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IL VIAGGIO di Maribel Plume. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

IL VIAGGIO
di Maribel Plume
Primo Livello- Corso Adulti

“Cosa sto facendo? Dove sto andando? Sto forse incamminandomi verso il reparto di psichiatria più vicino?
Avevo un lavoro. Ok non era un granché, ma mi consentiva di pagare le bollette a fine mese. Avevo anche un piccolo monolocale.
Conducevo una vita apparentemente normale…
Mi sono licenziata. Ho venduto casa.
Oddio cosa ho fatto!
E perchè? Per racimolare più denaro possibile in un progetto delirante.

… Eppure io li vedo, sono reali…”

Questi e altri pensieri rimbalzano, senza sosta, nella testa della giovane Marta, mentre il traghetto, su cui è a bordo, si allontana lentamente dalla sponda.

Il cellulare l’avvisa dell’arrivo di un SMS.
Marta s’impone di non leggere il messaggio. Spegne il telefonino e lo ricaccia in fondo alla borsa.

Un senso d’irrequietezza opprimente le toglie il respiro, il cuore a mille.

Marta s’impone di stare calma.
Inspira. Espira. Inspira. Espira
Un respiro dopo l’altro le pulsazioni tornano alla normalità.
La mente rielabora, come in un montaggio a catena, gli ultimi avvenimenti.

Tutto aveva avuto inizio con la rivelazione di Giacomo.
“Forse non ti amo più”. Queste semplici parole le avevano scatenato, interiormente, una serie di esplosioni a catena.
I tunnel oscuri che, nel corso degli anni, si erano scavati nell’anima di Marta, improvvisamente, si collegarono e il crollo fu inevitabile.

Le pareti del suo castello che, seppur in mezzo a tremendi cigolii, avevano retto, di colpo, crollarono.

Una serie di scelte sbagliate, per far fronte alle esigenze della vita, l’avevano allontanata, così tanto, dalla sua vera natura, che lei stessa stentava a riconoscersi.
Non amava più la compagnia degli amici, tutto le pesava.
Aveva l’impressione di vivere in un paese sconosciuto, con regole a lei ignote e assurde.
Ogni cosa era come se fosse creata per estirparle le ultime risorse di energia.
Non sapeva più chi era, cosa voleva.

Come incolpare Giacomo di non amarla più, quando lei stessa aveva smesso di amarsi da tempo.

Senza riferimenti, Marta era eternamente stanca.

Come una barchetta di carta, in balia delle onde, man mano che si bagna, affonda, anche lei in balia della vita, colpo dopo colpo, affondava in un mare di frustrazione.

Inerme, totalmente incapace di muoversi.
Come un burattino, senza burattinaio che tira i fili, non era nemmeno in grado di alzare la testa.

Un giorno si era imbattuta, quasi per caso, in un vecchio scatolone polveroso, nascosto sopra l’armadio color avorio della sua camera da letto.
Una scritta campeggiava sul coperchio “COSE INELIMINABILI”.

Marta incuriosita l’aveva aperta.

Una coppia di buffe vecchie ciabatte, con tanto di pon pon sulla punta, erano state la prima cosa che aveva visto.
Sotto la suola, una scritta, sbiadita dal tempo, riportava
“Partita di calcio delle grasse contro le magre”.
Nella mente di Marta apparve la scena di una partita di calcio tra due squadre femminili,  LE GRASSE CONTRO LE MAGRE.
Le prime rappresentate dalle nonne, mentre le seconde dalle giovani nipoti.
Che partita esilarante.
Incredibile a dirsi; nonostante le magre avessero più fiato, la mole delle grasse (insieme al rispetto a loro dovuto, data l’età) aveva fatto sì che fossero queste ultime a vincere e la migliore giocatrice era stata proprio la  nonna di Marta. Quelle ridicole ciabatte erano state il suo premio.
Marta ogni volta che le vedeva rideva a crepa pelle; questo era stato il motivo per cui la nonna gliele aveva donate, tempo prima, in un momento di sua profonda tristezza. Come aveva fatto a dimenticarsele?

Sotto alle ciabatte una serie di quadernetti, rilegati in svariati modi.

Marta li aveva  osservati incredula.
Quelli erano i suoi diari!
I suoi diari segreti.
Si era soffermata a leggere alcune pagine.

