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IL GUERRIERO DELLA LUCE di Alessio Scalia – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

IL GUERRIERO DELLA LUCE

di Alessio Scalia

Corso Adulti- Secondo Livello

Chi sono? Beh, è complicato. Posso dirvi che non avrei mai immaginato che per colpa di un cellulare magico e maledetto, mi sarei ritrovato sul letto di morte con qualche misero giorno da vivere, in condizioni atroci, condizioni che non augurerei al peggiore dei miei nemici.
Come ogni buona storia, inizio con il raccontarvi qualcosa di me.
Ogni mattina, al mio risveglio, mi guardo allo specchio. Ormai è diventata un’ossessione. Mi scruto attentamente il torace e le braccia, verifico l’altezza, e infine, salto sulla bilancia per controllare il peso. E rimango deluso. Nonostante m’ingozzi quasi fino a vomitare, resto magro come il telaio di una bicicletta e alto quanto un cucciolo di pinguino. Ma perché? Mi chiedo esasperato.
E poi… inizia l’incubo!
Indosso le mie felpe armate di cappuccio, inforco la bicicletta, mi copro il capo per nascondere la mia identità e vado a scuola. Intendiamoci, non è la scuola il problema. Con i libri e i compiti me la cavo benissimo. Sono molto intelligente; il primo della classe. Ma ogni volta che metto piede all’Istituto Archimede, dove frequento la terza media, mi arriva puntuale il batticuore. E allora come un topo impaurito striscio tra gli altri alunni.
Faccio tutto questo per sfuggire agli occhi del mio nemico: Tony Menansio. Tony mi perseguita. Tutte le volte che mi vede, gli cola una bava schiumosa dalla bocca, vorrebbe pestarmi a sangue.
Il fatto è che ho paura di battermi, una paura indescrivibile. Forse è per via del fisico gracile o del carattere pacato e pacifico che possiedo. Alcune notti sogno di essere un guerriero, uno che uccide, che sa maneggiare armi e spade. E soprattutto, un guerriero che trabocca potere da ogni poro della pelle. Ma appena salto giù dal letto e sto per affrontare la giornata, deluso mi rendo conto di essere un comune mortale.
Comunque, l’unica spiegazione plausibile dell’astio che Tony prova nei miei confronti, è che a entrambi piace l’incantevole Tania, la ragazza più carina della scuola. È per questo che lui vuole eliminarmi, credo.
Il mio desiderio più grande è andare al ballo di fine anno insieme a Tania. Ma quando mi ritrovo a parlare con lei, sento un groppo in gola e comincio a tremare. Mi piacerebbe farla sorridere con qualche battuta o sorprenderla con un gesto romantico, tipo scriverle una lettera anonima o invitarla in una pizzeria che porta il suo nome; e invece resto muto come un pesce congelato. Sono timido, che posso farci!
Come avrete già capito non sono un macho. Porto gli occhiali e amo i computer e i videogame. Insomma, il tipo di persona che non piace alle femminucce e che non si mette in mostra facendo lo spavaldo. Da grande voglio diventare inventore di giochi o programmatore di computer.
Tuttavia quella ragazza mi piace davvero. Sono un illuso! Come posso pensare che lei, la più incantevole della scuola si interessi a un marmocchio come me? E poi c’è Tony. Se sapesse che ho invitato Tania al ballo, non ci penserebbe due secondi ad accartocciarmi come un foglio di carta da buttare via.
A scuola, Tony se ne va in giro dicendo a tutti le peggiori cose di me: “Matteo Fugiotti è un verme e io lo schiaccerò al pavimento”, oppure, “Matteo Fugiotti è un fifone, striscia come uno scarafaggio quando mi vede”.
Penso che l’unico modo per farla finita con quest’incubo sia quello di diventare grande e grosso. Come vi ho detto prima, però, la strategia di ingozzarmi di cibo fino a vomitare ha fallito miseramente.
Non posso continuare a scappare come un coniglio. Mi piacerebbe che una mattina mi svegliassi già un uomo adulto. Perché tutto questo agli adulti non succede, giusto? Prendiamo per esempio mio fratello maggiore Silvio. Lui non scappa mai da nessuno. Lo trova ridicolo. Difatti lui di mi prende in giro perché a me succede, di scappare.
Quando torno da scuola dopo avere scampato il pericolo Tony, Silvio si avvicina a me, si accorge che ansimo e che ho il viso pallido, e piuttosto che aiutarmi, mi deride. Incredibile! Avrei preferito un fratello più protettivo, pronto a difendermi, invece lui si diverte.
“Qualcuno ti ha tallonato e sei fuggito come un perdente, vero?” ipotizza, ghignando disgustato. “Quand’è che impari a combattere da vero uomo? Cacasotto!” conclude Silvio mostrandomi i muscoli possenti delle sue braccia, con una smorfia indignata stampata sul volto.
All’età di sei anni, assistetti a un litigio di Silvio. Si prendeva a mazzate con un ragazzo più massiccio di lui. Poi, a un tratto, il naso di mio fratello cominciò a sanguinare: l’altro gli aveva mollato una capocciata da brivido al setto nasale. Forse è proprio per colpa di questa cosa se tremo davanti alla violenza. Mi ha fatto rendere conto che fare a pugni è doloroso.
Quando Silvio fa un po’ troppo lo spaccone con me gli ricordo l’accaduto, per farlo tornare con i piedi per terra. Lui, offeso, solleva i pugni e si prepara a colpirmi. Finisce che gliele suono di santa ragione… al videogame, ovvio. Con i muscoli che ha Silvio non potrei mai sognarmi di sfiorarlo.
Io vorrei frequentare la palestra come fa lui. Mamma dice che a tredici anni sono troppo piccolo per sollevare pesi, potrei rimanere basso come sono e questo nemmeno a me sta bene.
Mamma ha rifiutato persino di iscrivermi a Karate o pugilato. Teme che mi faccia male. Secondo mamma sono un genio, e non devo sprecare il mio tempo in simili sciocchezze. Dice che da grande avrò successo perché riesco a fare cose straordinarie con cellulari e computer.
Adoro quando dice queste cose! Mi fa sentire davvero speciale!
Spesso, però, ho come la sensazione che sia rimasta male per non aver avuto una figlia femmina e cerchi di trattarmi come tale. È da quand’ero piccolo che mi ripete di essere un tipo sensibile, pacifico e gentile e fa di tutto per far si che mi comporti a quel modo. No che sia sbagliato, ma troppe volte mi ha negato regali come pistole, fionde o armi giocattolo. Per tutta la mia infanzia mi sono sentito soffocato. E adesso che sono un adolescente, lei insiste con quell’atteggiamento. Questo mi da fastidio. Perché continua a trattarmi così? Non sono una femminuccia!
Ultimamente abbiamo litigato tanto, troppo. Sembra che non ci sia più modo per andare d’accordo.
Alla fine, comunque la mamma ha deciso di iscrivermi in piscina. Speriamo che il nuoto mi faccia diventare alto e forte come papà. Mio padre è la copia esatta di Silvio, anzi, Silvio è la copia esatta di mio padre. Entrambi sono convinti che i veri uomini affrontano i problemi a muso duro. A ora di pranzo, per colpa loro, sono costretto a sorbirmi alla televisione ore e ore di spietato Wrestling, ed è in quel momento che inorridito immagino di finire sotto le mani del mio nemico. Vorrei essere come loro, ma non ci riesco.
Papà mi ha raccontato che una volta sono stato molto coraggioso. Io quel giorno lo ricordo solo a frammenti.
Ero al circo con i miei, avevo circa sette anni e tenevo in mano un laser rosso. Adoro le luci, e quel laser lo porto sempre con me da quando sono nato. Non so perché, ma non me ne distacco mai. La grande D dorata, stampata sull’impugnatura mi è sempre piaciuta un sacco.
Ma torniamo al racconto del circo. Sotto gli occhi vigili della mamma, scesi la gradinata e andai a comprare un batuffolo di zucchero filato. Di colpo, una tigre sfuggì al domatore e ringhiò in modo spaventoso davanti alla mia faccia. Tentò di azzannarmi. Un secondo dopo il felino crollò a terra con una ferita profonda inflitta da una lama affilatissima. Tra il pubblico c’era chi sosteneva che fossi stato io a compiere l’omicidio, con il laser, che si era trasformato improvvisamente in una spada luminosa.
Ma naturalmente nessuno crebbe a questa ipotesi assurda. La polizia non trovò nessun arma. Per giorni l’ispettore esaminò con estrema attenzione il mio oggettino preferito, senza riscontrare nulla di insolito. Io, come i miei genitori, sono convinto di essere stato salvato da qualcuno che poi ha avuto timore di rivelare la sua identità. Perché come vi ho detto, sono sempre stato un po’ codardo, e non credo affatto di aver trafitto una tigre.
In fondo è vero, sono più simile alla mamma. Tutti e due adoriamo pizza con funghi e patatine, ne ingeriamo tonnellate. A Meganvill, la grande città dove abito da quando sono nato, sfornano la migliore pizza del mondo. Le strade sono sempre affollate, negozi e locali gremiti di persone, anche di notte. Un bel luogo per un ragazzo della mia età.
Tuttavia sono giunto alla conclusione che è molto meglio essere adulti. Partiamo dal presupposto che un adulto non potrebbe mai aver paura di Tony. E non se la farebbe sotto a invitare una ragazza bellissima al ballo di fine anno.
Gli adulti si recano a lavoro con le auto, nessuno gli da ordini, possono rincasare tardi e, quando commettono degli errori, si assumono semplicemente la responsabilità e vanno avanti, senza che qualcuno li punisca o li obblighi a restare chiusi in camera.
Nessuno può comprendere cosa provo.
L’unico che sembra capirmi è Filo, il mio piccolo gatto. Mi osserva spesso con i suoi occhi penetranti ed è come se mi dicesse: “Ti prego, Matteo, restiamo in casa. Ho paura di tutti quei cagnacci che gironzolano la fuori”.
È un fifone come il padrone.
Eppure, stranezze della vita, nella mia famiglia qualcuno vorrebbe essere proprio come me e imitarmi in tutto. Parlo di Pierdavide, mio fratello minore. Ci divertiamo insieme e andiamo d’accordo. Però è troppo piccolo per aiutarmi ad affrontare i problemi che mi assillano e allora preferisco non confidarmi con lui. In realtà, quello di cui ho bisogno è un vero amico.
Ultimamente sono riuscito a fare amicizia con Lucas, un ragazzo più grande di me. Non so come l’ho convinto a frequentarmi, siamo così diversi! Il fatto è che mi piacerebbe essere deciso e fico come lui. Lo ammiro!
Chissà se Lucas darebbe una bella lezione a quel bullo di Tony, ponendo fine al mio incubo. Così finalmente andrei a scuola senza preoccupazioni e potrei avvicinarmi a Tania, indisturbato.
Tania. Quant’è carina! L’ho pensato dal primo momento che l’ho vista. È stato un incontro del tutto casuale e anche se sono trascorsi dieci mesi lo ricordo perfettamente…

