In effetti… Mi permetta di aiutarla. Le porto la borsa della spesa, stia tranquilla non sono un ladro, né un maniaco.»

Alla faccia stupita di Elisabetta, Giovanni rispose con un ulteriore sorriso «Sono medico.»

«Che coincidenza, io sono infermiera. O meglio, mi sono appena laureata» disse lei, consegnandogli apprensiva la borsa con le mele. Non era pesante, anzi, non rappresentava la minima fatica, non c’era ragione di farsi aiutare da uno sconosciuto, ma il signor Falchini era un composto di bizzarria, sorrisi e buone maniere che invogliava a conoscerlo.

Il dialogo tra i due proseguì, leggero e tranquillo, come un colibrì blu che con grazia svolazza da un frutto all’altro. Guardandoli, uno sconosciuto avrebbe pensato che fossero già amici intimi; solo ripensandoci in seguito, Elisabetta realizzò che, durante quella conversazione incredibilmente spontanea, strada facendo, erano passati dal lei al tu prima ancora di arrivare alla sua macchina, parcheggiata a neanche dieci minuti dalla strada principale del mercato.

Guardando la vettura allontanarsi, Giovanni Falchini pensò che non aveva mai incontrato nessuno così piccolo, così evidentemente timido e al tempo stesso così sicuro. Gli ricordava una simpatica formichina; non un insetto fastidioso, ma una gran lavoratrice, instancabile, altruista, forse invisibile agli occhi di molti, ma in grado di fare la differenza.

Avviando il motore e dando un’ultima sbirciata all’uomo che l’aveva accompagnata fino a lì, che si era premurato di sistemarle le mele nel bagagliaio e che ora se ne stava fuori dalla vettura, Elisabetta Rossi era ben contenta del riparo offertole del finestrino scuro, che le consentiva di osservare un po’ meglio quell’uomo senza che lui se ne avvedesse.

Le capitava spesso di riuscire a mettere a fuoco l’opinione nei confronti di alcune persone solo continuando a osservarle dopo che ci aveva parlato.

Lo tenne d’occhio mentre si faceva sempre più piccolo nel suo specchietto retrovisore, mentre le sventolava la mano in segno di saluto e poi si allontanava tirando fuori da una delle tasche dell’impermeabile un’arancia e facendola roteare in aria.

La prima cosa che le veniva in mente se ripensava a Giovanni era patata. Forse era a causa del suo naso importante che rammentava la forma di quel tubero. Non che fosse una brutta cosa; gli dava infatti un’aria simpatica ed alla mano e sembrava proprio che lui ne fosse consapevole e addirittura sfruttasse la cosa, traendo energia e cordialità proprio da quella buffa appendice nasale.

Si erano salutati con una forte stretta di mano e la profonda voce di Giovanni che diceva: «E’ stato un piacere.»

Elisabetta pensò che non era suonata come la solita frase detta tanto per rispettare i canoni di un galateo piuttosto sgangherato; quelle parole continuavano a ronzarle ancora in testa e le ripetevano che un piacere, per entrambi, lo era stato davvero.

«Non si preoccupi signora, si tratta solo di una micro-frattura al piede, niente di grave, nonostante l’età.» disse il dottor Milani uscendo dalla stanza del paziente Ario Berni.

La donna, sulla quarantina, si girò a osservare la porta semiaperta dietro cui riposava suo padre, come se potesse vederlo attraverso la spessa lastra di plastica immacolata e potesse in qualche modo riportare il tempo a quando era lui a prendersi cura di lei e non il contrario.

«Tuttavia, vorremmo tenerlo in osservazione e fare altre analisi, per capire meglio a che punto della malattia è ed inoltre è più sicuro, se capisce cosa intendo. Qui avrebbe sorveglianza ventiquattrore su ventiquattro e lei si sentirebbe senz’altro più tranquilla sapendolo qui, si fidi di me.» continuò.

Le parole del medico erano dettate dall’esperienza e senz’altro sensate, per non dire che, sì, nonno Ario sarebbe stato curato meglio in ospedale che a casa, dove lei non avrebbe potuto essere presente a causa del lavoro. Tuttavia, al pensiero di lasciare suo padre in ospedale, così come fosse solo un peso di cui liberarsi per un po’, Rita Berni, signora Renzi da quando aveva sposato suo marito parecchi anni prima, sentiva uno scomodo non- so-che che le si attorcigliava in fondo allo stomaco.

«Per quanti giorni?» chiese.

«Ora come ora non saprei dire con precisione. Ci vorranno 20 giorni di gesso, poi il piede deve avere il tempo di riprendersi. Niente di speciale, ma richiederà tempo. Diciamo approssimativamente tre, quattro settimane.»

La donna arricciò il naso leggermente adunco, spostando gli occhiali che ci stavano in bilico e passandosi una mano tra i fitti ricci tinti di un rosso acceso si decise: «Va bene, mio padre rimarrà qui. Verrò a trovarlo appena posso, quando sono gli orari di visita?»

Dopo aver indicato alla donna il bancone grigio dover poter richiedere informazioni, il dottor Milani si rivolse alle infermiere ordinando di non lasciar entrare nessuno nella stanza di Ario Berni, in quanto il paziente aveva un assoluto bisogno di riposo.

Erano le cinque in punto della sera quando l’ordine del dottore venne violato da una testolina rotonda coperta da una pallida peluria.

Mattia corse dentro la camera e socchiuse la porta, spiando fuori nel caso qualcuno lo avesse seguito. Accertatosi di essere al sicuro si guardò intorno e fissò i suoi occhi curiosi in quelli altrettanto curiosi e infantili di un vecchio signore accartocciato sul letto.

Nessuno dei due spiccicò parola per una buona manciata di minuti. La prima cosa che il bimbo pensò fu quanto sembrasse bianco quel nonnino. I capelli candidi rassomigliavano a fili di puro cotone, la pelle, nonostante rughe profonde la solcassero, era immacolata e pareva soffice come quella di un bambino. Nell’aria si poteva respirare l’odore di un dopobarba che sapeva di nonno e di storie vissute e mai raccontate. Due occhiali da orsetto lavatore ingrandivano gli occhi dell’uomo fino a renderli buffi e anormali; dalla montatura marrone torba, il naso spuntava come una collina di neve e i baffi, l’unico tratto ad avere ancora qualche colore tendente al grigio, grigio perla, incorniciavano una bocca rosea e tremante.

Se ne stava appollaiato tra le coperte, come un gufo, con l’aria spersa di chi non sa dove si trova. Ma si sa come sono i bambini e, incurante della sua intromissione non autorizzata, Mattia si sentiva a sua agio come in ogni stanza di quella che ormai era casa sua.

«Ciao, come ti chiami?» chiese spostando la sedia pieghevole dall’angolo della stanza al bordo del letto e arrampicandocisi sopra.

«Io mi chiamo Mattia e abito qui da tanto tempo. Sei venuto qui perché vuoi una nuova casa? E’ divertente quando hai tanti amici come me. Ma tu non puoi avere i miei, perché loro sono già miei, sai.» continuò quando il vecchietto non diede cenno di voler parlare.

Ario Berni fissò il suo giovane ospite come un bambino osserva per la prima volta un giocattolo nuovissimo e luccicante e incuriosito allungò il suo lungo braccio bianco, liberandolo per un momento dalla calda sicurezza della coperta, e appoggiò la sua mano ossuta sulla testa di Mattia.

Aveva una testa perfettamente rotonda, pensò e questo scombussolò la sua memoria disastrata dall’Alzheimer, frugando bruscamente tra quei ricordi che non era più cosciente di avere, rispolverandoli all’istante, rendendoli scintillanti quasi come un tempo.

«Ad un certo momento avanzò un soldato tedesco e noi non sapevamo se sparare o no. Questi mi disse di consegnare le armi puntandomi il mitra addosso. Feci consegnare tutte le armi e da lì iniziò la nostra discesa prima verso la resa, poi verso la prigionia.

Quello che mi dispiaceva era che avevo una bella Beretta, un’arma che ci invidiavano tutti e io non avevo mai sparato neanche un colpo.

Quel giorno, prima di incontrare i soldati tedeschi, avevo tirato qualche colpo, poi la avevo smontata e gettata nel fiume che stavamo costeggiando.

Quando il tedesco mi chiese della mia pistola, vedendo che non l’avevo più mi prese a calci. Da quel momento capii di non valere più niente.» disse Ario improvvisamente con voce dolce e calma.

Per nulla colpito dalla stranezza del ricordo del vecchio signore, Mattia tirò fuori dalla tasca del pigiama una caramella e se la mise in bocca. «Cos’è una Beretta?»

«E’ una cosa per sparare. Era molto bella e mi piaceva, però non ricordo che fine ha fatto.» rispose quello, improvvisamente confuso, i ricordi annebbiati nuovamente dalla sua personale maledizione patologica.

«Hai detto che l’hai buttata via. Ma quindi tu facevi il soldato quando lavoravi?» chiese Mattia che, molto più facilmente di quanto avrebbe potuto fare un qualsiasi adulto, era in grado di tener testa alla stranezza di quella conversazione. Non che fosse piena di senso, ma il bambino non si preoccupava di sapere se ciò che stava ascoltando fosse vero o falso, se avesse una valore cronologico oppure no, se fosse importante o meno, se rappresentasse qualcosa di logico o no.

«Tenente Ario Berni, 55 fanteria, soldato nella Seconda Guerra Mondiale e deportato nei campi di concentramento.» disse il vecchietto, come fosse una frase che aveva ripetuto mille e una volta nella vita.

«Vuoi una caramella, nonno Ario?» domandò innocentemente Mattia.

Immediatamente complici, i due condivisero quel piccolo zuccherino che ebbe il potere di unirli come amici.