In un racconto in cui aveva circa nove anni, scriveva così:

Martedì 2 giugno 1982
Caro diario,
ti voglio raccontare quello che ho visto rovistando nei cassetti della mia nonna. Devi sapere che mia nonna abita in una vecchia casa e come tutte queste case ha una soffitta.
Mia nonna, non vuole che io salga, perchè il pavimento è pericolante e non solo esso, ma anche tutta la stanza comprese le scale.
Un giorno, io e mia cugina prese dalla curiosità siamo salite e meraviglia delle meraviglie sai cosa abbiamo visto?
C’erano dei grossi bauli molto belli, un grande cassettone con uno splendido specchio, tante scatole con dentro vestiti, collanine, soprammobili e qua e dei graziosi topini.
Io e mia cugina siamo entrate, senza obbedire alle famose raccomandazioni della nonna, abbiamo cominciato ad aprire i vari bauli e le scatole. C’erano moltissimi vestiti, perciò prima con un po’ di timore poi con il cuore pieno di felicità, abbiamo indossato quei magnifici vestiti. Io ho dato una  spolveratina allo specchio e via.nel mondo della fantasia.
Poi una voce allegra ci ha riportato nel mondo della realtà. Era mio cugino che ci chiamava per giocare. Io e mia cugina abbiamo messo tutto a posto e abbiamo deciso di non dire niente a nessuno della soffitta. Tutto era sistemato, stavamo scendendo quando…

BIM BUM BAM

per sbaglio avevamo messo i piedi nel buco che una volta veniva usato per gettare il fieno nella stalla sottostante. Con una velocità tremenda, senza saperlo, ci trovammo nel fienile. Eravamo spaventatissime, poi però nel guardarci e vedendo le nostre facce siamo scoppiate in una grandissima risata.
In un altro:

Sabato 24 aprile 1982
Caro diario,
oggi ti parlerò dei miei libri di scuola. Devi sapere che non gli sono molto affezionata, perchè se mi dimentico di studiarli, mi rischio una bocciatura completa.
Loro invece sono molto buoni, perchè mi sopportano sempre, senza fare sbuffi e lamenti.
Sanno molte cose e me le insegnano volentieri.
I libri non sono persone, ma talvolta sanno più cose di una persona vera e propria, come ad esempio di me.
Ricordano tutte le date e tutte le cose che ci sono e che sono esistite.
Sono molto docili e si fanno leggere.
A pensarci bene io voglio molto bene ai libri e spero che tutti abbiano occasione di leggerne almeno uno.

Quanta vita in quelle righe scritte con una stilografica blu, dal colore ormai scolorito.

Che bei tempi quelli. Ricordava ancora la serenità della sua infanzia.
In inverno, durante le vacanze natalizie, era solita fermarsi a dormire dalla nonna con i suoi cugini. Alla sera, accoccolati sul divano, al tepore emesso dalla stufa a legna, e con il profumo delle bucce dei mandarini, che si abbrustolivano sulle spire, ascoltavano con adorazione le favole della nonna, da cui ognuno traeva insegnamento.

Marta invidiava la capacità della nonna di utilizzare le parole. Era sempre in grado di alleviare le pene e di farti sorridere.
Sperava da grande di possedere lo stesso dono. La nonna le aveva consigliato di leggere e di scrivere e i diari che aveva di fronte a sé erano la prova del suo impegno.
Attraverso la scrittura, Marta sintetizzava, con ordine, ciò che la vita, di volta in volta, le proponeva; scartando ciò che le era inutile e conservando ciò che invece le sarebbe servito, per crescere forte e saggia.
Come un’enorme biblioteca Marta racchiudeva in sé ordinatamente tutte le informazioni necessarie.

Negli ultimi anni, il ritmo serrato a cui era stata sottoposta non le aveva più consentito di mantenere l’abitudine della scrittura.
La biblioteca, da cui la sua anima traeva forza e ispirazione da bambina, così ordinata allora, si ritrovava ingolfata da una serie di dati, non elaborati, incasellati a casaccio e Marta in preda al caos non riusciva ad attingere forza dalle sue risorse interiori.

Giacomo se ne era andato e il suo lavoro le pesava ogni giorno di più.