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LA CASA DEI MISTERI di Letizia Pagani – Primo Livello Bambini. Corso di Scrittura Online

LA CASA DEI MISTERI di Letizia Pagani
Primo Livello Bambini. Corso di Scrittura Online

Tutti sanno che in quella casa nulla è normale.
E’una casa di montagna.
Si trova in un prato, lontano qualche kilometro dal paesino lì accanto, a duemila metri di quota sul Monte Bianco.
La casa, più che una semplice baita, è una villa.
Disabitata da più di trent’anni.
Si dice che fosse abitata da una famiglia, i Cutloff, che aveva due figli, un maschio e una femmina, ma un giorno, si racconta, che essi scomparvero. C’è chi sostiene che in giardino ci siano i cani maledetti, cani con gli occhi rossi, guardiani della dimora che si cibano di carne umana.
Invece alcuni sostengono che dentro, non ci sono i fantasmi, ma gli zombie.
Nessuno sa com’è però all’interno.
Si dice in giro, che, una notte, il vecchio Smilt, passasse davanti alla villa.
Diceva di aver visto uno dei cani maledetti e sentito delle urla raccapriccianti provenire dall’abitazione.
Ma nessuno sa se è vero ciò che dice, visto che è sempre ubriaco fradicio.

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IMPRONTE DI PARADISO di Giulia Acquistapace. Primo Livello – Corso Adulti

IMPRONTE DI PARADISO
di Giulia Acquistapace
Primo Livello – Corso Adulti

Il sole morente aveva concluso da pochi istanti l’ennesimo ciclo quotidiano tuffandosi nel mare sul versante della Grecia e le prime luci artificiali cominciavano a punteggiare la costa fino a Santa Maria di Leuca, disegnando una calda linea che delimitava ad occhio nudo nella notte il confine fra terra e mare.
Un uomo, accovacciato, dava gli ultimi ritocchi ai preparativi per la serata: due bicchieri, una bottiglia di champagne in fresca, due sedie a sdraio e tutto lo splendore della piscina solfurea di Santa Cesarea Terme erano un ottimo presupposto per il buon esito dei propri intenti. La Tramontana aveva spazzato per tutta la giornata il mare e il cielo, allontanando le nubi scure e la cappa d’afa che da giorni gravavano il respiro e facevano appiccicare addosso gli abiti leggeri di un fine Settembre che ancora sapeva d’estate. Il cellulare dell’uomo squillò: dall’ingresso qualcuno annunciava visite. L’uomo non attese, riattaccò la conversazione e riprese la posizione eretta. “Grazie al cielo”, pensò fra sé mentre si allontanava per ricevere l’ospite. Fece a due a due i gradini che lo riportavano a livello della strada e sfoderò prima dell’ultimo balzo il miglior sorriso, che andò tuttavia a spegnersi non appena scorse di spalle il venuto. “Ci mancava solo questa. Devo liberarmene al più presto o andrà tutto a monte prima ancora di cominciare, maledizione!”. Intanto il nuovo venuto si voltò senza entusiasmo al gesto del bagnino che indicava l’arrivo della persona richiesta. “Buonasera, dottore.”
“Buonasera a lei. A cosa devo il piacere della visita?”, mentre i tratti del volto tradivano il fastidio e l’impazienza.
“Ma prego, accomodatevi.” Il visitatore guardò dal sotto in su l’uomo che era venuto a cercare: “Spero di non aver interrotto nulla.” “Non vi preoccupate, mi preparavo alla mia consueta nuotata. A causa di impegni per oggi è stata posticipata e non saranno certo altri cinque minuti di attesa a rovinarla”, disse, sottolineando quei cinque minuti come a voler indicare il tempo massimo concesso per qualsiasi rimostranza (e ne era certo: se lo sgradito ospite si era preso al briga di venir fin lì, si sarebbe trattato sicuramente di una questione spinosa). Fece quindi strada facendo un cenno di congedo al bagnino che, sollevato, tirò giù con uno strattone la saracinesca del suo baracchino e si diresse con passo svelto verso casa.

*
CAPITOLO I

“In questo campo ci starebbe a meraviglia un gregge di pecore.” L’ispettore Anna De Rosa era così: se ne usciva all’improvviso con i commenti più improbabili senza una connessione logica col resto del dialogo. E suonavano ancora più assurdi se calati nel silenzio astioso di una deviazione tanto inattesa quanto inopportuna nella campagna salentina arsa dal sole. Il commissario sbuffò, guardando di sottecchi dallo specchietto retrovisore la collega abbandonata sul sedile posteriore dell’auto che, con sguardo svogliato, perlustrava il paesaggio senza prestare grande attenzione e soprattutto senza dare un sostanziale contributo nel raggiungere la meta. La cartina giaceva senza vita sulle gambe della donna, che teneva fisso il dito in un punto imprecisato della Puglia, mentre con l’altra mano si aggrappava alla maniglia del passeggero per evitare gli scossoni dati dalle buche della strada secondaria. “De Rosa, questo non è il presepio: un gregge qua, due pastori lì. A meno che non ci sia anche una stella cometa che ci conduca a destinazione!”. Nicola Renzi, al volante, sogghignò sotto i baffi. “E tu, Renzi, che ti vanti di essere del luogo! Invece di ridere: dove siamo? Non dirmi ancora che ci siamo persi! Se andiamo avanti così quel morto farà in tempo a diventar polvere prima del nostro arrivo!”. Renzi tornò serio: “Dotto’, non si preoccupasse! E’ qui, è qui! Siamo già a Porto Badisco: sa, qui mi ci portava sempre la mia nonna in bicicletta. Sapesse che mare! Anzi, se solo avessimo tempo, magari di ritorno…” “Renzi, guida e non fare programmi! E sbrigati, o persino il magistrato sarà lì prima di noi!”. “Comandi, commissario!”. Il silenzio tornò sull’auto che sfrecciava ora più decisa lungo la strada costiera che collegava Otranto a Santa Cesarea Terme, costeggiando ora la costa ora la campagna brulla, interrotta ora qui ora lì da qualche raggruppamento d’alberi selvaggi resistenti all’arsura. Le poche case di Porto Badisco passarono rapide al di là del finestrino e così il pezzo di discesa che ancora separava la Polizia dal luogo del ritrovamento. Arrivati in città, Renzi accostò parcheggiando con difficoltà l’auto al bordo del marciapiede della strada secondaria affollata che conduceva allo stabilimento termale. Il commissario saltò giù prima della fine della manovra, allontanandosi ma non abbastanza in fretta per non vedere gli ultimi dettagli dell’operazione: un colpo dietro ed uno davanti avevano concesso al pilota, con disappunto del superiore, di piazzarsi a puntino fra l’ambulanza e quella che ad occhio e croce poteva essere la macchina del medico legale: una punto anni Novanta da cui la dottoressa Malabarba, per motivi ignoti, non voleva separarsi.
“Commissario Melissano, prego per di qua.”, gli si fece incontro un uomo sulla cinquantina, verosimilmente il responsabile in seconda delle terme, dal momento che l’amministratore delegato, scesi alcuni scalini, giaceva su una sdraio al bordo della piscina sulfurea, evidentemente morto. “Dottor Riboni.”, fece Melissano. “Com’è successo? Avete qualche sospetto?” Il commissario già sapeva dalla recente telefonata intercorsa col medico legale che molti parlavano di suicidio. Riboni confermò quanto anticipato: “L’ha trovato qui il bagnino, il Vito (sottolineando con l’anteposizione dell’articolo al nome quanto le sue origini fossero lontane dal luogo del delitto). C’era una bottiglietta marrone con della polverina lì ai piedi della sdraio e lui era lì”, fece indicando con l’indice, “ proprio come lo vedete adesso. E poi c’erano i bicchieri, la bottiglia di champagne intatta… Sa, il Vito non l’ha voluto toccare! Che se poi la jella…” “Basta così”, fece Melissano, interrompendo quei commenti molto meno lombardi della dizione del nuovo facente funzioni. “Qualche problema? Qualcosa che secondo lei possa giustificare un gesto estremo come questo?” “Bha, non saprei. Lo stabilimento andava a gonfie vele. Anzi, Aldo aveva in mente qualcosa che proprio in questi giorni avrebbe fatto fare il salto di qualità alla struttura. Era un segreto, voleva parlarcene solo ad affare concluso, ma si vedeva che era al settimo cielo. Forse, ma non so… sa… il paese è piccolo… i pettegolezzi…”. Era evidente che Riboni voleva parlarne. “Vada avanti”, fece Melissano. “Bhe, sa… dicono che Aldo da qualche tempo si frequentasse con la Nina, la moglie del dottor De Bellis, il medico qui dello stabilimento. Lo sapevano in pochi, né! Fatto sta che il dottore aveva vinto un posto a Viterbo, in clinica, ed era intenzionato a lasciare Santa Cesarea con la moglie. Che so, magari non sopportava di essere lasciato… Sì perchè le donne fanno così, dicono dicono, ma quando si tratta poi di fare…” “Va bene, basta così.” Senza aspettare altro, il commissario andò verso il cadavere. “Fermò lì!” Melissano inchiodò. Scocciato, si voltò lentamente a vedere da dove la voce provenisse. Di lì a pochi metri c’era un omone appoggiato alla cinta di recinzione della piscina, imponente nella divisa arancione sormontata dalla chiara scritta: 118. “Prego?”, scocciato il commissario. “Sta’ a inquina’ la scena.” L’accento era romano, forse più di acquisizione che di nascita. Fumava un sigaro corto, depositando con cura la cenere nel piccolo contenitore ormai vuoto, attento a non disperdere tracce di tabacco bruciato. “La scena?” “L’ho delimitata, non vede?” Melissano si voltò: in effetti, di lì a poco il suolo circostante al cadavere era delimitato da nastro fluorescente. Gli oggetti entro il perimetro erano a loro volta etichettati con piccoli numeri e delimitati da stretti circoli di indelebile nero. “Bene, bene. Giochiamo al piccolo investigatore pure!” “Io non gioco. Ho delimitato la scena.” ribadì scocciato. Melissano si arrese. “Ho il piacere di parlare con il dottor…’” “Ulisse Lellis. Sono infermiere.” Non si preoccupò di stringere la mano che il commissario gli tendeva. Spense nella scatoletta definitivamente il sigaro. “Ho sentito tutte le stronzate che quello là – indicando con un cenno di sufficienza del capo Riboni – le ha raccontato. I bicchieri sono due. Uno è finito là, dietro la sedia a sdraio. E a me ‘sta storia non piace. E poi là c’è un’impronta. Ho isolata anche quella.” Il commissario rimase perplesso: non si fidava per usuale diffidenza, ma non si sentiva di bollare come stupidaggini le affermazioni di quell’infermiere che in fondo sembrava saperla lunga. E non solo a parole. Si limitò quindi a un cenno e procedette, aggirando la scena. Il medico legale era già lì. “Nella.” “Oronzo.” Si erano conosciuti ad una prima visita alla questura di Bari pochi mesi prima del trasferimento di Melissano dalla questura di Lodi. La dottoressa, bassa e rotonda, gli aveva subito ispirato simpatia. “Ti aspettavo. Sei invecchiato. Quanto ci hai messo?” Il commissario si passò la mano fra i capelli grigi che gli arrivavano alle spalle, abbassando gli occhi scuri sulla pancia un poco prominente al di sotto della camicia rigata azzurra e bianca. “Lasciamo perdere. Tu invece? Cosa mi dici?” “Ritengo improbabile il suicidio, se lo vuoi sapere. Troppo gonfio. Non ti so dire altro. Appena possibile, prenderò il tutto e lo porterò in laboratorio per l’analisi.” “Bene. E dell’impronta?”, aggiunse di malavoglia. “Uh, uh! Hai conosciuto il nostro Ulisse!”, fece Malabarba. Il commissariò fece un basso rumore gutturale in risposta, con una vaga cadenza interrogativa. “E’ un ottimo infermiere legale, lavora al 118 nella sede di Gallipoli. Abbiamo già lavorato insieme. E risolto alcuni casi grazie alla sua competenza. Non lo giudicare: lui è così. Ma ti potrà essere di aiuto, fidati. E’ in gamba. Comunque – dopo una breve pausa – non mi dice nulla l’impronta. Fra poco arriveranno i RIS, fagliela notare. Appena so qualcosa ti chiamo. Arrivederci, Oronzo!” “Arrivederci, Nella.” Si separarono, il medico legale verso la sua borsa e il commissario verso i suoi che nel frattempo l’avevano raggiunto. “De Rosa, con me.” Si allontanarono aggirando la piscina e si accomodarono per guardare in distanza la scena. Anna estrasse il block-notes. “Abbiamo un cadavere, Aldo Frontini, amministratore delegato dello stabilimento termale. Abbiamo due bicchieri e una confezione dal contenuto ignoto. Abbiamo un amante, Nina Cova, e un marito cornuto, tale medico del centro termale, dottor…” “Livio De Bellis, titolare di un posto a Viterbo, in partenza nei prossimi giorni.” “Brava! Vedo che hai seguito.” Anna si limitò a scuotere i capelli ricci raccolti un una corta coda di cavallo. Gli occhioni verdi guizzavano sulle parole annotate. “Abbiamo un probabile futuro amministratore delegato, Giacomo Riboni. Abbiamo un bagnino, Vito Russo, l’ultimo dei presenti a vedere la vittima viva e il primo a ritrovarlo cadavere. E’ lì, nell’angolo. Se poi vuole interrogarlo…” “Vedo che hai già provveduto. Che ti ha detto?” “Niente di più di quello che ho riportato ora. Era sconvolto e spaventato. Ed ha un alibi: stanotte ha dormito dalla fidanzata, tale Grazia.” “Va bene, ci preoccuperemo poi di verificare.” Nel frattempo giunsero i RIS e con loro giunge anche il magistrato. “Dottor Marangi.” “Dottor Melissano – si salutarono. Novità?” “Per ora nulla, ma stiamo indagando. A quanto pare ognuno dei coinvolti ha una propria versione dei fatti.” “Bene. Cioè, male. Smobilitiamo il prima possibile. L’aspetto fra due ore qui in comune nell’ufficio dei Vigili per il punto della situazione. E mi raccomando Melissano, discrezione. Discrezione!”, e si separarono.