In quel momento la porta si spalancò senza che i due se ne accorgessero e Rita che era entrata intenta a piegare il foglio con gli orari di visita che si era appena procurata, sollevò gli occhi e li interruppe con un: «E tu chi sei?» rivolto al piccolo Mattia.

Il bimbo rispose, guardandola storto. Quella donna, troppo elegante e con il naso leggermente adunco non gli piaceva, gli dava un senso di prurito nella parte destra della testolina, come se il suo cervello si ribellasse all’idea di averla come amica.

«E’ Mattia, il mio nuovo amico. Mi ha dato una caramella e mi stava raccontando una storia.» aggiunse Ario, ben felice di ricordarsi qualcosa.

«No tu stavi raccontando qualcosa a me.» lo corresse l’altro.

«Che cosa?» si stupì il vecchio.

«No, no, fermi – li interruppe la donna, alquanto scioccata, – Ario tu sai chi è lui?»

Confuso, il signor Berni guardò quella che per lui era niente più che una donna e ripeté che Mattia era il suo nuovo amico.

«No, quello che intendo è se riesci a ricordare chi è Mattia. Riesci? Ora?» provò a spiegarsi Rita.

Capendoci sempre meno, Ario si limitò ad annuire timidamente.

Credendo di trovarsi di fronte a un miracolo, la signora Renzi si affrettò a chiamare il dottor Milani e, dopo avergli spiegato il suo punto di vista, insistette che suo padre venisse visitato all’istante.

«E’ possibile un miglioramento, dottore? Insomma, non intendo una totale guarigione, ma è possibile che mio padre riesca a ricordare cose che prima aveva dimenticato? Guardi lei stesso, sta con quel bambino da dieci minuti ormai e non gli ha mai chiesto chi sia! Questo succedeva solo qualche anno fa, recentemente non l’ho mai visto ricordare la stessa persona nemmeno per pochi minuti!» si emozionò.

Restio a crederle il dottor Milani seguì Rita all’interno della stanza.

«Mattia! Che ci fai qui? Avevo detto che nessuno doveva entrare in questa stanza, il signor Berni deve riposare.» esclamò il medico accorgendosi di chi fosse il soggetto dell’improvvisa funzionante memoria del padre di Rita.

«Ma Ario è mio amico.» protestò lui.

«Sì. – confermò Ario, per poi rivolgersi a Rita, – E tu? Vuoi un amico pure tu? Non puoi avere lui, perché lui è già mio.»

Come a evidenziare tutto ciò che aveva detto prima, la donna guardò il dottore facendo cenno con la testa in direzione dei due di fronte a loro.

Il dottor Milani, dopo aver ordinato a Mattia e alla signora Renzi di uscire e dopo che ebbe chiuso la porta assicurandosi con uno sguardo che non ammetteva repliche che nessuno, in nessun caso, nemmeno Mattia, avrebbe potuto entrare in quella stanza, domandò: «Mattia, di cosa stavate parlando tu e il signor Berni?»

«Non so, di cose strane. Ha detto che una volta aveva una Beretta e che sparava con quella, anche se io non so cosa sia. E poi che è stato portato in alcuni campi e che ha incontrato dei soldati tedeschi. Però secondo me era una bugia perché dopo non si ricordava più tanto bene.» rispose lui prima di correre via e sparire tra le gambe degli infermieri e delle persone che giravano per i corridoi a quell’ora.

«Signora, suo padre ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, se non sbaglio, giusto? Ecco credo che guardando Mattia, rasato e di conformazione esile, si sia semplicemente ricordato di quando fu deportato e di tutte le persone rasate e denutrite del campo. Essendo affetto dalla sindrome di Alzheimer è normale che il signor Berni ricordi meglio cose che sono accadute nel passato, perché è ciò che, per così dire, è rimasto nella sua memoria più a lungo. Più a lungo di lei e della famiglia che si è creato dopo la guerra. Purtroppo miglioramenti, a questo stadio della malattia, sono rari, quasi impossibili. Si ricorda del bambino solo in quanto è la persona che più corrisponde a tutto ciò che ha visto in gioventù. Mi dispiace, ma non si illuda, la farebbe stare peggio.» spiegò in tono perfettamente professionale il medico, posando fraternamente una mano sul braccio della donna, come per darle quel minimo di conforto di cui, dopo venticinque anni di esperienza, due lauree e una specializzazione, sapeva ogni paziente bisognava.

Da sola lungo il corridoio ospedaliero Rita Berni Renzi si mise le mani in tasca e si decise ad andare a casa. Si affacciò qualche secondo alla porta dietro cui riposava suo padre, decidendo di non svegliarlo; non sarebbe servito comunque dato che non si sarebbe ricordato di lei.

Prese l’ascensore, scese al piano terra e si fermò prima di uscire. Pioveva. Scocciata scosse la testa, pensando che proprio quel pomeriggio era stata dal parrucchiere. Ovviamente avrebbe piovuto, data la sua fortuna.

Per un momento pensò di rubare uno degli ombrelli abbandonati davanti alla grande porta d’ingresso, ma poi ci rinunciò, tanto, peggio di così non poteva andare quel giorno. Sollevando il cappotto fin sopra alla testa, pensò che suo marito avrebbe dovuto accontentarsi di qualcosa di pronto, non aveva la minima voglia di preparare qualcosa, quella sera era davvero troppo stanca.

Elisabetta parcheggiò la sua piccola e vecchia Cinquecento nell’immenso parcheggio dell’ospedale, pronta per il suo primo giorno lavorativo.

Per un attimo credette di essersi persa in mezzo a quel dedalo di immensi edifici; avrebbe dovuto farci l’abitudine, pensò, e imparare ad orientarsi, non voleva certo arrivare in ritardo ogni giorno.

L’idea di divisa verde, mascherina e zoccoli la elettrizzava come può capitare solo a chi si reca a lavorare per la prima volta.

Il camicione e le larghe braghe di tela le davano un aspetto oltremodo dolce, come di una mamma in pigiama che si appresta a prendersi cura del mondo intero, paziente ed amorevole.

Inutile dire che la mattinata volò in uno schiocco di dita per lei cui tutto sembrava nuovo e incantevole.

Il pranzo si rivelò una dolce sorpresa per la ragazza. Infatti, uscendo dal bagno dove si era lavata le mani, incontrò, senza scontrarsi questa volta, Giovanni Falchini, vestito con tanto di camice.

Una volta distolti gli occhi dal suo importante naso a patata Elisabetta notò che il camice del medico era ricoperto di disegni e colori, come se l’uomo fosse appena tornato da una passeggiata attraverso un vivace arcobaleno.

«Buongiorno! Felice di vederti già al lavoro, appena laureata. E’ una fortuna che pochi hanno.» la salutò cordialmente.

La donna lo guardò da sotto in su e gli sorrise calorosamente.

Invitandola a pranzare con lui, Giovanni le fece strada verso la grande mensa dove gran parte del personale ospedaliero si riuniva a mangiare quando non c’era il tempo di recarsi presso un bar all’esterno del complesso.

Tre bocconi di pasta al pomodoro più tardi Elisabetta riuscì a chiedere il motivo dei sgargianti toni che avvolgevano il suo interlocutore il quale, felice nel vederla interessata, si apprestò di buon grado a risolvere ogni dubbio.

«Lavoro come medico normale, per così dire, tutti i giorni tranne il giovedì, in cui faccio volontariato per l’associazione Dottor Sorriso. In pratica si tratta di far ridere i bambini che soggiornano all’ospedale. Ci improvvisiamo un po’ clown, un po’ giocolieri; all’inizio è difficile perché tutti i bambini sono diffidenti e non hanno la minima voglia di ridere trovandosi qui, ma quando dimostri di essere capace di giocare, diventano aperti e solari. E’ uno spettacolo incredibile vedere i loro sorrisi, dovresti assistere!» e suonava proprio come un invito. Giovanni ci mise poco a convincere la pignola e diligente signorina Rossi a spendere un’oretta del suo tempo libero con i bambini.

Ed in effetti lo spettacolo non fu affatto male. Il dottor Falchini con un gruppo di colleghi si dedicò alla giocoleria e ai giochi di prestigio: prima fece roteare in aria tre palle arancioni e poi le trasformò agli occhi dei piccoli in tre magnifiche e luccicanti arance che distribuì tra i rumorosi e stupiti pazienti.

Ecco il perché delle arance al mercato, pensò subito Elisabetta. Non era certa che fossero le stesse, ma ora comprare arance al mercato le sembrava ovviamente un acquisto da fare unicamente allo scopo di far ridere i bambini.

Verso la fine uno dei bimbi, uno dei più piccoli, che la giovane donna notò aveva una testolina rasata perfettamente tonda, rubò il naso rosso di Giovanni. Non che lui ne avesse bisogno, in effetti, bastava che si colorasse di rosso la punta del suo vero naso e poco si sarebbe notata la differenza.

Dopo vari tentativi, tutti andati a vuoto, di ripescare il grosso nasone di plastica rossa, Giovanni ci rinunciò e presentò il piccolo a Elisabetta.

«Questo signorino qui è Mattia. Furbetto, vero compare? E’ qui da quasi un anno ed è amico di tutti.» disse posando una grande mano sul capo del bimbo che dapprima annuì distratto, giocando col nuovo trabicolo che era appena riuscito a procurarsi, poi sgattaiolò via di corsa.

«Non vive con la famiglia? Insomma un anno è lungo da passare in ospedale.» si accigliò la ragazza, non ancora abituata del tutto alla vita all’interno di quell’edificio che sapeva di malattia, di disinfettante, di pianti, di medicine, e dove ciò nonostante un vago profumo aleggiava nell’aria, misterioso e invisibile, lasciando dietro di sé una scia che tutti, volenti o nolenti, si trovavano a seguire: la speranza.