Una sera, al rientro da una delle sue estenuanti giornate lavorative, aveva provato un desiderio incredibile di scrivere.
Armata di notes e penna, si era seduta sulla sua unica poltrona a quadri scozzesi posta in prossimità del caminetto.

La vita iniziò a scorrere nuovamente a lei. Un’energia incontenibile la riempì tutta e alla fine esplose. Marta iniziò freneticamente a scrivere.
I pensieri, caoticamente compressi nell’anima, per così tanto tempo, altrettanto caoticamente fuoriuscirono e Marta non può fare a meno che trascriverli, ovunque. Brandelli di carta igienica, bordi di giornale, tovaglioli di carta, sacchetti del pane, tutto andava bene per fissare un pensiero o una storia.

Marta aveva la convinzione che, una volta trascritte tutte le informazioni costipate disordinatamente, avrebbe avuto gli strumenti per comporre, come in un puzzle, i pezzi della sua esistenza.

Le frasi però erano tantissime e non sempre il loro significato era chiaro. Anzi a volte rappresentavano dei veri e propri enigmi e Marta non sapeva spiegarsi l’esigenza di scriverli, comunque.

Ad un certo punto era successa una cosa incredibile. Le frasi scritte iniziarono a comporsi e a creare dei personaggi, in  carne e ossa agli occhi di Marta, completamente invisibili agli occhi degli altri.

Parlavano continuamente, ininterrottamente uno sopra l’altro senza rispettare nessuna precedenza. Ognuno raccontava la sua storia e voleva avere la precedenza sugli altri.
Marta a volte aveva riconosciuto in quei racconti sia stralci della sua vita, sia esperienze vissute da amici o da parenti; altre volte le rammentavano film, racconti di libri o di cronaca che in un qualche modo l’avevano coinvolta.

C’era una tale confusione.

Marta cercava di dare voce ad ognuno di loro. Ma c’era un tale frastuono.

C’era il sig. Frattilus che raccontava i suoi viaggi nel tempo, insieme alla nipote Net.

C’era una bambina, di cui Marta non conosceva il nome, che cercava la sua mamma.

C’era Rodolfo che, nonostante fosse pienamente soddisfatto dal punto di vista professionale, si sentiva così solo.

C’era Luisa che, ogni volta che stava per raggiungere la felicità, buttava tutto a gambe all’aria, perchè incapace di sopportare la tensione.

C’era poi la serie dei personaggi immaginari. Alcuni erano buoni e volevano narrare le loro storie a beneficio dei più piccoli altri erano terribili e Marta ne era terrorizzata.

Nemmeno alla notte riusciva a riposare, perchè spesso le apparivano anche in sogno.

Marta decise di organizzarsi dando ad ognuno di loro un appuntamento ad un orario concordato.

Alle 8,00 Rodolfo
Alle 10,00 Luisa e così via…

Il guaio era che le storie accumulatesi nella testa di Marta erano davvero tante, per non dire troppe, e lei per poterle scrivere aveva bisogno di tempo.

Ecco il motivo del licenziamento e della vendita della sua casa.

Ecco il perchè delle decisione di trasferirsi a casa della nonna, da poco mancata. Con i soldi ricavati dalla vendita della casa avrebbe avuto l’autonomia finanziaria sufficiente per dedicarsi esclusivamente alla scrittura di tutte le storie compresse dentro di lei.

“Ok, adesso che ho riordinato i miei pensieri, forse non è così demenziale , la mia decisione di andare a vivere a casa della nonna, una domenica mattina, alla vigilia delle feste natalizie” con questo pensiero Marta, intorpidita dal tepore e dal rollio del traghetto, con lo sguardo perso tra le acque del lago e gli abeti della costa appena imbiancati dal rigore dell’incedere dell’inverno, si addormenta stremata.