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L’ESAME di Marika Susio. Secondo Livello – Corso Adulti

L’ESAME
di Marika Susio
Secondo Livello- Corso Adulti

“E’ sicura di volere entrare nella nostra scuola?” chiese l’insegnante.
“Sì” rispose l’alunna.
“Bene. Sta iniziando un’avventura assai complessa. Il corso d’addestramento durerà all’incirca due anni, per accedervi dovrà superare cinque prove.
Iniziamo dalla prima.
Descriva nei minimi dettagli se stessa. Non menta. Non è importante l’indole del suo carattere. Può essere buona o cattiva. Ciò che conta è la passione. Mi deve stregare.
Voglio sapere quante più cose di lei. Età, lavoro, la città dove vive, chi frequenta, le sue esperienze pregresse, i problemi che affronta ogni giorno, gli amori, le amicizie, i nemici, le sofferenze, le malattie, le gioie etc etc.
Ha bisogno di chiarimenti?”
“Non credo”.
“Bene. Allora inizi”.

*
“Sono nata in un piccolo paese alle porte di una cittadina del nord Italia. Erano gli inizi degli anni quaranta. La guerra stava finendo.
Di quel periodo ricordo poche cose. Le spesse tende scure che non lasciavano filtrare la luce per i bombardamenti e un buffetto fattomi da un giovane soldato tedesco, il giorno in cui le truppe alemanne lasciarono la villa dei conti per tornarsene definitivamente in Germania.
Strana la memoria.
All’età di dieci anni ho fatto la baby sitter in una villa signorile in una città vicina.
Roberto, il bambino affidato alle mie cure aveva due anni più di me. Buffo vero? La differenza tra chi proveniva da un mondo povero rispetto ad un mondo ricco era, ed è ancora, per molti versi, notevole. Io, quinta di sette sorelle, ho dovuto crescere in fretta. Sin da piccola mi è stato insegnato il valore della sopravvivenza, dove nella mia famiglia era inteso con il motto “l’unione fa la forza”. Ognuna di noi, nel proprio piccolo doveva badare a sé, ai bimbi più piccoli e al contempo contribuire ai lavori quotidiani, che comprendevano oltre alle faccende domestiche, lavori nei campi e nell’aia del padrone di cui mio padre era mezzadro. Continue reading