«Mattia ha una famiglia stupenda. Purtroppo soffre di leucemia e deve seguire delle terapie lunghe e costanti, quindi per forza di cose deve rimanere qui. Ma lo vengono a trovare tutti i giorni. La mattina, prima di andare a lavorare e la sera. Tutti i fine settimana sono qui e a volte gli portano anche degli amici. E’ dura, sono prigionieri dell’ospedale tanto quanto il figlio, ma si fanno forza a vicenda. Per il piccolo c’è speranza per un futuro lungo abbastanza, il suo corpo reagisce bene ed è un tipetto tutto sale e pepe, lo conoscerai. Tutti lo conoscono qui.» rispose il dottor Falchini con un sorriso.

Come a dar credito a quelle parole si sentirono delle esclamazioni di protesta provenienti dall’atrio di fronte a loro e in una manciata di secondi videro apparire una sedia a rotelle che correva come spinta da una furia; quando fu abbastanza vicina, poterono notare che la suddetta furia era appunto il piccolo Mattia.

«Brum brum! Spazio gente!» gridava di continuo. Fortunatamente il corridoio era semideserto. Il piccolo sgambettava veloce per poi darsi una spinta e appendersi al retro della carrozzella su cui sedeva uno sventurato vecchietto dall’aria allegra e divertita.

Il signor Berni, aggrappandosi ai poggiabraccio della sedia a rotelle si stava divertendo come mai in vita sua; non che fosse difficile farlo divertire dato che, dimenticando sempre tutto, ogni volta era come la prima.

Spalancava la bocca urlando dall’eccitazione, sgranava gli occhi tentando di cogliere ogni secondo di quell’insolita avventura e si sporgeva in avanti cercando di aumentarne l’ebbrezza.

«Ossignore!» si preoccupò Elisabetta.

«Mattia!» sibilò Giovanni, come rassegnato, per poi mettersi al centro esatto del corridoio con una mano protesa in avanti, sperando vivamente che il bambino riuscisse a frenare la corsa.

Con un «Oh!» di sorpresa il piccolo piantò i piedi per terra trattenendo la carrozzella. Essendo troppo leggero, però, non riuscì a frenare nell’immediato (cosa che tra l’altro salvò Ario Berni da uno sicuro schianto sul pavimento tirato a lucido) e quasi andò a schiantarsi contro il dottor Falchini.

«Mattia, quante volte te lo devo dire? E’ pericoloso, ci sono persone qui che devono lavorare, inoltre il signore avrebbe potuto cadere e farsi molto male.» disse il dottore in tono severo.

«Ma Ario mi ha detto che lui non aveva mai fatto una corsa!» obiettò il bambino.

«Non m’interessa, l’ospedale ha delle regole e vanno rispettato. La gente viene qui per stare meglio, non per farsi più male.»

Il bambino chinò il capo con aria colpevole. Andava sempre così: lui faceva qualcosa per divertirsi e finiva che lo sgridavano sempre!

Elisabetta si offrì di accompagnare l’anziano signore nella sua camera, ma la premura dell’infermiera si rivelò vana quando, alla domanda in quale stanza soggiornasse, Ario non seppe dare una spiegazione.

«Io lo so, lo porto io!» esclamò trionfante Mattia, contento di poter stare ancora con il suo nuovo amico.

Tuttavia, volendo evitare altri possibili incidenti di percorso, il dottor Falchini preferì seguire i due, lasciando così libera Elisabetta di tornare al suo reparto.

Con le mani saldamente ancorate ai manici della sedia a rotelle, Giovanni spingeva il signor Berni, affiancato dal salterellante Mattia che non la finiva più di parlare di come era stata eccitante la loro corsa.

«Dovresti portarla fuori a cena.» disse improvvisamente Ario. Mattia si zittì subito e il dottor Falchini si portò davanti per capire se ci fosse qualche problema.

«Cosa?» chiese il medico.

«La signorina, dovresti portarla fuori a cena, è molto carina.» ripeté il vecchietto. Rilassatosi una volta visto che il paziente gli stava solo fornendo un consiglio, Giovanni riprese a spingere la carrozzella. Eppure l’idea di una cena con Elisabetta non suonava affatto male…

Elisabetta Rossi era ancora nella fase in cui si gioisce nel recarsi a lavorare. Ogni mattina quindi, era di ottimo umore e trasmetteva il sorriso a chiunque incontrasse. Non che fosse una persona sempre positiva o eccessivamente spensierata, ma si sa che quando una cosa piace la si affronta nel migliore dei modi.

Quel giorno si recò al lavoro e iniziò a controllare alcuni pazienti nel reparto malattie sistemiche progressive.

Quando però entrò nella stanza 45E la trovò vuota. Pensò ad un errore nell’assegnazione che le avevano consegnato qualche ora prima, ma poi si accorse che il letto, seppur ordinato, era stato usato e che un paio di pantofole grigie era stato abbandonato in prossimità del letto.

Si guardò intorno, dentro la cabina armadio, fuori dalla stanza, ma non sembrava esserci nessuno.

Passando di fronte alla camera adiacente si sentì chiamare.

«Se cerca il paziente della camera qui vicino, è andato a cercare il bagno. – disse un visitatore al capezzale del letto dell’occupante della stanza. – Gli ho detto che è qui dietro l’angolo, ma non l’ho più visto tornare. Saranno passati trenta minuti abbondanti, forse si è sentito male.»

Subito preoccupata, la giovane infermiera si diresse quasi correndo al punto indicatole: il bagno era vuoto.

Si guardò intorno rilassandosi leggermente. Se il paziente si era sentito male, almeno non era chiuso in bagno tutto solo.

Stava rimuginando su dove potesse trovarsi un signore anziano, affetto dall’Alzheimer, quando arrivò alla saletta ricreativa dove una fila di poltroncine rosse era occupata da visitatori in attesa e da pazienti troppo stufi di stare rintanati nelle rispettive camere.

In mezzo a loro, quasi piangente, stava il vecchietto che la dolce infermiera aveva visto qualche giorno prima correre impazzito sulla sedia a rotelle spinta da Mattia.

Il poveretto sembrava così sperso e spaurito che pareva l’incarnazione della pietà stessa, quella pietà che sembrava suscitare in tutti i presenti tranne che nell’anziana donna al cui fianco si era accasciato, pregandola di ascoltarlo.

La vedova Politti faceva parte di quel ristretto gruppo di persone che non sono più nel fiore degli anni, ma che ancora non si arrendono alla vecchiaia. Quella fascia d’età, insomma, in cui vorresti che alcune persone importanti della tua vita fossero più vecchie di te, come il tuo medico, il tuo prete, il tuo presidente, e che invece, per forza di cose, ad un certo punto arrivano ad essere più giovani.

La signora, essendo consapevole di tutto ciò ed essendo una professoressa di storia in pensione, si sentiva più che autorizzata a dare i proprio consigli a chiunque le capitasse a tiro e, in particolare a quelli che sembravano più giovane di lei per il semplice fatto di avere anche una sola ruga in meno.

Non appena si accorse della presenza di Elisabetta, evidentemente lì per recuperare quell’appiccicosa acciuga che le stava a fianco, si apprestò a dare il suo parere non richiesto e a sgridarla per essere arrivata così in ritardo, causandole un tal siffatto disturbo.

«E’ piuttosto fastidioso quando un paziente che visibilmente non è in grado di star da solo è lasciato libero di importunare altre persone che sono in visita.» disse con tono altezzoso.

Presa alla sprovvista e prigioniera della sua timidezza la signorina Rossi biascicò un paio di scuse a mezza voce e si apprestò a recuperare il signor Berni che non voleva saperne di seguirla.

«No! Margherita, perché non mi ami più. Siamo sposati!» continuava ad urlare.

«Lo scusi, è affetto da Alzheimer.» spiegò l’infermiera.

Non volendosi far giudicare dai presenti per il suo comportamento freddo e distaccato, la vedova Politti rispose dicendo di non preoccuparsi, «Però è alquanto scioccante il suo flirtare con le signore a quest’età; si potrebbe pensar male, ecco tutto.» si giustificò poi.

Un paio di infermieri corsero in aiuto di Elisabetta e riuscirono finalmente a trascinare il povero Ario di nuovo nella sua stanza.

«Non so come sia arrivato lì, sono entrata nella sua stanza ed era vuota. Credo si sia diretto al bagno, ma che si sia dimenticato di doverlo usare strada facendo.» spiegò ai colleghi.

Ario aveva un’aria afflitta e sconsolata: credeva di aver visto nella vedova sua moglie e non si capacitava del perché non l’amasse più.

Ma il dolore amoroso fu presto dimenticato, sostituito da un sonno ricco di sogni che arrivarono appena si coricò. Chissà se in quel mondo notturno la sua memoria funzionava ancora.

Più o meno nello stesso momento un vivace bambino irruppe nella saletta con i divanetti rossi e si precipitò tra le braccia della vedova Politti.

«Nonna!» esclamò felice Mattia.

«Tesoro santo!» rispose l’anziana donna. Nonna e nipote stettero insieme, godendosi quegli attimi come fossero dolce miele su pane croccante.

Dopo quell’incontro tuttavia, il dottor Falchini, che quel giorno indossava un normale camice bianco ed uno stetoscopio come collana, trovò il piccolo a vagare per i corridoi con aria triste, cosa inusuale per lui.

«Mattia, che succede? Credevo fossi felice con la nonna, poco fa.»

Il piccolo scosse la testa come per dire che quello non c’entrava e che non c’era nulla da fare. Preoccupato che avesse ricevuto qualche pessima notizia sulla sua leucemia, il medico si apprestò a chiedergli cosa stesse succedendo.