Il taxi, una vecchia Austin FX4 nera, imbuca un maestoso viale alberato.
A bordo un’anziana signora di nome Angelina ammira i colori dell’autunno. Una gamma esplosiva di giallo, rosso e arancione padroneggia quello che fino a poco tempo prima era il regno del verde, che timidamente ancora resiste punteggiando le foglie in alcuni punti.
Un desiderio irrefrenabile assale Angelina.
“Per favore, si fermi un attimo”
Il taxista, un vecchio uomo di colore, ormai avvezzo alle bizzarrie dei suoi passeggeri, lentamente accosta l’auto nei pressi di un grande platano.
Un tappeto di foglie colorate si estende da quel punto fino all’ingresso di un grande parco, per poi scorrere oltre.
Angelina lentamente apre la portiera e altrettanto lentamente scende dall’auto.
Una brezza improvvisa solleva le foglie facendole vorticare nell’aria e intraprendendo una meravigliosa danza.
Angelina, sentendosi il cuore leggero tipico di quando era bambina, inizia a correre nel manto colorato volteggiando come una farfalla. Poi, con il cuore in gola per il grande affanno, si china, riempie la sua borsetta di quante più foglie possibili e con calma ritorna al taxi.
“Grazie, adesso mi può portare a destinazione”

Lo stridio di un gabbiano lontano sveglia improvvisamente Marta.
Sono le 7,30. E’ in viaggio da mezz’ora. Manca ancora un’ora all’arrivo.
Come spesso le accade al momento del risveglio, volti e nomi, così chiari nella fase del sogno, si offuscano, perdono consistenza come in un disegno all’acquarello.  Ricorda una vecchia signora. Il volto è avvolto nella nebbia del sogno, senza lineamenti, eppure il ricordo dona a Marta una serenità intensa, inspiegabile.

Il traghetto attracca in una fermata intermedia. Uno scambio di passeggeri, c’è chi sale, c’è chi scende.
Marta li osserva distrattamente, la mente lontana.
Due ragazzi, seduti accanto a lei, stanno discutendo di politica locale, mentre qualche fila più avanti, due ragazzine parlottano sommessamente. Dalle risate cristalline, Marta immagina che si stiano scambiando confidenze amorose.
All’esterno, sulla prua, un uomo e una donna non più giovani si abbracciano. Quanta tenerezza, quanto amore traspare da quei semplici movimenti rallentati dall’età. Marta ne è commossa.

Sulla sponda del lago due giovani lepri si rincorrono. Il suo pensiero segue il tragitto punteggiato, che le piccole bestiole hanno tracciato nel  candore delle sponde innevate.

Il tempo scorre, avvolto nella nebbia mattutina, tipica delle fredde giornate invernali.

Il traghetto rallenta il suo incedere. Marta guarda l’orologio.
8,25 la sua fermata.

Con calma si alza, prende le valigie e si dirige verso l’uscita.

Estrae il telefonino dalla borsa e lo accende.
Una serie di suoni la informano dei messaggi ricevuti.
Sono tutti di Giacomo.

Compone il numero
“Ciao Giacomo”
“Ciao Marta, ma dove sei finita? Credevo di impazzire. Mi hanno detto che ti sei licenziata e che hai venduto  casa. Ho bisogno di parlarti. Ho bisogno di vederti. Devo chiederti scusa e lo farò fino a quando non avrò avuto il tuo perdono. Come ho potuto dirti quelle cose. Non me lo spiegare. Tu che sei la parte più bella di me. E’ come se avessi avuto bisogno di distruggerla per potere ritrovare me e per poter ritrovare te. Credi che abbia un qualche senso quello che sto cercando di dirti?”
“Sì, in maniera diversa è successa la stessa cosa a me ….” risponde Marta.
“… avrò la possibilità di incontrarti a breve?” chiede timidamente  Giacomo.

Marta riflette, si interroga silenziosamente sulla sua capacità reale di accoglierlo nuovamente. Sì adesso può, adesso è padrona della sua vita. Quindi, dopo un attimo di silenzio, aggiunge “ti ricordi quando ti raccontavo delle  vacanze invernali a casa di mia nonna?”
“Certo, ho sempre desiderato respirare l’atmosfera che mi descrivevi”
“Bene, se vuoi raggiungermi e lì che sono diretta”
Giacomo non parla, ma la tensione iniziale è ormai scemata, con entusiasmo le dice “Fra una settimana è Natale, se non è troppo presto potrei essere da te già alla vigilia …”
“Ok, verrò a prenderti al porticciolo. A presto…”

Marta riaggancia il telefono, la sua vita inizia a ricomporsi.

Nel frattempo il traghetto attracca.
Tra la folla Marta scorge una vecchia signora dall’aria familiare, le sorride.
Un brivido attraversa il corpo di Marta.
Un fiume di lacrime inizia a scorrerle sul viso.
E’ sua nonna.
La sua nonna.