COME SOLDATINI DI PIOMBO di Cinzia Vianini. Primo Livello – Corso Adulti

COME SOLDATINI DI PIOMBO
di Cinzia Vianini
Primo Livello – Corso Adulti

La grossa busta rettangolare gialla era appoggiata al centro del tavolo da laboratorio-infermeria. Sparse c’erano ampolle e provette colme di liquidi colorati. Il dottor Tower sapeva benissimo cosa conteneva quella busta! Aggiustandosi gli occhiali dalla montatura nera e quadrata, si avvicinò cautamente: la mano cominciò ad allungarsi verso quell’oggetto “benefico”. Ma la calotta cranica del dottor Tower, completamente calva a causa di un difetto congenito, era diventata madida di sudore. Segno che da qualche parte, stava ancora pulsando una coscienza.
-“Sono cinquantamila dollari”- lo incalzò Mr Hate –“il gruzzolo ideale per abbandonare questo posto troppo misero per le vostre capacità di chimico e specialista genetico”. E in effetti la massima aspirazione del dottor Tower non era certamente quella di lavorare come analista specializzato presso la “Mr Brown Chemical Industry” di Trenton. A quelle parole così dannatamente allettanti ebbe la visione di un grande laboratorio, dotato di attrezzature di ultima generazione, indispensabili per le sue ricerche.
A questo punto l’ ultima titubanza del dottor Tower crollò come un castello di carte.-“ Ci vediamo qui domani sera alla stessa ora”- gli rispose infilando velocemente nella tasca del camice la busta con i soldi: sembrava che avesse toccato un tizzone incandescente. A quella affermazione  gli occhi grigio cenere di Mr Hate si allargarono in un sorriso perverso.
Con una premura quasi paterna il dottor Tower aprì il contenitore metallico appoggiato sul piccolo tavolo del laboratorio. Due liquidi di colore diverso, uno giallognolo, l’altro violaceo, spiccavano in altrettante grosse siringhe di vetro.
–“ Cominceremo con questa”- spiegò lo scienziato indicando quella di sinistra. Non appena Mr Hate fu pronto, gli strofinò la spalla destra con un batuffolo di cotone intriso di disinfettante.
–“Questo è il siero che potenzierà a livello esponenziale la vostra mente: potrete “sentire” i pensieri di ogni abitante di Trenton, scoprirne debolezze ed angosce”-e così dicendo con un colpo deciso infilò l’ago nella pelle diafana. Mr  Hate non sentì alcun dolore: era troppo concentrato nell’osservare quel liquido paglierino entrare inesorabilmente nelle sue carni.  -“Con un potere del genere,sarò onnipotente”- disse l’uomo guardando il fluido che quasi del tutto sparito, stava già iniziando il folle viaggio verso il cervello. -“non sarò più il semplice Direttore del Personale di una ditta di fertilizzanti chimici, ma l’uomo più temuto e rispettato al mondo!”.
Detto questo, indicò con l’indice destro la seconda siringa:-“ Quando potrò iniettarmi l’altro liquido?”- chiese al chimico con occhi stranamente luccicanti. –
“ L’ho già spiegato ieri”- gli rispose con leggera apprensione-“ devono trascorrere almeno  otto ore dalla prima iniezione, per evitare contaminazione tra i due sieri.
–“ Allora”- insistette Mr Hate-“ potrei portare la siringa a casa e procedere con l’operazione domani mattina, non è una cosa difficile, vi prometto che rispetterò le vostre indicazioni”.
Il dottor Tower, pur di liberarsi il più presto possibile di quella pesante incombenza, gli consegnò velocemente il contenitore. Quando l’uomo uscì dal laboratorio, il chimico tirò un sospiro di sollievo ma, toccandosi la fronte, si accorse che il palmo della mano era umido.
Era già notte inoltrata quando arrivò nei pressi del fiume Delaware: la sua casa di legno azzurro dal tetto spiovente era l’unica della zona. Nessun altro, a parte Mr Hate, avrebbe mai potuto vivere in un posto così solitario: era un luogo incantevole, intendiamoci, ma a lungo andare la semplice compagnia dei germani reali sarebbe andata stretta a chiunque. Arrivato  alla soglia dei cinquant’anni gli mancava una presenza femminile accanto, una donna  che lo attendesse per l’ora di cena e appendesse tendine fiorate ai vetri delle finestre. Ma come avrebbe mai potuto trovare una compagna con un aspetto fisico sgraziato come il suo? La risposta stava nella scatoletta metallica che portava sotto il braccio.
-“Potenziare al massimo mente e corpo”- ripeteva tra sé mentre infilava la chiave nella toppa della porta d’ingresso.
– “Controllare l’animo  di ogni singolo uomo e non essere più solo”-. Tale pensieri lo portarono a prendere  una decisione sconsiderata:- “Non aspetterò otto ore, mi sento bene, cosa dovrà mai accadere?”-
La risposta sarebbe giunta alcune ore dopo. Il sonno era arrivato abbastanza facilmente, nonostante il dolore provato con la seconda iniezione. Si era coricato sul letto togliendosi solo la camicia e le scarpe di pelle leggera. Anche se era metà giugno Mr Hate indossava ugualmente abbigliamento autunnale. Mentre dormiva aveva l’impressione che le unghie di mani e piedi “prudessero” ed attorno alle orbite  sentiva delle fitte potenti. Sognò due serpenti dalla pelle verdastra avvolgergli i polsi e cominciare a tirare come se volessero strappargli le braccia dal corpo. Nessuno poteva aiutarlo perché si trovava da solo in una stanza piccolissima. Improvvisamente il pavimento si aprì, i serpenti scomparvero e Mr Hate iniziò a cadere nel vuoto sottostante: spalancò la bocca nel tentativo di urlare, ma non emise nemmeno un verso. Si svegliò di soprassalto: il petto doleva tantissimo e la schiena lo costringeva  a stare molto curvo in avanti. Inoltre si sentiva intontito come se si fosse appena svegliato da una forte anestesia. Decise di recarsi in bagno per rinfrescarsi le idee ma, non appena mise i piedi nudi sul pavimento, perse l’equilibrio, cadendo così all’indietro. Si ritrovò seduto a terra: allungandosi leggermente trovò la torcia elettrica che teneva sotto il letto per le emergenze. Vide che i piedi erano diventati enormi, la pelle ispessita come quella di un elefante e le unghie si erano allungate di almeno dieci centimetri. Lo stesso era accaduto alle mani. Sconvolto camminò a carponi verso il bagno appoggiandosi ai gomiti. Aggrappatosi al lavandino riprese una posizione quasi eretta. L’immagine che vide riflessa nello specchio illuminato fu orribile: i capelli, prima cortissimi e brizzolati, erano diventati scuri e lunghi fino alle spalle. Gli occhi erano color rosso fuoco perché i capillari, rompendosi avevano iniettato di sangue tutto il bulbo oculare. Il naso era rimasto uguale essendo già deforme per conto suo a causa di un pestaggio ricevuto da piccolo. La  bocca  riservò una sorpresa quando la aprì: i canini erano sottili ma molto appuntiti, la lingua più ispessita e lunga il doppio. La sua punta era tagliente come un rasoio; lo scoprì quando la toccò con il polpastrello dell’indice destro. Terrorizzato e conscio del fatto che la responsabile di quella mostruosa situazione era stata un’egoistica bramosia di potere, decise di andare a casa del dottor Tower, nonostante fossero le tre di notte. Poiché indossare la camicia era impossibile, a causa di spalle e braccia aumentate a dismisura, fu costretto a indossare l’impermeabile perché abbastanza grande da coprire anche la sua schiena curvata a semicerchio. Scalzo lasciò quella zona periferica della città. Avviandosi  verso il centro, si trovò ad attraversare un quartiere di media borghesia: villette a mattoncini rossi con ampie finestre divise in tre parti. Mr Hate si fermò ad osservarle perché incuriosito e improvvisamente la sua mente si aprì: come una telecamera virtuale entrò direttamente in quelle case, “vedeva” i loro abitanti dormire tra  lenzuola fresche di bucato percependone anche le sensazioni derivate dai sogni, quali angoscia e malinconia.
–“Ora sei un uomo potente”- pensò- “potrai giocare con le emozioni di chiunque, manipolando le loro azioni come quando giocavi con i tuoi soldatini di piombo”-.
A quel pensiero Mr Hate ritornò all’immagine di un bambino di cinque anni seduto sul pavimento di una stanzetta male illuminata.
-“ Tornerò stasera John” – gli aveva detto il padre capostazione quella fredda mattina di gennaio. Non farà mai più ritorno. Anni dopo Mr Hate verrà a sapere dalla madre che il padre li aveva abbandonati per una collega di lavoro. Da quel momento in poi aveva cominciato a odiare le stazioni ferroviarie. Proseguendo per il quartiere sentì sempre più piacere nell’intrufolarsi nei sogni altrui stabilendone gli esiti. Per la paura di perdere questo straordinario potere, rinunciò definitivamente ad andare dal dottor Tower per risolvere il problema del suo aspetto. Fattasi ormai l’alba, Mr Hate avvisò da una cabina telefonica al lavoro che si sarebbe assentato per due settimane per visitare un cugino malato.
Soddisfatto per la menzogna riuscita, improvvisamente un dolore allucinante cominciò a martellargli le tempie, la vista si indebolì e provò forti fitte allo stomaco. Capì che il tutto era dovuto alla  fame. Senza sapere il perché, girovagando, si ritrovò davanti alla biblioteca pubblica ed essendo giorno decise di entrare dal retro per nascondersi nel magazzino dei libri consumati. Lì, al riparo da occhi indiscreti, la fame ricominciò a farsi sentire e tutto ciò a cui riusciva a pensare era a come poter soddisfarla. Improvvisamente si fece sempre più assillante il ricordo della notte passata a vagare tra una mente e l’altra e  l’aver assaggiato quella energia umana l’aveva fatto sentire così potente e appagato da bramarla anche a livello materiale . L’unico problema era capire come fare ad estrarre quella linfa benefica. La  risposta gli fu data  dalla sua mente ormai mostruosamente alterata – “Con un inganno attira una ignara vittima qui dentro e poi ti dirò cosa fare”-.