«Mamma e papà oggi non possono venire perché sono al matrimonio della zia.» spiegò sconsolato. Gli occhioni da cerbiatto si fecero ancora più grandi e lucidi, le lunghe ciglia, accentuate dalla mancanza di capelli, si muovevano frettolosamente come per impedire alle lacrime che stavano per prorompere di cadere, ma non vi fu verso di trattenerle e così grosse perle salate cominciarono a scivolare sulle guance paffute di Mattia.

Il piccolo si sentiva così timido in quel momento e appariva così diverso dal concentrato di pura energia che era di solito.

Addolcito, Giovanni prese tra le braccia Mattia che riuscì a farsi piccolo piccolo contro il suo petto.

«Sai cosa facciamo ora? Andiamo a chiedere a Elisabetta di uscire a cena con me, ti va?»

Incuriosito dall’idea il bambino si fece già meno malinconico di prima e, sempre in braccio al dottore, si avviò a cercare l’infermiera che nel frattempo era tornata a controllare il signor Berni.

Non appena entrarono nella camera di nonno Ario, Mattia recuperò il suo buon umore, si arrampicò in fretta sul letto dell’anziano signore che, straordinariamente, riconobbe in lui il suo nuovo amico, e tutto emozionato proruppe: «Giovanni vuole chiedere all’infermiera di essere la sua morosetta!»

Elisabetta si girò curiosa verso Giovanni e immediatamente arrossì. Ario, dal canto suo, non ci capì molto e si limitò a guardare la scena da dietro i suoi spessi occhiali.

«Non è proprio corretto. – disse il dottor Falchini con voce tranquilla, – Io mi accontento anche solo di una cena.»

Le guance dell’infermiera si infuocarono e la stanza si fece improvvisamente troppo calda; la tentazione di imboccare la porta e fuggire via, magari in direzione dell’Antartide, era forte, ma Giovanni era esattamente di fronte all’uscita e la giovane si sentiva come un animale braccato.

Non che non ci volesse andare, a quella cena, anzi le piaceva passare il tempo con Giovanni, pranzavano insieme alla mensa dell’ospedale quasi sempre, ma la sua timidezza le rendeva difficile affrontare situazioni più impegnative. Inoltre la presenza di due persone, anche se erano Mattia e il signor Berni, le incuteva ancor più soggezione.

Consapevole che stava esagerando, Elisabetta fece tre respiri profondi e, fissando il linoleum bianco e concentrandosi sulle imperfezioni del medesimo, con voce sottile rispose di sì, sarebbe andata volentieri a cena con il Dott. Falchini.

Perfettamente a suo agio Giovanni fece l’occhiolino a Mattia, come per sottolineare il fatto che aveva vinto una sua personale scommessa.

Volendosi liberare dell’imbarazzo del momento, l’infermiera disse a tutti di andarsene perché doveva mettere il pannolone al signor Berni.

«No! No, neanche per sogno, mica sono un bambino eh!» si scandalizzò quello.

«Io non uso il pannolone!» disse subito Mattia, indeciso se sentirsi offeso o divertito, al che Ario annuì con la testa, come se fosse una prova inconfutabile del suo diritto al bagno.

«Ma questa mattina si è perso in giro per l’ospedale, mentre voleva andare al bagno. Starà più comodo , si fidi di me, non avrà preoccupazioni e non è poi così inusuale alla sua età.» protestò la donna.

Il vecchietto allora, si liberò dalle coperte che lo avvolgevano e a fatica tentò di mettersi in piedi sul letto, nonostante l’ingombrante ingessatura al piede sinistro. In un qualche modo ci riuscì pure e cominciò a barcollare pericolosamente avanti e indietro, urlando di voler andare al bagno.

In quell’esatto istante Rita Berni Renzi entrò nella camera e rimase pietrificata sulla soglia. Nessuno le badò, tutti quanti impegnati, Mattia a ridere, Elisabetta e Giovanni a tentare di acciuffare l’agitato paziente, Ario a far valere i propri diritti.

«Cosa sta succedendo qui?» esclamò con voce acuta la donna.

Mattia continuò a ridere, ma fu furbo abbastanza da capire che era meglio se non si faceva vedere, quindi si nascose dietro il letto. Ario si bloccò chiedendosi chi fosse quella tipa magra e dai capelli rosso acceso. Elisabetta si immobilizzò e Giovanni, grande e grosso com’era approfittò del momento e prese il mingherlino vecchietto tra le braccia e lo ridistese sul letto. Quest’ultimo, appena fu messo comodo, fece pipì tra le lenzuola.

Il silenzio di piombo che calò sembrò far rimbombare i secondi come fossero spari.

«Ci scusi signora, il signor Berni era piuttosto agitato, ma come vede la situazione è risolta.» disse in tono conciliante Giovanni.

«Risolta? Mi avevano assicurato che mio padre qui era al sicuro, ma da quel che ho visto non lo è affatto! Forse è meglio che lo porti a casa con me, dove almeno potrà usare un bagno.» strillò con voce pungente la donna già sentendo prossima una crisi di nervi per l’orribile giornata che aveva appena passato a cui si aggiungeva la preoccupazione per un genitore che sembrava catalizzare ogni possibile sciagura si potesse immaginare.

«No, non portare via Ario, lui è mio amico!» esclamò Mattia uscendo dal suo nascondiglio e precipitandosi addosso a Rita.

A quel punto Ario con voce tremante disse: «Io voglio stare qui, con il mio amico.»

Portandosi una mano alla tempia e massaggiandosela come se quel gesto potesse spazzare via tutto lo stress che sembrava ucciderla, la signora Renzi in quel momento avrebbe probabilmente preferito essere in un manicomio. La prospettiva le sembrava meno illogica che stare in quella stanza che piena di matti lo era davvero.

Un padre smemorato che diventa amico di un bambino con la leucemia ed è l’unica persona al mondo a riconoscere; un’infermiera così piccola e minuta da sembrare piuttosto una ragazzina e un medico che più che un professionista sembra un pagliaccio, pensò Rita, bell’ospedale!

«Dov’è il dottor Milani?» si limitò a chiedere. Giovanni si offrì immediatamente di accompagnarla al banco delle informazioni per chiedere e uscendo si girò in direzione di Elisabetta, roteando gli occhi al cielo come per dire: «Questa è pazza!» riuscendo così a strapparle un sorriso.

«Vieni con me, dai.» sussurrò Mattia avvicinando la sedia a rotelle al bordo del letto, così che Ario potesse sedercisi.

Erano le dieci e mezza di sera e quasi tutti erano a letto a dormire, solo gli infermieri del turno di notte girovagavano pigri per i corridoi immersi in una rilassante (o inquietante, se eri un bambino) penombra.

«Dove andiamo?» chiese il vecchietto indossando le comode pantofole grigie.

«A mangiare i biscotti di Sara.» rispose il piccolo spingendo la carrozzella fuori dalla porta.

Silenziosamente come spie professioniste i due si diressero verso il bancone grigio. Nel farlo passarono di fronte ai tre ascensori argentati di quella zona dell’ospedale.

«Cosa sono?» chiese Ario.

«Sono ascensori. La gente li usa per andare su e giù, come le scale, ma sono più veloci e non devi camminare. Sono belli vero? Guarda – disse il piccolo premendo il pulsante di quello centrale, quello più grande. Si avvertì uno spostamento d’aria, accompagnato da un fruscio proveniente dalla fessura tra le due ante scorrevoli e con un bip metallico le porte si aprirono mostrando un interno altrettanto argentato e molto ampio, illuminato da una luce bianca che agli occhi dei due lo faceva assomigliare una navicella spaziale.

Beh, più agli occhi di Mattia che a quelli di Ario, dato che la sua memoria non gli permetteva di rendersene conto; ma comunque avvertiva che assomigliava a qualcosa di strano e insolito.

«Ci andiamo?» propose il signor Berni.

«No, non possiamo andarci noi, perché poi vanno al piano terra e lì è sporco. E dove c’è sporco è pericoloso e poi muori. Me l’ha detto la mia mamma.» disse con voce risoluta il bambino. Quella, forse, era una delle poche regole che non aveva mai avuto il coraggio di infrangere.

Automaticamente la soggezione provata dal piccolo passò nella mente dell’anziano, come per contagio; come succede tra amici.

La loro corsa si fermò proprio di fronte alla grossa infermiera che sedeva sulla sua poltrona imbottita aspettando la visita del bambino.

«Cosa abbiamo qui oggi?» chiese con fare sospettoso, accorgendosi della presenza di Ario.

«Lui è il mio nuovo amico. E’ simpatico, si chiama Ario.» lo presentò Mattia.

Stupita Sara si rimise seduta. Non era mai successo che Mattia portasse con sé un amico con cui dividere i suoi biscotti; era alquanto egoista in quel campo, come ogni bambino con le sue cose preferite, ovviamente.

Ario doveva essere importante abbastanza per il bambino, o per lo meno farlo ridere parecchio.

«Signore, va tutto bene?» l’infermiera si sentì comunque in dovere di compiere il proprio lavoro.

«Sì, sì. Mattia è mio amico.» rispose quello con un tono infantile che alla donna parve parecchio strano.

«Io sono l’unico che lui si ricorda, sai? – disse il bambino tutto orgoglioso per poi aggiungere a bassa voce come fosse un segreto, vedendo l’espressione confusa di Sara, – Ario si dimentica le cose, ma tu non dirglielo perché poi ci rimane male, anche se alla fine se lo dimentica.»

A quel punto la preoccupazione dell’infermiera triplicò. Lasciare un paziente affetto dall’Alzheimer nelle mani di uno spericolato bambino di otto anni, in giro per l’ospedale di notte, non era certo consigliabile. Decise quindi di tenerli d’occhio.

Vedendoli confabulare si ricordò dei biscotti e ne consegnò uno a ciascuno, godendosi le loro facce golose e contente.