Porta con sé una borsa piena zeppa di foglie colorate.
Improvvisamente Marta ricorda il sogno fatto all’inizio del suo viaggio.
Una vecchia Austin guidata da un uomo di colore.
Un’allegra ragazzina attempata che corre e danza tra le foglie di un grande parco.

Angelina aspetta che Marta le si avvicini, il suo sguardo colmo d’amore  ricopre, come una calda coperta la nipote attonita.

Marta non riesce a parlare le lacrime continuano a sgorgare e un nodo alla gola le blocca qualsiasi suono.

Poi respira profondamente e con la voce strozzata dall’emozione contempla la sua meravigliosa nonna, quanto le è mancata.

“Ciao nonna. E’ stato bellissimo vederti nel parco immersa nei colori caldi dell’autunno” le dice accarezzandole teneramente il braccio.
“E’ il parco in cui mi sono innamorata di tuo nonno.
Quei colori mi hanno riscaldato per tutta la vita. E ora voglio donarli a te.
Posso rimanere per poco, il taxi mi sta aspettando. Pensi di avere tempo per me?”

“Sempre” risponde Marta piena di riconoscenza, sa che ora, con l’aiuto della sua nonna, tutto andrà per il verso giusto.
Sorridendo la prende timidamente per mano e dice: “è meglio affrettarci, non resteremo sole a lungo; sai la tua casa sarà piuttosto popolata, nei prossimi giorni…”
“Lo so bambina mia” risponde la nonna. Poi accarezzandole dolcemente i capelli, come quando era piccola aggiunge “Vieni il viaggio è stato lungo e tutte e due ci meritiamo una buona tazza di the.”

LO SCONOSCIUTO di Gaia Bigoni. Secondo Livello Bambini. Corso di scrittura online

LO SCONOSCIUTO
di Gaia Bigoni
Secondo Livello- Corso Bambini

Quel giorno uscii da scuola alle 11:00. Non ne ricordo precisamente il motivo, forse un professore assente.

Decisi di prendere una scorciatoia per andare a casa di zia Luisa, perché il tempo prometteva un bel temporale da lì a dieci minuti. E quello era proprio il tempo che solitamente impiegavo quando decidevo di prendere la strada più breve, ma un fatto insolito mi trattenne a metà strada.

Notai che la villetta dove neanche una settimana prima c’era ben affisso un cartello con scritto “VENDESI” era stata finalmente comprata da qualcuno. Mi incuriosii, così sbirciai dal marciapiede l’interno della casa da una finestra lasciata stranamente aperta. Non feci in tempo a distinguere un bel lampadario colorato e un tavolo di legno tondo quando la porta si spalancò e una vecchietta sorridente uscì a passo svelto.

<Buongiorno..> la salutai, osservandola. I capelli, bianchi e folti, erano raccolti in uno chignon e indossava una gonna lunga rossa e un maglione arancio. Ai piedi aveva due apparentemente scomodissime scarpe intonate al cappellino giallo acceso. Sembrava un arcobaleno di allegria.

Mi rispose educatamente, squadrandomi a sua volta. Mi sentii un po’ a disagio, soprattutto quando mi invitò ad entrare. Forse avrei dovuto rifiutare, ma ero talmente incuriosita da quella arzilla vecchietta che non riuscii a dirle di no. Appena superai la soglia un profumo di rosa mi investì. L’atmosfera era calda ed accogliente, sembrava di essere in una di quelle case delle favole, dove tutto intorno sa di magico.

Mi portò in cucina e chiuse cautamente la finestra da dove avevo sbirciato pochi minuti prima. Sembrava l’avesse lasciata aperta solo per me, per poter stuzzicare la mia curiosità.

<E’ arrivata da molto in città?> mi decisi a chiederle, dopo qualche minuto.

<No, da tre giorni.. Ma dammi del tu, per favore. Il fatto del “lei” mi fa sentire vecchia!> rispose sorridendo. Annuii osservando ancora una volta quella bellissima cucina.

Intanto sentii qualcosa che mi toccava delicatamente la caviglia. Mi chinai e vidi una graziosa, piccola tartarughina che cercava di attirare la mia attenzione.

<Che bella! Come si chiama?> chiesi, osservando il guscio verde acceso.