La ragazza, di circa vent’anni, si avvicinò curiosamente al locale da cui proveniva lo strano rumore: le ricordava il suo cane quando raschiava con le unghie contro la porta dell’atrio di casa. Non appena abbassò la maniglia, una gigantesca mano artigliata la strattonò all’interno, mentre un’altra premeva fortemente su naso e bocca. Cercò di dibattersi ma una forza sovraumana la sbatté spalle al muro. L’assalitore le strinse il collo finché nel suo giovane corpo non rimase nemmeno un flebile alito di vita. Lasciata la presa, la ragazza gli  cadde tra le braccia come una bambola di pezza. La adagiò prona sul pavimento e con movimenti impacciati le scostò i bellissimi capelli corvini dalla nuca.
–“Devi nutrirti dell’energia vitale che ancora pulsa nelle sue vertebre”- gli gridò la mente affamata e con questo comando Mr Hate affondò i denti appuntiti nella pelle color ambra. Essendo così ancorato poté praticare con la lingua tagliente un’incisione abbastanza profonda da permettergli di succhiare velocemente tutto il midollo spinale. Mr Hate si sentì come se delle ripetute scosse elettriche gli avessero percorso le membra rinvigorendolo e dandogli piena soddisfazione. Il mostro stando attento a non farsi scoprire portò la ragazza nella deserta area di lettura, dove la fece sedere appoggiandole la testa su un libro come  se dormisse. Non aveva provato nessun rimorso per la vittima ma al contrario ,un senso di potere e forza mai vissuti prima. Uscito dalla biblioteca, vide sul cartello stradale collocato al lato opposto della strada l’immagine  stilizzata del treno soffiante una nuvola di fumo. Un folle pensiero gli attraversò la mente desiderosa di vendetta.
Il tenente Frank Giannini raggiunse l’agente Paul Apple sulla scalinata d’entrata della biblioteca comunale .Questi  stava sbocconcellando un grosso hot -dog con salsa allo yogurt.
–“ Si tratta di Marta Smith”- spiegò Paul -“era venuta a documentarsi per un esame, è stata la prima ad arrivare dopo la bibliotecaria che però era indaffarata al piano soprastante. Così il killer ha agito indisturbato”.
Giunti in sala lettura, si apprestarono ad esaminare il corpo della vittima: il tenente, osservando con i bellissimi occhi castani, notò il profondo taglio sulla nuca contornato da due forellini uguali. Mentre era assorto in quella macabra visione, gli squillò il telefonino: dovevano recarsi immediatamente alla stazione ferroviaria. Un treno  merci era rovesciato  con uno squarcio sulla fiancata sinistra, ma la morte si trovava sul treno passeggeri che deragliando gli era piombato addosso. Uno dei pochi sopravvissuti era il conducente del mezzo: si chiamava T. J. Madison, altezza media, capelli corti e ricci e di origine nord africana.
–“Stavo conducendo il treno in stazione quando ho sentito un fastidioso ronzio nelle orecchie e la vista mi si è appannata improvvisamente. Poi una voce,  rimbombando nella testa , mi disse  di deviare il treno e aumentare la velocità. Pur opponendomi con tutte le mie forze, mi sono ritrovato a schiantarmi  contro il merci che arrivava da Harrisburg”. Terminato il penoso racconto l’uomo scoppiò in un pianto copioso. Mentre Frank Giannini annotava tutto, l’agente lo chiamò per indicargli una lunga scia di sangue ancora fresco che proseguiva fino al binario Uno.
-“Non può appartenere ad uno dei feriti perché l’incidente è avvenuto qui, sui binari Tre e Quattro, e nessuno di loro si  è allontanato”-spiegò l’agente Apple.
-“ Sarebbe meglio farlo analizzare come prova.”- disse il tenente di origini italiane-“voglio scoprire qualcosa al più presto possibile”-.
Erano le diciannove e trenta quando il dottor James Mind, affermato psicologo quarantacinquenne, aveva appena lasciato l’ufficio: era in ritardo e a casa lo stavano già aspettando. Per risparmiare tempo, aveva deciso di percorrere il solito vicolo. Stava osservando una fotografia quando  l’ormai ex direttore  lo colpì a morte con un pugno tra le scapole. La foto finendo a terra si ribaltò: la scritta “we love you daddy” sovrastava un cuore che contornava i volti di una donna sorridente tra due bambine gemelle bionde.
Era giunta la sera tarda e il giovane tenente stava seduto alla scrivania dell’ufficio con una tazza di caffè tra le mani fissando con occhi vitrei il foglio bianco su cui avrebbe dovuto scrivere il rapporto. Il sangue dei morti e la disperazione dei feriti alla stazione ferroviaria e il crudele assassinio della studentessa, offuscavano i suoi pensieri togliendogli lucidità. Fu risvegliato dalla voce dell’agente Apple -“Ha appena chiamato la pattuglia 340, hanno trovato il cadavere di un rinomato psicologo in un vicolo non molto distante dalla biblioteca”-.
-“Causa della morte?”-chiese con sospetto il tenente.
-“Impossibile da spiegare senza autopsia, ma anche questa vittima riporta sulla nuca le lesioni della studentessa”-.
Assorto nelle ormai sempre più numerose e variegate supposizioni, Frank riservava le sue speranze di riuscita per la risoluzione del caso nel laboratorio di analisi che si trovava al piano terra dello stesso edificio. Puntualmente arrivò la telefonata tanto attesa.
-“E’ la prima volta che studio un sangue del genere”-disse l’analista indicando il vetrino sotto al microscopio-“ho rifatto l’esame tre volte ma risulta sempre che le cellule umane sono state modificate da qualche agente chimico da me non riconoscibile. Sono comunque certo che la mutazione abbia in qualche modo alterato l’aspetto fisico dell’essere, in quanto le cellule stesse sono diventate di grandezza anormale”.
-“ Conosce chi sappia identificare la causa di questa mutazione?”- chiese il tenente Frank Giannini.
-“Posso consigliarvi il dottor Tower, che lavora come analista presso un’industria chimica: è un forte appassionato di biologia e genetica”-.
La casa del chimico faceva parte di un complesso di villette disposte su tre piani, la sua aveva finestre con imposte azzurre. Accolse i due agenti indossando un camice perché stava lavorando nel suo laboratorio privato. –“Abbiamo bisogno del suo aiuto per analizzare cellule sanguigne umane con anomalie incomprensibili dall’analista del nostro distretto, il quale ci ha raccomandato il suo nome per aiutarci a risolvere un caso”- gli spiegarono gli agenti sulla porta di casa. Il dottor Tower salì sulla volante diretta al laboratorio intenzionato ad aiutarli. Ma quando analizzò la traccia di sangue impallidì dall’orrore perché si rese conto che quelle cellule così radicalmente alterate appartenevano a Mr Hate. -“Non capisco di che si tratti”- mentì al tenente-“avrei bisogno di più tempo e di lavorare nel mio laboratorio maggiormente attrezzato”-.
– “Allora provi con questo campione”-gli disse –“ l’hanno rilevato sulla giacca dello psicologo ucciso ieri sera e siamo certi che il sangue incriminato è lo stesso”-.
Mentre era seduto sul sedile posteriore della volante, il dottor Tower cominciò a fare i conti con la propria coscienza:-” Se si scoprirà la verità verrò incriminato di aver creato un mostro assassino. Mi chiuderanno in prigione e butteranno la chiave. Devo fare qualcosa il più presto possibile!”- Appena giunto  a casa cominciò a cercare una soluzione tra i campionari di antidoti e veleni vari.
Ormai era l’alba, presto sarebbero arrivate le donne delle pulizie, per cui Mr Hate si affrettò ad entrare nel laboratorio-infermeria della ditta per curarsi la profonda ferita alla mano sinistra: stava perdendo troppo sangue.  Intento ad armeggiare con un flacone di disinfettante incolore, non si  accorse dell’uomo in camice bianco  nascosto dietro il paravento. Erano passati ormai dieci minuti preziosi ma il dottor Tower, rimasto paralizzato da quella visione inaspettatamente terrificante,  cominciò a dubitare circa la riuscita del suo piano.-“ Sapevo che sarebbe venuto qui”-pensò lo scienziato-“nel luogo in cui tutto è cominciato e dove può trovare il necessario per curarsi indisturbato”-. Fortunatamente la poca pazienza di Mr Hate nel gestire gli strumenti medicali, fece pulsare una vena sul collo tozzo evidenziandone così la pelle sottile. Approfittando di quel momento di distrazione, il dottor Tower si avvicinò silenziosamente e, con un colpo deciso, lo trafisse in quel punto vulnerabile. L’ago si conficcò saldamente nella giugulare e il chimico spinse lo stantuffo con tutta la forza che aveva in corpo. Riuscì ad iniettare il veleno, ma non fece in tempo a scansare il man rovescio di Mr Hate: fu talmente violento da sbalzarlo contro l’armadietto a vetri del pronto soccorso. Dal contraccolpo questo gli cadde addosso e un pezzo di vetro, staccandosi, si conficcò nell’addome recidendone di netto l’arteria. Il  dottor Tower, prima di morire dissanguato, tolse dalla tasca del camice la busta gialla non ancora aperta: finalmente si era liberato la coscienza da quel grosso peso.
Le vertigini lo assalirono quasi subito: Mr Hate si aggrappò al tavolo, ma le gambe, rimaste normali, iniziarono a tremare come se avesse avuto la febbre molto alta. Inginocchiatosi  sul freddo pavimento, cominciò a respirare affannosamente perché il veleno aveva intossicato i polmoni. Quando stramazzò a terra morto, il volto deformato era completamente cianotico.
Gli addetti delle pulizie arrivati due ore dopo, trovarono molto più  di cestini da svuotare e bagni da pulire: terrorizzati scapparono dall’edificio chiamando la polizia da una cabina telefonica pubblica.
-“Il dottor Tower lo conoscevamo”-disse il tenente Frank Giannini mentre i due corpi disgraziati venivano portati via-“ ma dell’essere mostruoso abbiamo qualche generalità?”-.
-“Nelle tasche del soprabito ho trovato solo questi”-rispose l’agente Apple e aprendo la mano destra mostrò, incisi con le iniziali J. H.,  due soldatini di piombo.