Li seguì, assicurandosi che l’anziano paziente venisse riportato nella sua camera senza problemi. Si stupì, di come Mattia si prendesse cura del suo nuovo amico, come se si conoscessero da sempre. Come se si volessero davvero bene, vivendo la loro amicizia tra quei corridoi in penombra, come in penombra era la loro vita all’interno di quell’edificio che un po’ li teneva prigionieri, un po’ li lasciava sognare. Insieme intrecciavano tra quelle stanze una storia che non aveva bisogno di un titolo.

Una storia intessuta tra amici altrimenti impensabili, un’amicizia che forse non sarebbero stata tale al di fuori di quel luogo.

Rimuginando su quanto può essere complicata, disarmante e incomprensibile la vita, Sara ritornò al suo posto. Vide il sacchetto con i biscotti ancora sul ripiano del banco. Ne prese uno e, mordendolo, pensò che, quella sera, osservando i due amici, si era sentita ancora bambina.

Prima di dirigersi al grande ascensore argentato per andare a casa alla fine della giornata, Elisabetta si diresse verso la camera del signor Berni. Si era infatti presa a cuore l’anziano paziente dalla memoria sbrindellata e ogni giorno lo andava a salutare, e nonostante lui non si ricordasse mai di lei i due si trovavano a loro agio insieme. La signorina Rossi, dolce e paziente, aveva un carattere che ben si adattava a quello del signor Berni, reso ingenuo dalla malattia.

Aveva legato molto anche con il piccolo Mattia che regolarmente la seguiva nella camera di Ario per fargli visita.

Giovanni rappresentava il quarto elemento di quella bizzarra combriccola. Quando ripensava a Giovanni, Elisabetta arrossiva leggermente. Le piaceva il suo sorriso e la sua cordialità, per non parlare del suo affetto verso tutti i piccoli pazienti dell’ospedale.

Era un tipo stravagante, probabilmente adatto più a un circo che al camice bianco, così diverso da lei, e la tempo stesso così complementare.

La signorina Rossi pensò alla cena che avevano in programma l’indomani sera. Sentiva le gambe molli, non era il tipo di ragazza spavalda e pronta a tener testa a un uomo, lei.

Forse era per questo che piaceva tanto a Giovanni. Però lei ancora non lo sapeva.

Entrando si accorse che a fare compagnia ad Ario c’erano Mattia e la vedova Politti.

Stupita si chiese la ragione di tale visita.

«Buonasera.» la salutò cordialmente la signora. Sembrava avere un carattere totalmente diverso rispetto al giorno in cui si erano incontrate la prima volta.

Ario come sempre aveva un’aria persa, ma molto allegra, come se fosse consapevole che quello era un bel momento, ma non riuscisse ad afferrarne esattamente il perché. Continuava a sorridere in direzione di Elisabetta, poi voltò lo sguardo verso la vedova e stupito chiese: «Margherita?»

«Ario, per la millesima volta! E’ mia nonna, non tua moglie.» esclamò il piccolo.

Il vecchio si riscosse, ma non perse il sorriso.

«Lei assomiglia molto a mia moglie, sa?» disse gentile alla signora accanto a lui. Lei sorrise di rimando e annuì con estrema pazienza.

«Bene credo sia giunto il momento di andare, vero Mattia?» disse lei dopo un attimo.

«Cinque minuti!» cinguettò il bimbo.

L’anziana donna si diresse fuori dalla porta dicendo che lo avrebbe aspettato in corridoio. Passando vicino a Elisabetta le sorrise dolcemente e a bassa voce le sussurrò: «So di essere stata scortese l’altro giorno, mi perdoni. Non che ora mi senta troppo cordiale, ma mio nipote era così entusiasta nel presentarmi il suo nuovo amico che non ho potuto dirgli di no e quando mi sono resa conto che si trattava di questo signore non ho voluto dirlo a Mattia. Non lo faccia, la prego, quest’uomo è una delle poche persone a cui l’ho visto affezionarsi così negli ultimi tempi. Lei mi capisce, vero?»

L’infermiera annuì comprensiva, i suoi dubbi chiariti. Dopo che i due visitatori se ne furono andati controllò che tutto fosse a posto, parlò per qualche minuto con il signor Berni e si assicurò che non dovesse nuovamente andare al bagno.

Alla fine, contenta della giornata, si decise ad andare a casa.

«Allora vuoi sapere come è andata con Elisabetta o no?» chiese divertito Giovanni.

«Sì, certo.» rispose il piccolo Mattia intento a giocherellare con il suo stetoscopio.

Al dottor Falchini piaceva parlare della sua vita con il bambino. Non era pettegolo e offriva le sue opinioni innocenti senza tacere nulla.

«Siamo andati a mangiare in un ristorante elegante, il cibo era buonissimo e abbiamo parlato per tutta la serata! Lei è molto simpatica quando la conosci bene.»

«Lo so, è gentile. Ed è anche piccolina, a volte sembra mia sorella. – rispose il bimbo. – L’hai baciata?»

«No, no per carità.» disse il medico.

«Bene.» annuì il piccolo soddisfatto, rabbrividendo alla sola idea di toccare una ragazza.

«La vuoi sposare?» aggiunse poi.

Giovanni scoppiò a ridere osservando la faccia disgustata del suo giovane interlocutore e, tanto per fargli dispetto disse: «Magari sì!»

A quel punto Mattia corse via, come se il dottor Falchini fosse diventato improvvisamente un portatore di peste nera.

Elisabetta dal canto suo era felicissima della cena e ci aveva pensato per tutta la mattinata, il semplice ricordo era una sorta di benzina che la spingeva a compiere ogni gesto con più entusiasmo.

Tutto sembrava per lo più perfetto in quel momento della vita di Elisabetta Rossi e di Giovanni Falchini. Per quanto riguardava invece Mattia Politti e Ario Berni, se non c’era certezza riguardo al futuro, almeno il presente era roseo e spensierato.

Tuttavia bisogna ricordare che ogni storia, anche la più bella, anche quella composta da tante storie diverse, ha una fine. In questa storia più che una fine ci fu un cambiamento, che arrivò il giorno in cui Elisabetta si trovò costretta a fare i conti con il lato negativo del suo lavoro. Arrivò il giorno in cui Ario Berni fu dimesso dall’ospedale. Per Elisabetta era la prima volta. Giovanni ormai ci aveva fatto l’abitudine ai pazienti che andavano e venivano, ma per Elisabetta era una nuova triste esperienza.

Mattia non ci aveva mai realmente pensato a quel momento e Ario, se anche l’aveva fatto, se n’era dimenticato.

Non è mai facile dire ciao, specialmente quando quel ciao è un addio. A volte si ha la forza di farlo perché si spera che l’altro conserverà un bellissimo ricordo di noi. Sapere che ciò non sarebbe successo con il signor Berni rendeva il tutto ancora più difficile.

Rita aspettava battendo nervosamente il tacco lucido sul pavimento, facendolo risuonare con un rumore sordo e fastidioso, troppo impaziente anche solo per appoggiarsi al muro.

Con stizza allungò un braccio, quasi colpendo un infermiere che passava di corsa, per spostare la manica della giacca color crema quel tanto che bastava per guardare l’ora.

Pensava al traffico che l’avrebbe attesa lungo la strada per tornare a casa, alla cena che suo marito avrebbe voluto trovarsi davanti già pronta e a come avrebbe potuto trovare una badante in pochi giorni. Quei problemi che annerivano il suo immediato futuro costituivano una prorompente fonte di nervosismo che la spingeva a volersi allontanare da lì, come se, dando inizio alla catastrofe che avrebbero sicuramente causato, tutto avesse la possibilità di concludersi il prima possibile.

Due profonde rughe si disegnarono attorno alla sua bocca magra quando vide correre verso di lei la piccola figura di Mattia. Ancora una volta si chiese perché avesse accettato tutta quella messinscena. Dopotutto lei non aveva niente a che fare con quel bambino e, se anche suo padre ci teneva in quel momento e nonostante Mattia si fosse rivelato l’unica persona del presente che Ario Berni era in grado di ricordare, egli se lo sarebbe comunque dimenticato nel giro di breve tempo, non appena non l’avesse più visto con regolarità.

Quel bimbo sgambettante e vivace sarebbe stato l’ennesimo pasto dell’implacabile Alzheimer.

«Lo guido io, lo guido io!» esclamò il piccolo come a dar ulteriore fastidio alla signora Renzi. Spalancò la porta e quando i suoi occhi si furono abituati alla luce che entrava dalla grande vetrata, poté vedere il vecchietto che lo aspettava tutto ben vestito, nel suo completo elegante di velluto verde bottiglia che sapeva di cose antiche, seduto sulla sedia a rotelle, in una mano un cappello dalla visiera larga che si intonava all’abito, nell’altra un bastone di legno lucido.

Elisabetta finì di sistemare il colletto della camicia immacolata di Ario e accolse i due nuovi arrivati nella stanza.

«Siamo pronti, vero signor Berni?» disse con la sua voce dolce che tanto s’intonava alla sua piccola statura, accentuata dalla divisa da infermiera.

Non ricordandosi il nome della giovane donna, ma calmato dalla sua voce posata e sicura, l’anziano signore si limitò a sorridere e annuire con entusiasmo. Se da una parte sentiva che c’era un posto migliore dell’ospedale che lo stava per accogliere, dall’altra una parte di se stesso gli sussurrava che lì c’erano delle persone che non voleva lasciare, anche se non riusciva bene a metterle a fuoco, ad eccezione di Mattia,.

«Signor Berni, questa è Rita Berni Renzi, sua figlia. Se la ricorda? Si prenderà cura di lei, non si preoccupi.» spiegò Elisabetta, come ogni qual volta che introduceva quella donna ad Ario.

Incapace di riportare alla mente qualunque ricordo di sua figlia, in quel momento almeno, il dolce vecchietto si limitò ad annuire, questa volta con meno entusiasmo, come rendendosi conto che Rita non era una di quelle persone che sentiva di non voler lasciare; lei era quella con cui sarebbe andato a vivere. La guardò cercando di provare qualcosa, sapendo che si trattava di una sua parente, ma non riuscì a sentire nulla: sua figlia era per lui una totale sconosciuta. Ciò lo rese particolarmente suscettibile in quel momento e, arrabbiato con sé stesso, preferì non dire nulla.

Accordandosi silenziosamente con lui, Rita lo imitò e uscendo dalla stanza lasciò che Mattia si mettesse dietro alla sedia a rotelle e iniziasse a spingerla lungo il corridoio.

Il bimbo si divertiva, camminava sempre più veloce, fino quasi a correre la loro ultima corsa in quell’ospedale; rallentò solo in prossimità del bancone grigio dove Giovanni li aspettava nel suo camice colorato e la palla rossa ben attaccata al naso.

«Buon giorno signor Berni, come sta?» chiese allegro.

«Bene bene, grazie.» rispose Ario educatamente, per poi chiedere a Mattia: «Chi è quell’uomo?»

«E’ Giovanni. Vedi? Sta con Elisabetta, l’infermiera che ti ha vestito. Secondo me finiscono per sposarsi. Ti immagini che schifo baciare una donna? Bleah!» rispose quello con una smorfia di innocente disgusto.

Il signor Berni non rispose, non del tutto certo che quanto descritto dal bambino fosse poi così rivoltante.

Elisabetta e Giovanni si fermarono vicini e agitando le mani salutarono Ario Berni, mentre Rita proseguì, superandoli e dirigendosi verso l’ascensore, quel limite che Mattia non poteva varcare e che per tutto il tempo in cui il suo vecchio amico aveva soggiornato nell’ospedale era stato luogo di mistero e fantasie e timore.

Il bambino e l’anziano, accomunati il primo dalle esperienze che forse non avrebbe mai potuto avere, il secondo da quelle che aveva dimenticato, si avviarono verso il corridoio principale, la carrozzella accompagnata dall’ormai familiare ciaf ciaf dei calzini antiscivolo del bambino.

Mattia si fermò proprio di fronte al grande ascensore argentato, quello di mezzo, quello più grande affiancato dai due più piccoli.

Rita aspettava dentro, tenendo bloccate le porte. «Fate presto, che qui gli ascensori servono.» intimò. Lei, delle scene d’addio, si era stufata tanto tempo addietro, ormai avvezza alla smemoratezza di suo padre. Dentro di lei, in realtà, si rattristava sapendo che quest’ultimo avrebbe dimenticato anche quell’ennesimo momento e se ne dispiaceva per il bambino. Il suo essere brusca, in fondo, era forse un barriera di difesa che aveva eretto intorno a sé per impedire che ciò con cui doveva combattere tutti i giorni la toccasse troppo profondamente. Non avrebbe potuto farci i conti, altrimenti.

Troppo magrolino per compiere il gesto, Mattia lasciò che Rita voltasse la sedia a rotelle in modo da farla entrare nell’ascensore in retromarcia.

Proprio prima di varcare quella misteriosa soglia, che pure esercitava sui due un certo fascino, Ario si sporse e prendendo una mano del bambino chiese: «Restiamo amici, vero?»

«Certo. – rispose quello, – Amici per sempre.»

Camilla Carniello

LA MORTE TI FA CANE di Daniela Bellandi Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE TI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE DI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

Da lassù poteva vedere tutta la città. Le luci colorate dei negozi che si accendevano una dopo l’altra con l’imbrunire. Era bello guardare dall’alto ciò che lo circondava. Dava un senso di potere. Era come se quel senso di inferiorità e frustrazione per un attimo lo avesse lasciato. Ma aveva deciso ormai, troppi anni aveva passato con questo disagio, troppe le umiliazioni che aveva dovuto superare ogni giorno. E’ vero, aveva solo 15 anni, presto avrebbe cambiato scuola, non avrebbe più visto quelli che sarebbero dovuti essere i suoi amici, ma non ce la faceva più a sostenere tutto e era certo, che come una calamita, avrebbe attirato a sé solo fallimenti, perciò era la decisione giusta. L’ultimo pensiero a sua madre Lisa.

Lei aveva messo al mondo Martino all’età di 19 anni. Nonostante la giovane età, dal momento che aveva stretto tra le braccia il suo bambino aveva acquisito la maturità e il senso di responsabilità di una vera mamma.

Di certo non si poteva dire lo stesso di suo padre Federico. Pochi mesi dopo la sua nascita aveva sposato sua madre, perché messo alle strette dai genitori, ma non aveva mai dimostrato realmente amore per Lisa e soprattutto per Martino, che considerava la causa della sua prigionia matrimoniale.

In casa stava pochissimo, probabilmente frequentava altre donne, e le poche volte che c’era, o litigava con la madre o si chiudeva nella sua stanza a strimpellare con la chitarra elettrica che aveva ricevuto il Natale prima proprio da Lisa.

Era molto giovane anche lui e questo lo poteva forse giustificare, ma lasciare sua moglie e suo figlio il giorno del suo quinto compleanno era imperdonabile. Martino era piccolo, ciò nonostante l’immagine di suo padre che usciva di casa con le valigie, senza degnarlo di uno sguardo, senza nemmeno avergli fatto un regalo di compleanno o meglio di addio, era vivida nei suoi pensieri. Ma ancora più viva e ancora più terribile era l’immagine di sua madre seduta in terra, in bagno, straziata dalle lacrime, e quella frase detta per dolore e rabbia «è tutta colpa tua». Martino sapeva che non lo pensava davvero ma il suo cuore non l’aveva mai accettato realmente. Era colpa sua se il loro amore era finito, colpa sua se suo padre li aveva abbandonati, colpa sua se da quel giorno sua madre dovette fare almeno due lavori al giorno per mantenerli, colpa sua se il sorriso della donna era sempre velato da un’amara tristezza.Era per tutto questo che si era convinto che togliersi la vita avrebbe risolto le cose. E poi a scuola, quello stupido di Davide. Non aveva mai odiato nessuno così tanto, nemmeno suo padre. Ogni giorno c’erano insulti, umiliazioni e talvolta anche schiaffi. Sua madre diceva che era lui che si estraniava senza darsi l’opportunità di avere degli amici. Diceva che anche ai suoi tempi c’erano i “bulletti” della classe e che stava a lui tenerli a debita distanza o magari diventarci addirittura amico. Ma lei non poteva capire e Martino non aveva intenzione di darle altre preoccupazioni.

Fu grazie a Davide che decise che quella fosse la giornata adatta per farla finalmente finita. La mattina in classe, non si sa perché avevano litigato e Davide con solo l’intento di ferirlo gli aveva detto ridendo che aveva fatto bene suo padre ad abbandonarlo, perché era solo un fastidio per tutti e che nemmeno lui evidentemente lo sopportava. Il cuore di Martino si riempì di quella convinzione e prima di diventare un fastidio anche per la sua adorata madre decise di sparire. Il vento tiepido primaverile gli accarezzava dolcemente i capelli. Non era più andato a tagliarli: «mamma si arrabbierà di nuovo», ma ormai sua madre non l’avrebbe più rivisto perciò non esisteva nemmeno più quello stupido problema. Chiuse gli occhi e si librò nell’aria. «Chissà se farà male?», fu l’ultima cosa che pensò e poi più nulla.

Si stava allacciando le scarpe quando un colpo di tosse attirò la sua attenzione. Non ricordava come fosse arrivato nella sua stanza, ricordava soltanto di trovarsi sul tetto della scuola. E soprattutto non si ricordava minimamente del ragazzo che seduto sul suo letto lo guardava con un sorrisetto maligno e sarcastico. Aveva pressappoco la sua età ma fisicamente non si assomigliavano per niente. Martino non era molto alto e piuttosto magro. I suoi capelli erano perennemente spettinati e all’altezza delle spalle, brillavano di un rosso carota, ovviamente naturale. Nonostante il colore dei capelli e due grandi occhi verdi la carnagione di Martino non era poi così chiara. Quella dell’estraneo davanti a lui invece era del colore del latte. Era inquietante, soprattutto perché metteva in risalto due occhi azzurro ghiaccio e dei lunghi capelli biondi. L’altezza poi già notevole era accompagnata da una longilineità innaturale.