L’ABETE DEI SOGNI di Sonia Scalia. Primo livello – Corso Adulti

L’abete dei sogni
di Sonia Scalia
Primo livello – Corso Adulti

Le parole del mister aleggiavano come stelle filanti nella testa di Leo. Era su di giri. Il ragazzo sapeva che i sacrifici immensi a cui si era sottoposto in quegli ultimi due anni, lo avrebbero portato al traguardo che si era prefisso. I suoi genitori per primi lo avevano incoraggiato a perseverare. La corsa prima di andare a scuola, e i pomeriggi estenuanti ad allenarsi in pista, correndo i 400 metri in tempi sempre minori, finalmente, gli avrebbero permesso di partecipare alle Olimpiadi giovanili che si sarebbero disputate in giugno. Leo voleva urlare di felicità. Per questo, mentre tornava a casa dagli allenamenti, si diresse su per la collina. In cima alla quale lo aspettava un vecchio amico solitario: il maestoso abete. Quello era un posto davvero speciale per Leo. Con quell’abete era cresciuto. Aveva pianto e riso. Sfogato momenti tristi e condiviso quelli belli. L’abete gli faceva compagnia quando salutava la partenza dei genitori. E allo stesso tempo il loro arrivo in automobile. Nel prato, sotto quell’ombrello di rami e foglie aveva imparato a camminare e a correre. Correre: la ragione della sua vita. Come poteva dimenticarlo. Era grato allo spirito di quell’albero che lo vegliava e gli dava la forza di credere in se stesso. Lo sentiva come uno di famiglia.
Nel cielo scesero intanto i fili rosa del tramonto filtrando tra le foglie dorate che pendevano dai rami.
D’un tratto, da dietro il tronco massiccio spuntò Bimba, il pastore tedesco del signor Kadinski. Con un balzo gli andò incontro agitando festante la sua pettorina rossa con impressa una croce bianca.
Il cane pareva volesse festeggiarlo. Leo si chinò e gli strinse le braccia attorno al collo. Poi insieme scivolarono nel secco tappeto autunnale. Leo rise. Il suo sogno stava per coronarsi. E proprio quel pomeriggio il mister glielo aveva ribadito di fronte l’intera scolaresca. Che emozione! Aveva detto che se c’era qualcuno che poteva vincere quella competizione, di sicuro era Leonardo Mancini. Lo attendevano dei mesi faticosi ma lui non avrebbe ceduto alla stanchezza. Nonostante la giovane età, Leo aveva le idee ben chiare riguardo la sua carriera di atleta. Aveva ereditato la tenacia di sua madre e la caparbietà del padre. E nulla gli avrebbe impedito di salire sul podio della più importante manifestazione riservata ai minori di quattordici anni.
<<Bimba, torna qui!>> La voce di Orlando Kadinski lo riscosse da tanti sogni di gloria. Era davanti al suo cavalletto, la tavolozza dei colori in mano. Anche lui trascorreva parecchie ore in quel luogo magico.
Leo si avvicinò al pittore. Bimba lo seguì a ruota e di corsa andò a sfregare il musetto nei pantaloni del padrone come a volerlo tranquillizzare.
<<Sei tu, Leonardo Mancini>> chiese Kadinski, gli occhiali scuri sul naso. Era intento a sfregare le dita impiastricciate sulla tela. <<Odori di terra e fango. Hai corso all’ippodromo, oggi?>>
Leo abbozzò un sorriso in segno di saluto. Ormai si era abituato ai modi un po’ scorbutici del vecchio Orlando. Di sicuro amava l’abete tanto quanto lui. Altrimenti, pur essendo suo vicino di casa, com’è che lo aveva incontrato sempre e soltanto lassù. In quel preciso momento, Leo portò una mano alla fronte, che stupido si disse ripensando al signor Kadinski, lui non poteva vedere il suo cenno.
<<Sì, sono io>> si annunciò Leo a voce alta. E quando giunse alle sue spalle, sporse la testa per osservare meglio il quadro. Il ragazzo sgranò gli occhi mentre stupefatto si soffermava sui dettagli. Il dipinto presentava la scena di un picnic. C’era una bambina che frugava curiosa dentro un cestino portando un toast alla bocca, mentre una coppia di adulti era beatamente seduta accanto a un cane munito di collarino, lo stesso di Bimba, e godeva del paesaggio all’ombra del grande abete. La veduta era mozzafiato, forse ancora più bella della realtà. Minuscole stradine s’inerpicavano lungo il pendio, sormontando le colline e circondando i magnifici vigneti della zona. E in effetti, assaporata con gli occhi la bellezza del quadro, Leo poté respirarne perfino i sapori. Erano lì, tutt’attorno a lui. L’agrodolce della vendemmia, la corteccia legnosa, l’aria frizzante portata dal tramonto e non ultimo, il muschio bianco del dopobarba del pittore accompagnato dal respiro pesante del cane.
Il pittore silenzioso, occhio e croce sessantenne, non badò all’intrusione del ragazzo e proseguì nella rifinizione dell’opera. Intinse i polpastrelli nel colore e con tocchi decisi ne marcò i giochi di ombre e di luce. A dire il vero, Leo ebbe la sensazione che Kadinski stesso fosse finito dentro quel quadro e stesse godendo di quell’intima scena familiare.
<<Si sta facendo buio. Posso accompagnarla?>> lo disturbò Leo. Abitavano a due passi l’uno dall’altro per questo aveva pensato di fare strada insieme e chiacchierare un po’.
Orlando Kadinski arricciò il naso.
<<Ehi ragazzo, so bene come si arriva a casa mia>> gli rimbrottò contro. <<Vuoi farmi credere che ti importa di me. Di un vecchio cieco. Tornatene a casa Leonardo. Dai!>>
Il ragazzo non se la prese. Sapeva, quanto fosse suscettibile il suo vicino. E comunque, Bimba lo marcava stretto senza perderlo di vista un istante. Dunque Leo li salutò entrambi, e prima di andare via, fece una pausa ai piedi dell’abete. Ne accarezzò un ramoscello bisbigliando qualcosa poi si affrettò a rincasare.
Ridisceso il pendio, pur se ancora distante da casa, Leo riconobbe la sagoma pacioccona della badante. Lo aspettava all’ingresso mentre impagliava dei fiaschi. I lampioni illuminavano a giorno l’intero caseggiato mettendo in risalto i colori sgargianti della veste della donna. Aveva un turbante verde in testa e indossava delle stole gialle, verdi e arancioni sovrapposte, lunghe fino ai piedi.
< <Eccomi. Ci sono riuscito Maddy>> le disse varcata la soglia di casa.
<<Lo sapevo>> fu la risposta compiaciuta della badante. Adorava quel ragazzino. Lo aveva cresciuto fin dalle fasce donandogli un po’ di sano temperamento marocchino. <<Corri a chiamare i tuoi>>.
Leo non se lo fece ripetere due volte. Sollevò la cornetta del telefono e prese un blocnotes su cui erano appuntate una sfilza di date relative alla tournèe dei suoi genitori: erano entrambi musicisti.
<<Oggi è il 12 ottobre, dunque l’orchestra si esibisce a New York>> e fece scivolare il dito sulla riga accanto alla data. Ci trovò il numero della stanza di hotel in cui Anna e Carlo Mancini soggiornavano. Lo compose. Era elettrizzato al pensiero di informarli della grande notizia. Chissà quanto sarebbero stati orgogliosi del loro unico figlio. Al quarto squillo ancora nessuna risposta.
Maddy gli diede una pacca premurosa. Leo sorrise. Li avrebbe richiamati più tardi. Carlo e Anna suonavano rispettivamente la tromba e il pianoforte nella famosa Orchestra Sinfonica Galaxy. Facevano tappa in tutti i maggiori teatri del mondo lavorando 300 giorni su 360. Tornavano nella loro casa a Settignano in Toscana poco prima del Natale, e nel periodo estivo, tra giugno e luglio. Erano due persone straordinarie perciò Leo li amava esattamente com’erano. E sebbene ne avvertisse la mancanza, il ragazzo li sentiva molto vicini. Anche perché Anna e Carlo gli telefonavano quotidianamente e pretendevano di sapere ogni cosa, sia bella che brutta lo riguardasse. Inoltre, poteva contare sul loro appoggio e sostegno in qualsiasi circostanza. La decisione di accettare una lunga tournèe in giro per il mondo, lavorando tanto distante dal figlio, per diversi mesi all’anno, non era stata delle più facili. Ma lasciandolo con Maddy gli davano l’opportunità di avere una vita più stabile. Tra l’altro, Maddy, la donna marocchina che se ne occupava, lo trattava con amore come fosse figlio suo.
<<Sei andato a salutare il Principe?>> interruppe il filo dei suoi pensieri la donna portando a tavola la cena etnica. Utilizzava questo nomignolo come gli altri abitanti del paese, per riferirsi all’abete alto pressappoco cinquanta metri.
<<C’era pure Kadinski>> le rispose Leo.
<<Ah, pover’uomo! Sono anni che non si fa vedere giù in paese>> mormorò Maddy e di proposito lasciò cadere la conversazione. Non le andava di rattristare Leo, felice com’era.
Quella sera Leo riprovò a chiamare la sua famiglia ma senza successo. Il concerto immaginò si fosse protratto più a lungo nell’ovazione del pubblico ai musicisti. Sorrise all’idea e si ripromise di telefonare l’indomani dopo la scuola. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ai suoi genitori. Ma il ragazzo non poteva di certo prevedere cosa stava per succedere. Quella telefonata non ci sarebbe mai stata e forse il suo sogno, infranto per sempre.
Il mattino seguente Leo di buon umore si recò a scuola. Le lezioni si susseguirono piacevoli. Nessuna interrogazione a sorpresa. E agli allenamenti superò se stesso, riuscì a bruciare un altro secondo durante il giro in pista. Era al settimo cielo.
Con lo zaino in spalla, traboccante di gioia si accinse ad attraversare la strada e imboccare il sentiero. Voleva andare all’abete, per ringraziare il suo angelo custode e rendere partecipe pure Kadinski, che in fondo, pur cercando di mostrarsi indifferente, pareva gradire molto la sua compagnia e lo ascoltava a cuore aperto, e Leo aveva proprio voglia di parlare all’infinito.
Il ragazzo ancora sul ciglio della strada alzò gli occhi al cielo. Coltri di nuvole lo oscurarono. Un acquazzone era in arrivo. In lontananza udì un clacson strombazzare. Si voltò a sinistra e vide un furgone azzurro lanciato a gran velocità. Sbandava e frenava a più riprese invadendo anche la corsia opposta. Poi parve riprendere il controllo. D’un tratto però puntò dritto verso Leo. I suoi muscoli si paralizzarono. Uno stridio di pneumatici e nel giro di pochi secondi quel furgone gli piombò contro. Il ragazzo emise un urlo e poi nulla. Come coriandoli sparsi per terra, i sogni di Leo gli piovvero addosso allagando di tristezza la sua vita. Nel frattempo la pioggia scrosciante né colpì il corpo svenuto a causa del violento impatto.
Subito accorse gente da ogni dove e immediati arrivarono i soccorsi.
In seguito Leo ebbe difficoltà a ricordare l’incidente ma da subito si rese conto che il dolore lancinante alle sue gambe lo avvertiva di un danno assai serio.
Furono i suoi genitori a raccontargli l’accaduto. Appresa la notizia avevano preso il primo volo per la Toscana. Da loro seppe che quel giorno un uomo di mezza età si era addormentato alla guida del suo furgone. Non sapeva dire per quanto tempo, forse pochi attimi, ma appena riaperti gli occhi se l’era ritrovato davanti. L’uomo era stato dimesso pochi giorni dopo l’incidente con delle contusioni al viso e al braccio. Leo invece, e di questo era esausto, aveva passato due mesi in un letto d’ospedale. Dopodiché, dimesso su una sedia a rotelle.
Adesso se ne stava per conto suo nella casa di Settignano ed evitava di parlare della sua carriera e della competizione di giugno. Si sentiva deluso come se lo spirito dell’abete che lo aveva protetto fino ad allora, d’un tratto si fosse accanito contro di lui affinché non realizzasse i suoi sogni.
<<Ci sono visite Leo>> lo chiamò la madre. Anna e Carlo erano costretti a ripartire tra meno di una settimana. La tournée era stata sospesa in quei mesi. E sebbene non volessero distaccarsi da lui, il medico li aveva rincuorati che Leo avrebbe ripreso l’uso delle gambe. La colonna vertebrale non aveva riportato danni. L’immobilità di Leo era dunque temporanea, causata dal contraccolpo subito nell’urto. Forse uno spirito invisibile lo aveva protetto. La questione era quella di credere di nuovo in se stesso.
Leo spalancò gli occhi alla vista di Orlando Kadinski preceduta da un tuffo d’angelo da parte di Bimba. Era bello rivederli.
<<Ehi campione>> Era la prima volta che il pittore lo chiamava così. Aveva una voce gentile, di cui, Leo si sentì scocciato. Non voleva essere compatito. Ora che il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi Giovanili era andato in fumo. Poi colto dalla rabbia si rese conto di come lui e il suo vicino di casa non fossero invece, più simili di quanto pensasse. Ricordò la reazione di Kadinski quando, l’ultima volta in cui si erano visti, lui si era offerto di accompagnarlo. Si era sentito compatito perché cieco? E ora chi è che si sentiva compatito, lui?
<<Quanto tempo!>> fece a tempo a dire Leo mentre rotolava abbracciato a Bimba sul pavimento.
Anna preoccupata si precipitò pronta a tirarlo su, ma Leo stava ridendo, finalmente. E Bimba abbaiava divertita.
Da quel giorno e nella settimana che precedette la partenza dei suoi genitori, Leo e Kadinski passarono parecchio tempo insieme diventando praticamente inseparabili. Pian piano tra loro si delineò un rapporto di fiducia e di amicizia, e le parole che scambiavano aumentarono di numero. Leo oramai manovrava la carrozzina come un pilota di formula uno, e pareva non volesse più distaccarsene. Perciò Kadinski che lo guardava con gli occhi dell’anima, quando giunse la partenza di Anna e Carlo, approfittò per ricondurlo all’abete. Li avrebbe ritrovato la forza di credere in se stesso.
Pur se in carrozzina Leo s’inoltrò per il sentiero. Il signor Kadinski lo aspettava con Bimba sotto l’abete. L’automobile dei genitori percorse un tratto di strada e due mani si protesero dal finestrino. Leo era in cima alla collina e si sbracciò per salutarli come faceva prima dell’incidente.
<<Riuscirai a perdonarli?>> gli chiese il pittore e gli poggiò una mano sulla spalla.
<<Non sono arrabbiato>> rispose Leo colto alla sprovvista da quella domanda. Continuò ad agitare le braccia per essere sicuro che Anna e Carlo potessero vederlo.
<<Sono partiti e tu sei su una sedia a rotelle>> proseguì duro il pittore . <<La cosa non ti irrita?>> Kadinski stava cercando di smuoverlo. Di farlo riflettere, di fargli capire che ognuno di noi è responsabile della propria vita. Ma non poteva prevedere che a riflettere sarebbe stato pure lui.
<<No. I miei genitori mi amano e sono tornati al lavoro proprio perché credono in me. Credono che io possa guarire>>.
Orlando, come se il ragazzino in qualche modo avesse riaperto una ferita troppo profonda, stupito e allo stesso tempo commosso dall’incapacità di quel tredicenne di provare una qualsiasi forma di collera nei confronti dei genitori, si lasciò andare al fluire dei ricordi. Abbattendo un muro di silenzi innalzato da dieci lunghissimi anni.
<<Sono cieco dalla nascita, ma non ho mai sofferto per questo. Del resto, non occorrono occhi per vedere…>>
Pur se non comprendeva le sue parole, Leo lo ascoltò senza fiatare. Temeva di interrompere la complicità di cui il pittore lo stava rendendo partecipe.
<<Ero felice e sposato. Non sono sempre stato un vecchio solo e bisbetico>> gli disse con un sorriso e accarezzò il muso di Bimba.
<<Non l’ho mai pensato signor Kadinski>> rispose piano e fece una pausa per farlo continuare. Era bello ascoltarlo.
<<Adoravo Jacqueline, mia moglie e nostra figlia, la piccola Lorin. Aveva pressappoco la tua età quando sua madre morì. Ma Lorin ha scelto di andare a vivere con la nonna invece di restare con me, con suo padre. Sono dieci anni che non la sento. Come ha potuto?>> Il signor Kadinski tremava e per evitare che Leo se ne accorgesse riprese la tavolozza dei colori. Questa volta la tela posta sul cavalletto raffigurava il Principe.
<<Sono certo che anche Lorin sarà triste e vuole rivederla signor Kadinski>> si premurò di ricordargli Leo.
<<Nient’affatto. La verità è che mi odia>> Il pittore pronunciò secche queste ultime parole lasciando cadere il discorso.
Soltanto ora Leo capiva quell’uomo tanto solo, il perché non si fidasse di nessuno. Stava male per la figlia. Non le perdonava quel colpo basso. Intanto immerso nelle sue riflessioni il ragazzo si rese conto che sulla tela del pittore c’era, identico all’originale, l’abete. In tutta la sua maestosità.
<<Non capisco come ci riesci se…>> cercò di spiegarsi Leo.
<<Cosa?>> domandò Orlando. <<Se non ci vedo? E questo che vuoi dire? Te l’ho detto, con gli occhi della mente. È la forza dell’immaginazione Leo. È lei che mi da gli occhi per vedere e a te darà le gambe per camminare, e la gioia di sognare ancora>>.
In quel preciso istante Leo si abbrancò a Kadinski.
<<Lo voglio Kadinski! Lo voglio!>> urlò con quanto fiato in gola. E piangendo tentò di sollevarsi. Ma le sue gambe si rifiutavano di reggerlo. Erano pesanti. Ebbe la sensazione di sprofondare. La testa girava.
Il pittore lo incitava a non mollare. <<Forza Leo! Sei un vero campione!>>
Le palpitazioni accelerarono e Leo barcollante si aggrappò alla camicia di Kadinski, tenne duro.
Voleva camminare. Voleva correre. Voleva vivere. Voleva sognare.
Quella fu la prima volta che Leo riuscì a mettersi in piedi. Le lacrime rigarono anche il viso del pittore che lo tenne a lungo stretto in un abbraccio paterno. Leo provò una gioia indescrivibile. Comprese finalmente cos’era la forza che emanavano i quadri di Kadinski, lui viveva dentro quei sogni. Ed era arrivato il momento di farli diventare realtà.
A casa, Leo raccontò a Maddy, e ai suoi genitori per telefono, degli insegnamenti di Kadinski, il suo continuo incoraggiamento e soprattutto dei progressi della giornata. Seppe in cuor suo, che presto avrebbe camminato e perché no, sarebbe tornato in pista tra i favoriti. Quella pista dove un tempo si allenava per partecipare alle Olimpiadi. Poteva farcela.