Continuando a sorridere quest’ultimo porse la sua mano a Martino in attesa che lui gliela stringesse. «Morriss» si presentò. Martino non fece in tempo a rispondere che lo sconosciuto lo interruppe «si so chi sei e mi stupisco di scoprire che sei dannatamente stupido, visto che non hai ancora capito chi sono. Come ci chiamate voi? Dei della morte? Angeli sterminatori? O quel termine giapponese che amate tanto voi adoranti dei manga, Shinigami? Beh più o meno è così, ovviamente non abbiamo un nome così stupido: chi ci conosce davvero ci chiama tramiti. Coloro che guidano le persone che… beh… si, sono finite.. oops… morte, all’entrata del a) paradiso b) inferno a/b) purgatorio. Una sorta di hostess ma senza quel noioso giochetto con le mani per spiegare le uscite di sicurezza. Ahimè qui non ce ne sono. Anche se…» ma si interruppe velocemente. «Parlami di te piuttosto, perché mai hai deciso di splash! Tuffarti sbadatamente senza acqua?» Martino era confuso, intimorito e poi non avrebbe mai pensato che un Dio della morte, o quello che era si presentasse vestito in giacca e cravatta…bianchi! Non riuscì a rispondere così Morriss incalzo’ «tremendamente noioso… Eppure non sembravi così male da vivo. Sai di anime in pena come te ne ho accompagnate tante, si lo ammetto mai come Peter del “reparto over 70”, ma anche io me la cavo. Si…devi sapere che ogni Tramite ha una fascia di età. E a me sono toccati gli adolescenti, per la mia apparente giovane età, anche se in realtà ho superato da poco la novantina. Anche io sono morto alla tua età, ma di morbillo. Erano altri tempi, c’era la guerra e avrei pagato qualsiasi cosa per ritornare a casa con i miei genitori. Invece ho chiuso gli occhi per sempre in ospedale. Ma ero in gamba e presto sono stato promosso Tramite.» nel suo viso un velo di assoluta tristezza l’aveva reso più umano che mai. Martino ebbe un sussulto: «ma che ho fatto? Suicidarmi a 15 anni! Ma come ho potuto fare una cosa simile? E mia madre? Come l’avrà presa? Sarà distrutta! Io ero l’unico nella sua vita. L’ho uccisa con me..» Il ragazzo non riusciva a calmarsi, a nastro dalla sua bocca frasi che spesso diventavano prive di senso logico. Si era finalmente reso conto di quanto fosse importante quello che aveva, ma era troppo tardi. «Morriss ti prego riportami indietro!» il Tramite perse totalmente il suo sorriso sarcastico. «tutti me lo chiedono, sai, e a tutti do la stessa risposta. Spiacente non si può’ tornare indietro! Ma vedi tu mi piaci particolarmente e io non amo per niente le regole. Ci sono cose della tua vita ormai passata che devi ancora capire. Persone che devi rincontrare e conoscere più a fondo. Non posso riportarti indietro ma posso darti la possibilità di vivere un anno, ma nei panni..beh…di un cane. Un cucciolo randagio in cerca di risposte e della sua strada. Che ne dici accetti?» Martino rimase attonito, la confusione che prima regnava nella sua testa si trasformò in caos totale. Un cane? Aveva capito bene? Era uno scherzo! Morriss lo osservava impaziente, finché non ruppe il silenzio «Hey! Non ho tutto il giorno…perfetto, deciderò io per te. Vedrai che da randagio ti divertirai tantissimo e ridendo a squarciagola sparì». Rimasto solo sentì l’esigenza di uscire di casa, intanto sua madre non sarebbe ritornata fino alla sera o fino a che qualcuno l’avesse informata di quello che era accaduto a suo figlio. Attraversò velocemente il piccolo giardino che separava la strada dalla porta di casa. Camminava senza una meta vera e propria e fu durante questo sconosciuto itinerario che cominciò a percepire i primi cambiamenti. I colori attorno a lui perdevano la solita luminosità era come se un pittore avesse ripassato tutto con scale di grigio. Non serviva strofinarsi gli occhi incredulo, l’effetto non cambiava. Improvvisamente il profumo di sua madre lo fece fermare e incredulo si trovò ad annusare il muretto che costeggiava il marciapiede. Lei era stata qui. Nel frattempo altre decine di odori lo attiravano e piano piano si catalogavano nella sua testa. Non sapeva come reagire. Capiva perfettamente che non c’era niente di normale nell’alzare la gamba su un muro e farsi prontamente pipì nei pantaloni, ma era un istinto incontrollabile che doveva assecondare ad ogni costo. Era nella piazza centrale davanti al suo negozio di videogiochi preferito quando di punto in bianco si trovò accasciato in terra. Sentiva di non avere più le scarpe ma soprattutto sentiva il terreno sotto di lui in modo diverso, come se sotto ai piedi ci fossero dei veri e propri cuscini. Ma presto capì che non era nulla di tutto ciò, bensì le zampe e i polpastrelli tipici dei cani. Non fece in tempo a stupirsi che d’impulso cominciò a grattarsi ripetutamente il collo. In un attimo scoprì che i suoi capelli erano stati sostituiti da del pelo corto ma morbido e che le sue orecchie adesso erano sporgenti e dritte sulla sua testa, con la parte più alta piegata verso il basso.

Il suo corpo si era completamente trasformato in quello di un cane, ora restava l’ultima prova da fare: la voce! Provò a dire il suo nome scandendo lentamente le lettere ma invece di una parola uscì un guaito davvero ridicolo. Si poteva dire che non aveva certo un abbaio molto virile, tanto da pensare che pure da cane era un cosiddetto “sfigato”. Questo pensiero, non sapeva perché, lo metteva di buon umore. Morriss gli aveva anticipato che sarebbe stato un randagio e per prima cosa un vagabondo doveva trovarsi da mangiare anche perché così affamato non era mai stato.

Girava per le strade con il naso per aria in cerca dell’odore di qualcosa di commestibile e vicino, ma tutto sembrava inutile finché non capitò davanti al panificio dove era solita comprare il pane sua madre. Il profumo del pane appena sfornato non fu l’unica cosa che attirò la sua attenzione dalla vetrina riuscì per la prima volta a vedere la sua nuova immagine. Era palesemente ancora un cucciolo, sembrava un batuffolo di cotone tutto bianco, a parte una mascherina nera sul muso e nell’estremità più alta delle orecchie. Stava ancora guardando la sua immagine riflessa quando dalla porta di fianco a lui un giovane ragazzo uscì sorridendo. L’unica persona che non avrebbe mai voluto incontrare: Davide!

D’istinto a Martino si drizzò il pelo e gli ringhiò minaccioso. Finalmente poteva vendicarsi. Ma più cercava di essere minaccioso più gli uscivano dei suoni ridicoli e dolcissimi come un peluche che veniva schiacciato.

Davide non solo non fu intimorito ma si dimostrò completamente impazzito di gioia e di affetto per quel cucciolo. « Sei affamato piccolo?» Martino provò ad intimorirlo in qualche modo ma improvvisamente il suo stomaco “rispose” alla domanda del ragazzo.

Un panino caldo e soffice gli si presentò davanti al muso e Martino non seppe resistere. Senza nemmeno accorgersene si trovò in braccio al ragazzo. Era davvero stanco, gli occhi gli si chiudevano da soli. Cercava di combattere il sonno per pianificare una via di fuga ma l’abbraccio di Davide era caldo e in men che non si dica Martino si era già addormentato tra le braccia del suo nemico.

Si svegliò dopo un paio d’ore e notò che era su un enorme cuscino morbidissimo posto su un letto singolo. Doveva essere la camera di Davide. Lo aveva intuito dai poster di personaggi sportivi alle pareti e dalle decine di fumetti che riempivano la libreria. Guardando i titoli scoprì che erano davvero molti quelli che anche lui aveva amato quando era ancora un ragazzo. Gli sembrò di ridere, ma uscì prontamente un buffo guaito. Sentì arrivare di corsa Davide. « ti sei svegliato Casper?»

Aveva sentito bene il suo nuovo nome? Era Casper? Come il fantasmino dei cartoni. Era uno scherzo? O il destino era stato così sadico e ironico da farlo chiamare in quel modo? Ahimè, anche questa volta fu Davide a decidere e Casper sia!!

Le giornate con il suo nuovo padrone passavano inaspettatamente bene, nonostante cercasse ripetutamente di morderlo “Martino/Casper” si stava affezionando davvero. Gli aveva insegnato un sacco di giochi, passavano tutto il tempo libero insieme e quando Davide non poteva giocare con lui, magari per lo studio Casper si appallottolava sulle sue gambe e dormiva felice. Spesso aveva malinconia di sua madre ma le cure del ragazzo celavano prontamente quel dolore. Della sua vita si occupava esclusivamente lui con amore e responsabilità, dalla pappa ai bisogni fuori, dal bagnetto alle cure veterinarie, tutte detratte dalla sua paghetta. Casper o meglio Martino cominciava seriamente a domandarsi se fosse stato lo stesso ragazzo che a scuola lo umiliava e spesso lo picchiava.

Ma solo una mattina capì davvero che dietro alla maschera di durezza di Davide c’era una persona molto sensibile e buona. Stavano facendo colazione, quando sua madre esordì: «ho visto la madre di Martino ieri pomeriggio. Pensano seriamente che si sia suicidato. E’ una cosa terribile!» il ragazzo subito non aprì bocca, ma poi rispose in un modo davvero inaspettato: «pensa come doveva stare male, mamma. Pensa cosa doveva sentire dentro di lui per fare una cosa del genere. Sai spesso lo prendevo in giro pesantemente, non avrei mai dovuto.» la madre lo interruppe rassicurandolo e spiegandogli che Martino sapeva che erano scherzi tra ragazzi e che purtroppo ci sarà stata una motivazione ben più seria. Ed ecco che Davide fece rimanere di sasso il giovane cane che lo stava osservando attentamente: «A volte mi manca davvero molto». Ma non ebbe il tempo di elaborare il valore di quest’ultima frase che dalla porta d’ingresso entrò un uomo molto alto e robusto. Doveva essere suo padre. Era la prima volta che Casper lo vedeva. Nemmeno a scuola si era mai fatto vivo. Nonostante fossero parecchi giorni che l’uomo non si presentava a casa il figlio e la moglie lo salutarono come se fosse rientrato dopo essere stato via solo cinque minuti. E ancora più strano fu il repentino cambio di argomento in modo quasi imbarazzato se non spaventato. Solo più avanti Casper avrebbe capito che la sensibilità di Davide non sarebbe di sicuro stata capita dal padre. Dopo la scuola Davide si chiuse in camera sua per studiare come ogni giorno, ma questa volta a distrarlo c’erano le urla dei suoi genitori che litigavano nella camera a fianco. « La tradisce continuamente e vuole pure avere ragione» la faccia di Davide si era trasformata, sembrava come deformata da una rabbia accecante. «non lo sopporto più, sono stanco» con le lacrime agli occhi strinse tra i pugni la matita, spezzandola. Il cane gli portò il guinzaglio con l’intento di farlo scappare un attimo da quella casa. E quando, come ogni volta, suo padre cominciò a insultare la moglie per aver cresciuto un inetto di figlio, un buono a nulla, Davide raccolse l’invito del suo amico a 4 zampe. Casper cominciava a capire molte cose. Erano davvero simili loro due e quell’atteggiamento superiore e strafottente che aveva sempre avuto verso di lui era il suo modo per nascondere tutto il suo dolore. «Dove stai andando? Devi finire i compiti! vedi di diplomarti se non vuoi che ti cacci a calci nel sedere insieme al tuo cane. Cerca di prendere esempio da tuo padre che alla tua età era già caporeparto di un’officina. Prendi esempio e cerca di diventare come il tuo vecchio!» Era un monologo. Il figlio non poteva e non voleva rispondere. Chiuse la porta di casa con foga e morsicandosi le labbra disse rivolto al cielo: «io non sarò mai come te. Io lotterò e sarò migliore di te! Lo giuro!» Casper gli leccò le mani, avrebbe voluto stringerlo e dirgli che ce l’avrebbe fatta, che ne era sicuro. Erano molto simili, ma la forza di Davide che era mancata a Martino. Chissà dove sarebbero arrivati se fossero diventati amici?