La primavera a Settignano sbocciò in un’esplosione di fiori, piante e colori. Grazie all’aiuto del vicino, Leo non si era arreso. Aveva creato per se il futuro più bello che un ragazzo potesse desiderare. L’immaginazione trasformava la realtà e lui ora lo sapeva. Ora che faceva lunghe passeggiate in compagnia di Kadinski e corse furibonde con Bimba. Aveva ripreso gli allenamenti e presto sarebbe tornato in forma e forse, ancora più veloce di prima. La carrozzina era solo un ricordo.
In giugno a Roma si tennero le Olimpiadi. Leo pur partecipando non vinse ma era felice uguale. Lui era un’atleta. E dopo tutto quello che aveva passato, ora ci credeva davvero. D’altro canto, i suoi tredici anni gli permettevano di riprovarci l’anno successivo.
Di ritorno a Settignano, in una splendida mattina soleggiata, il paese organizzò una festa in suo onore. Tutti volevano festeggiarlo. Parteciparono anche Anna e Carlo Mancini tornati dalla tournèe; Maddy che preparò dei gustosissimi dolci a base di riso e cannella; i compagni di scuola, gli insegnanti, l’allenatore di atletica e pure Kadinski e Bimba, nemmeno loro vollero perdersi la festa.
E Leo, era molto riconoscente a Orlando Kadinski, perciò aveva in serbo qualcosa di molto speciale per lui. Qualcosa che doveva ancora diventare realtà.
D’improvviso Bimba sparì tra la folla. Il pittore la chiamò senza ricevere in cambio nessuna risposta.
<<È andata per di là>> fece Leo. <<Andiamo a riprenderla!>> Poi lo prese sottobraccio e insieme imboccarono il sentiero che portava alla collina.
Il corteo li seguì. Con in coda la banda musicale al completo risalirono l’altura fino all’abete. In pochi minuti un serpente di gente festante approdò sulla collina del Principe.
Di colpo quel nugolo di persone si zittì. Davanti ai loro occhi si presentarono, disposti gli uni vicini agli altri, una varietà di teli multicolore. Tavoli imbanditi di cibo, toast ripieni e caraffe piene fino all’orlo di succo d’uva e di mela. E sull’abete, i compaesani del pittore, vi appesero dei fogli dentro cui ognuno aveva scritto il proprio sogno.
Quello sarebbe stato un picnic davvero speciale per Kadinski e un giorno memorabile per l’intero paese.
D’improvviso un cane abbaiò. Una, due, tre volte. Kadinski lo riconobbe, era Bimba. La teneva al guinzaglio una donna bionda sulla ventina.
<<Papà!>> lo chiamò, baciandolo sulla guancia. <<Ho avuto paura. Non volevo abbandonarti>>.
Orlando Kadinski era commosso. Le sue labbra tremolavano.
<<Mi sono trasferita dalla nonna perché mi ricordava tanto la mamma. Ero solo una bambina… Lo sai che non sono brava con le parole!>>
<<Tu no, ma lui sì!>> fece il pittore e puntò l’indice verso Leo come se potesse vederlo. Dopo dieci interminabili anni Kadinski riabbracciò la figlia. Quel tredicenne lo aveva aiutato a realizzare il suo sogno.
Poi il pittore addentò un toast, e col cuore pieno di felicità ammise a se stesso che quello era il sogno più bello che avesse mai fatto. Era la realtà.

IO SONO IMMORTALE di Alessio Scalia. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

IO SONO IMMORTALE
di Alessio Scalia
Primo Livello – Corso Adulti

Accarezzai i capelli lisci e biondi di Gabriel mentre sorrideva estasiato. A cinque anni è più che normale esplodere di gioia anche per una piccola escursione nel bosco. Eppure, ogni volta, quella sua reazione spontanea mi provocava sentimenti dolci e conditi di vero amore.
“Tornate presto!” disse Sasmira, dando un bacio a lui e uno a me. Era una Venere con capelli lisci neri, un fisico sottile e il nasino all’insù. Le dicevo spesso che assomigliava ad una fata, e lei ogni volta reagiva sollevando gli angoli della bocca, compiaciuta. Dopo essere stata afflitta da una lunga malattia nella zona del basso ventre, Sasmira aveva creduto di non poter avere figli, perciò ne aveva desiderato uno con tutto il cuore. Quel bambino, nato come per magia, l’aveva resa mamma e adesso eravamo la famiglia più felice del nostro villaggio.
Come quasi tutte le mattine io e Gabriel ci recavamo nel bosco. Il piccolo adorava raccogliere viole profumate per poi regalarle alla sua adorata mamma. Gli piaceva posarle delicatamente tra la sua chioma scura e osservarla incantato. A dire il vero anch’io la preferivo con un fiore fresco in testa. Gli donava davvero.
Presi in braccio Gabriel e lo portai a cavalcioni sulle mie spalle possenti per farlo sentire un vero gigante.
“Corri papà” urlò divertito.
Da grande voleva diventare un guerriero di un metro e novanta tutto muscoli come me, suo padre. Il mio viso, così come il corpo, mostrava i segni delle dure battaglie che avevo combattuto. Ma dopo la nascita di quell’angioletto avevo detto basta. Non potevo più rischiare di perdere la vita e lasciare soli moglie e figlio. Già da tre anni mantenevo fede alla mia promessa.
Intanto, alzai gli occhi e notai che il cielo era sereno e una leggera brezza smuoveva le foglie degli alberi. Il sole, ancora debole, batteva sulla pelle in modo piacevole e confortante.
L’incontro inaspettato con uno scoiattolo impressionò piacevolmente Gabriel.
“Che bello, guarda!” gongolò stupefatto, indicando il roditore che sgattaiolava.
Dopo cinque minuti di marcia in allegria e spensieratezza, mi decisi a mettere giù il piccolo e subito cominciò a scalpitare tra l’erba. Un tappeto di viole si presentò davanti ai nostri occhi. Gabriel spalancò la bocca in un sorriso puro e si chinò a raccoglierne qualcuna, ma all’improvviso lo vidi flettere le gambe e crollare a terra sovrastato dall’erba alta. Non si rialzò più.
“Gabriel!” urlai precipitandomi a raccoglierlo. Lo presi tra le braccia. Era privo di conoscenza, gli occhi serrati. Vederlo conciato a quel modo orribile mi terrorizzò a morte e pensando subito al peggio portai l’orecchio al suo torace. Il cuore batteva ancora, grazie al cielo.
Tornai di corsa al villaggio con Gabriel tra le mani e mi diressi in casa di Igan, lo stregone. Era l’unico che conosceva i segreti della guarigione e l’unico che poteva aiutarmi.
Intanto Gabriel in preda agli spasmi sudava freddo, il viso violaceo, le labbra pallide.
“Cos’è successo?” chiese lo stregone, lasciandomi entrare.
“Non lo so! È piombato al suolo di soppiatto e non si è più rialzato!” spiegai con la voce incrinata. Adagiai quel piccolo corpicino privo di energia su un letto.
Dopo una lunga visita e vari controlli Igan, si accarezzò la barba bianca chiaramente preoccupato.
“Ha pochissime speranze di sopravvivere!” disse cupo.
In quel momento era come se il mondo mi fosse crollato addosso. Non potevo accettare un verdetto del genere, mai!
Mio figlio Gabriel aveva contratto un virus sconosciuto. Per Dio, morire a cinque anni!
“Dobbiamo salvarlo!” esclamai determinato. Gabriel era ciò che di più caro avevo al mondo, non potevo perderlo.
Igan inumidì una panno nell’acqua tiepida e glielo poggiò sulla fronte, poi si voltò verso di me con lentezza.
“C’è solo un modo, Tancan” mi rivelò in tono spento. “Devi portarmi la pianta notturna!”
Quella pianta magica era in grado di guarire un umano da qualsiasi malattia. Lo sapevano tutti. Era l’unica via di salvezza per la creatura innocente.
“Dove posso trovarla?” chiesi, pronto a tutto pur di restituirgli la possibilità di vivere.
“L’unico posto dove cresce… è la caverna di Sibila: la Donnaragno!” rispose con un fil di voce.
Deglutii sconvolto.
“Maledizione!” borbottai tra i denti. Strinsi i pugni con forza fino a farli tremare.
Si diceva che quel mostro spietato, uccidesse chiunque tentasse di estirpare la pianta notturna dalla sua tana, anche i guerrieri più valorosi. Nessuno era riuscito a sopravvivere contro quella belva sanguinaria, proprio nessuno, e adesso toccava a me…
Sì, ero abile con la spada, ma non credo sarebbe bastato a darmi la vittoria, avevo bisogno di qualcos’altro, ma cosa?
Sasmira, intanto, informata da qualcuno, con il volto in lacrime e pallido, piombò in casa dello stregone. Aveva il fiatone ed era visibilmente scombussolata.
“Gabriel! Piccolo mio!” farfugliava. Le accarezzò il viso in preda alla disperazione più totale. Lui, sdraiato sul lettino, con il corpo inerme non rispondeva e respirava malamente.
Io sono il padre, ed è mio dovere tentare il tutto per tutto, pensai. Gli restavano solo due miseri giorni di vita.
Prima di lanciarmi in quella missione suicida, decisi ancora una volta di chiedere aiuto al saggio stregone.
“Igan ti prego” implorai. “Donami un grande potere. Devo sconfiggere Sibila. Farò tutto ciò che vuoi”.
Lo stregone mi fissò con i suoi occhi neri e penetranti, poi, con tutta calma bevve un sorso di tisana bollente da una tazza di porcellana bianca. Infine propose: “Ti offro l’immortalità. Ma… voglio in cambio le tue ricchezze. È un rito troppo pericoloso quello che dovrò fare per aiutarti e potrei anche morire”.
“Non puoi concederla a mio figlio, l’immortalità?”
Igan scosse la testa.“No! Questo tipo di magia è troppo potente. Lo ucciderebbe all’istante!”
Non avevo scelta. “Accetto!” dissi.
Monete e averi in confronto alla vita del mio bambino non valevano un bel nulla.
Lo stregone si spostò rapidamente in una stanza dove c’erano una miriade di vasi e alcune sedie in legno massiccio. Io ovviamente lo seguii.
“Siediti Tancan!” ordinò con voce pacata. “Rilassati e respira profondamente”.
Mi lasciai cadere su una di quelle sedie dure e scomode.
Igan scelse accuratamente un vaso in ceramica decorato e, dopo aver recitato una breve preghiera, vi immerse una mano.
“Questa è una polvere magica, è il corpo di tre guerrieri invincibili: Iderc, Etni, Ossets” dichiarò. Poi estrasse le dita impregnate di grigio e le strofinò sulla mia fronte, invocando più volte: “Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora! Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora!” E ogni volta alzava il volume della voce fino a urlare a squarciagola. Gli tremavano le mani, il viso diventò rosso porpora, sembrava fare uno sforzo immane.
A un tratto sentii un brivido freddo scorrermi lungo la spina dorsale e una potente energia vibrare nel mio corpo. Ero diventato immortale!
Igan tirò un sospiro di sollievo. “Bene!” sussurrò chinando il capo. Con la manica della tunica si asciugò la fronte imperlata di sudore.
Potevo partire per la missione.
Tornai da Sasmira per avvisarla del viaggio che avrei dovuto intraprendere. Era ancora china sul letto a cullare il suo bambino malato.
“Ti prego!” supplicò mia moglie speranzosa. “Torna vivo e portaci la pianta notturna!”
“Sta tranquilla” risposi stringendola a me. “Sono immortale adesso!”
Sasmira mi lanciò un’occhiata perplessa, però non disse nulla. Era troppo sconvolta e stremata per fare domande. E comunque lei non era al corrente del patto che avevo fatto con lo stregone.
Uscii da quella casa armato fino ai denti e a passo deciso mi incamminai verso il bosco, quando la sera calò all’improvviso.
Il cielo era una distesa oscura priva di stelle. L’aria gelida mi penetrava le ossa e il vento ululava. Dopo aver marciato per un’ora e superato un labirinto di alberi e fitti cespugli, finalmente giunsi alla caverna di Sibila.
L’ingresso era un enorme fenditura a forma di piramide.
Entrai senza esitare.
All’interno regnava l’oscurità, quindi accesi la torcia e aguzzai la vista. Determinato, avanzai lungo quel varco roccioso e mi ritrovai a calpestare un tappeto di ciottoli bianchi. Le pareti invece, erano umide, spigolose e rivestite da una sostanza biancastra appiccicaticcia.
La mente si affollò di pensieri angoscianti che mi facevano scoppiare le tempie. Non potevo essere sconfitto. Non potevo morire. Gabriel aveva bisogno di me e soprattutto della pianta notturna.
Sono immortale e invincibile, mi dissi, traboccante di coraggio.
C’era silenzio, un silenzio inquietante. L’aria puzzava di marcio e corpi in decomposizione. Infatti, sparsi per terra in un ammasso nauseabondo, scorsi scheletri umani, teste mozzate, corpi sbrindellati e fiumi di sangue. Soffocai un conato di vomito.
Sperai di trovare subito quello che cercavo e andarmene prima che la bestia mi vedesse.
Udii un rumore sinistro provenire dal profondo della grotta. Il cuore prese a martellarmi sul petto.
Poi, un sibilo terrificante echeggiò nelle pareti rocciose e il rumore di passi strascicati mi fece rabbrividire.
Un ombra sovrumana si stava avvicinando minacciosa.
Era Sibila. Aveva otto zampe piene di peli acuminati, e il volto… il volto era quello di una donna rugosa con capelli bianchi simili a ragnatele. Una fila di denti aguzzi e sporchi fuoriusciva dalle sue fauci gocciolanti di bava biancastra. Dagli occhi rosso sangue saettavano lampi maligni.
Era orrenda! Un mostro!
In quell’attimo sentii emergere dentro di me una forza immensa. Impugnai l’elsa della spada e feci vorticare la lama in avanti in segno di avvertimento.
“Come osi disturbare la mia quiete?” sibilò la bestia ibrida, sferrando il primo micidiale attacco. Si muoveva più veloce di quanto immaginassi.
Rapido mi spostai a sinistra schivandola, feci mulinare la spada in una rotazione da manuale e con un colpo perfetto gli mozzai una zampa. Rivoli di sangue e gemiti acuti.
“Sono immortale!” dichiarai in tono solenne “Stammi lontano o morirai! Mi serve solo la pianta per mio figlio!”
Ostinata, Sibila spalancò le fauci e spruzzò fili di fitta ragnatela collosa che si attorcigliarono al mio corpo, braccandomi. Tentai disperatamente di liberare un braccio, ma niente. Gemevo. Ero in trappola.
Sibila zampettava lentamente verso di me con espressione trionfante, pronta a sferrare l’attacco mortale.
Dimenandomi come un forsennato riuscii miracolosamente a sbloccare il braccio destro, sollevai la spada e trafissi quel volto terrificante. Dopo un urlo lancinante, il corpo orripilante crollò a terra, privo di vita.
“C’è l’ho fatta” esultai dentro di me.
Raccolsi la pianta notturna e cominciai a correre più forte che potevo verso la via del ritorno.
Giunsi al villaggio vittorioso.
Lo stregone selezionò accuratamente le foglie dell’arbusto magico e creò un intruglio verdastro. Lo spalmò sul torace nudo di Gabriel che, dopo un’ora finalmente riaprì gli occhi. Il colore della sua pelle tornò roseo e il respiro regolare. Sasmira e io scoppiammo a piangere. Abbracciammo il bambino come se fosse rinato. Fu una gioia immensa rivederlo sorridere e parlare.
“Mio figlio è salvo!” dissi allo stregone. “Sono immortale! Prendi pure le mie ricchezze”.
Lo stregone rise. “Tancan non sei immortale!” rispose. “Ma avevi bisogno che lo credessi”.
Rimasi allibito da ciò che udirono le mie orecchie.
“ Cos’era allora quella polvere grigia?” chiesi.
Lui si accarezzò la barba con aria di mistero. “ Come ti ho già detto era la polvere magica dei tre guerrieri invincibili, Iderc, Etni, Ossets. E se pronunci questi nomi al contrario diventano una frase: Credi In te Stesso!”
“Papà domani andiamo nel bosco a raccogliere viole e vedere scoiattoli?” ci interruppe Gabriel già in forze.
Mia moglie fece un sorriso gioioso e gli strinse le manine.
“Certo”risposi io accarezzando la fronte al mio angioletto. “E passeremo anche a salutare lo stregone Igan. Sai, grazie alla sua saggezza siamo di nuovo una famiglia felice”.