Ormai aveva dimostrato a Davide che nonostante la giovane età sapeva tornare a casa solo e spesso saltando la staccionata del giardino lo andava a prendere a scuola, con in cuor suo la speranza di vedere sua madre. E fu proprio in questo modo che la rivide dopo quasi due mesi dalla sua morte. Stavano proprio tornando da scuola, quando incrociò il suo sguardo. «ciao Davide, che bel cagnolino» Casper cominciò a tirare verso la donna voleva saltarle in braccio, baciarla e piangere con lei. «Le piace particolarmente signora, guardi come tira per venire da lei». Con un debole sorriso ammise di essere terrorizzata dai cani declinando cosi l’invito del cucciolo e cambiando strada salutando il ragazzo. Casper era deluso ma convinto che per un attimo gli occhi di sua madre avessero visto dentro di lui dentro il vero Martino.

Ma del vero Martino ogni giorno rimaneva sempre meno. I ricordi di ragazzo sembravano piano piano dissolversi lasciando posto a quelli della sua nuova vita da cane e questo non gli dispiaceva affatto. Ma era tutto troppo bello.

…La piazza era gremita di gente, un rumore assordante, e poi un altro, e un altro ancora…Gli venne in mente la prima volta che, ancora bambino, lo portarono a vedere i fuochi d’artificio nel paese vicino al suo. Ne era affascinato e non ne era per niente spaventato. Invece adesso gli sembrava d’impazzire. Era terrorizzato. A guidarlo solo l’istinto di scappare, tornare a casa o almeno nascondersi in un posto sicuro al riparo da quei rumori terrificanti. Il collare gli stringeva la gola, si sentiva soffocare ma era più forte di lui, doveva scappare! Uno strattone più forte e il guinzaglio scivolò via dalle mani di Davide. Invano il suo tentativo di fermarlo, Martino era già lontano. Correva disperato tra la folla che incantata, dai giochi pirotecnici non lo aveva nemmeno notato. La sua corsa continuò fino a una piccola baracca abbandonata ai bordi della spiaggia. I pescatori la utilizzavano in passato per tenerci le esche le canne e tutto il necessario per la pesca. Non gli era del tutto sconosciuta ma era buio era spaventato e non riusciva a capire dove potesse trovarsi. L’unico pensiero: Davide! Lui non l’avrebbe mai lasciato da solo, l’avrebbe cercato fino in capo al mondo. D’altronde era il suo migliore amico. Decise cosi di riposarsi un po’ nell’attesa che arrivasse Davide. Rannicchiato vicino alla porta della baracca con il muso sulle zampe anteriori si addormentò sognando di abbracciare presto il suo padrone. Dormiva ancora ma come sempre vigile e attento quando si sentì tirare la coda con forza. La bocca spalancata nel finto tentativo di morsicare il colpevole. Girò il muso all’attacco e vide Morriss che si divertiva beato. Il gelo gli trapasso tutto il corpo. «sono morto di nuovo? Che ho combinato questa volta?» così ruppe il silenzio il ragazzo/cane davvero spaventato. « Sei vivo come non lo sei mai stato mio caro Martino! Perdonami, Casper! Solo che è passato un anno proprio oggi e sono venuto a riscuotere il mio premio.. » « Tu sapevi che sarebbe andata a finire così, che Davide sarebbe diventato il mio padrone che proprio oggi sarei scappato da lui» mentre Martino parlava le sue sembianze umane riprendevano possesso del suo corpo, ma il ragazzo non si sentiva per niente a suo agio. «modestamente ho conoscenze importanti “ai piani alti” e qualcosa mi era stato anticipato» rispose Morriss con fare ironico. «Prima di portarti via con me voglio farti vedere due cose». Davanti a lui si materializzò uno schermo che proiettava degli ologrammi. «La prima immagine che vedi è tua madre nel momento stesso in cui ha appreso la notizia della tua morte.» Davanti a lui una visione terrificante: sua madre si dimenava tra le braccia di alcuni medici, con il viso straziato dal dolore e dalle lacrime, tremava convulsamente, finché all’improvviso stramazzò a terra svenuta. A seguire alcune immagini della quotidianità della donna. Non c’era un momento dove lei fosse serena o non piangesse, il velo di malinconia e di tristezza che aveva da quando suo marito l’aveva lasciata era diventato una maschera di dolore che le aveva plasmato totalmente i lineamenti. Spesso si chiudeva nella stanza di Martino e stringendo il suo cuscino implorava il figlio di perdonarla. Martino urlò al vento che non era colpa di sua madre che…no, lei non centrava. Si sentì lacerare il cuore, si buttò in terra e cominciò a prendere a pugni la sabbia. Morriss voleva abbracciarlo ma si limitò a sfiorargli la testa con la mano. Aveva sbagliato tutto, l’aveva resa ancora più infelice dandole un dolore che non l’avrebbe mai abbandonata. Ma Morriss gli aveva detto che c’era un’altra visione da mostrargli.

Questa volta davanti a lui le lacrime strazianti di Davide, la sua ansia, il suo correre a perdifiato per cercarlo. Il gridare che era il suo unico amico e per nulla al mondo avrebbe potuto fare a meno di lui. Questa volta Martino reagì violentemente. Velocemente strinse la sua mano destra al collo di Morriss conscio del fatto che non gli avrebbe fatto niente visto chi era in realtà, ma era stata una reazione spontanea. «cosa vuoi dimostrarmi Morriss? Forse che sono solo capace di fare soffrire le persone, che sono la causa di tutti i mali? Beh…questa volta ti sbagli di grosso, ho sbagliato tutto con mia madre ma ho coltivato la possibilità che mi hai dato con amore e intelligenza e mai e poi mai avrei fatto soffrire Davide. Lui ha bisogno di me, come ne aveva la mia mamma ma non posso tornare indietro perciò darò a lui tutto quello che avrei dovuto dare a lei. Nessuno soffrirà più per causa mia! » Morriss lo guardò soddisfatto. « e cosi ci sono riuscito.. Hai capito che non era questo che volevano coloro che ti amavano. Che Davide è solo un ragazzo con tanto dolore nel cuore. Che suo padre non l’ha abbandonato ma è come se lo facesse ogni volta che si vergogna di lui. Che tua madre si sentiva viva solo quando tornava a casa e vedeva il tuo viso anche se spesso imbronciato. E soprattutto hai capito che la vita è un bene troppo grande. Guarda me, dall’alto della mia posizione invidio te che puoi vivere ancora nelle sembianze di un cane. Ma proprio per questo la scelta è tua: vieni via con me, con il tuo bagaglio di ricordi sbiaditi, con ciò che hai imparato, sapendo che vicino a te c’erano davvero molte persone che ti amavano; oppure decidi di restare con Davide ma cancellando tutti i tuoi ricordi; sarà come se non fossi mai stato Martino». Morriss lo abbracciò affettuosamente.

…Era la sera dell’ultimo dell’anno, le persone erano in fibrillazione per i fuochi d’artificio. Davide teneva forte il guinzaglio nonostante avesse il cane in braccio stretto stretto a lui. Cominciarono i botti che stranamente a Casper piacevano, era divertito e a ogni esplosione leccava la faccia del suo padrone e ululava alla luna. Finiti i giochi pirotecnici si liberò dall’abbraccio del padrone e cominciò ad annusare i vestiti delle persone accanto a lui. Finché un odore strano acre fastidioso attirò la sua attenzione. In un attimo davanti a lui la sua vecchia vita di cui fino a quel momento non ricordava più nulla. Una piccola ferita si aprì nel suo cuore e poi Morriss. Casper fu terrorizzato «tranquillo sono qui solo per un salutino» con un cenno del capo gli indicò una donna tra la folla. Sua madre! Con coraggio le si buttò tra le braccia cominciando a leccarle il viso. Lei incredula ma per niente spaventata rispondeva alle coccole del cucciolo. Poi un istante i suoi occhi dentro quelli del cane… Martino! Solo un nome sospirato e una lacrima a rigarle il viso. Poi il mondo tornò alla normalità, il cane disorientato ritrovò Davide, ora potevano tornare a casa.

Daniela Bellandi

Inaugurazione nuova libreria per ragazzi Cuccumeo

Aggiornamento magico ma veloce. Vi scrivo per segnalarvi una nuova libreria in cui i libri e i giovani lettori sono gli assoluti protagonisti. E’ stata aperta, a Firenze, sabato 5 marzo. Il suo nome è CUCCUMEO Libreria per ragazzi non vietata agli adulti.

Se vi capita di girovagare da quelle parte fateci un salto, entrate e comprate i libri del vostro cuore. Vi aspettano Teresa, Bianca ed Elena!

Informazioni: Libreria Cuccumeo via Enrico Mayer 11-13/r   50134 Firenze. Tel. 055 483003.