<Rina. Mi sembra che tu le stia simpatica, solitamente non dà confidenza agli sconosciuti> sorrise la vecchietta, prendendo delicatamente in braccio la tartaruga.

<Scusa, non mi sono neanche presentata.. Mi chiamo Vivian, piacere.> disse poi, sedendosi sulla poltrona di fianco a me.

<Io sono Beatrice> aggiunsi, mentre Vivian si rialzò nuovamente e sparì al piano superiore, lasciandomi lì senza dire una parola. Spalancai gli occhi e mi chiesi se avessi fatto bene ad accettare il suo invito ad entrare in casa. In fondo non la conoscevo neanche e zia Luisa si era raccomandata tante volte di ricordarmi di non dare confidenza agli sconosciuti. Stavo meditando una buona scusa per tagliare la corda, quando Vivian “riapparve” sulla soglia e mi fece cenno di seguirla.

“Che cosa vorrà fare?” mi chiesi, ma decisi di assecondarla e di salire, dietro di lei, le scale che portavano al piano superiore. Davanti a me c’era una bellissima mansarda che, nel suo disordine, aveva qualcosa di affascinante, oserei dire quasi.. magico.

Poi la vecchietta si avvicinò a un baule dall’aria misteriosa. Era piuttosto grande e dentro di me già formulavo mille e più ipotesi fantasiose sul cosa potesse celare.

Successivamente tutte le mie idee svanirono in un colpo solo: la donna aveva tirato fuori dal baule solo un fiocco rosso fuoco, uno di quelli per legare i capelli. Restai delusa e probabilmente dalla mia faccia si intuiva ogni mio pensiero, perché la vecchietta si affrettò a spiegarmi che quel fiocco non era quello che sembrava. Avrei voluto chiederle ciò che pensavo, e cioè se era impazzita di colpo, ma mi trattenni e continuai a guardare, allibita, lo strano fiocco. Era bello, sì, ma non aveva nulla di speciale.

<Me lo regalò mia figlia, prima di partire per New York per approfondire i suoi studi di medicina. Ma il fatto è che questo fiocco è magico, non è normale.> quando Vivian pronunciò questa frase, confermò la domanda che avevo in mente.

<Ok, se è uno scherzo non mi piace. E poi, scusami, ma devo tornare a casa. Mia zia sarà in pensiero e..> la vecchietta non mi lasciò finire la frase e mi trattenne per un braccio.

<Non è affatto uno scherzo. Questo fiocco ha il potere di esaudire il tuo più grande desiderio. Io ne ho già espresso uno e si è avverato. Successivamente ho avuto il dovere di cercare una degna erede per consegnarlo a mia volta.. ed eccoti qui. Anche tu potrai esprimere il tuo desiderio quando vorrai, ma pensaci bene perché, come ho già detto, ne potrai esprimere soltanto uno. Poi lo regalerai a chi pensi che lo meriterà. Ti prego, tienilo, è importante!> mi supplicò e, a quel punto, nei suoi occhi si lesse chiaramente che stava dicendo la verità, non stava farneticando e non mi stava prendendo in giro. Decisi di crederle.

Uscii da quella casa affannata e con il fiocco magico al sicuro, in tasca.

Come previsto i nuvoloni neri stavano scaricando con tutta la loro potenza una fittissima pioggia, così aprii l’ombrello e corsi verso la casa di zia Luisa.

Il giorno seguente, quando uscii da scuola alle 13:00 come al solito, decisi di passare nuovamente per la scorciatoia. Non potevo certo sapere che la vecchietta si era nuovamente trasferita. Evidentemente quel desiderio che aveva espresso era legato alla fortuna nello studio di sua figlia. Probabilmente, la raggiunse a New York. Ma non lo seppi mai.

 

<Mamma..è tuo questo bel fiocco rosso?>.

<Si, tesoro.. Me lo regalò una signora molto molto speciale. Vuoi che ti racconti la sua storia?>.

LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
. Secondo livello Bambini. Corso di scrittura online

LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
Corso Bambini- Secondo Livello

Era una sgargiante serata di fine ottobre. Il cielo aveva sfumature rosso cremisi e gli ultimi uccelli svolazzavano allegri verso il proprio nido. Passeggiavo per una vecchia strada di campagna fatta di sporco e consunto asfalto, per una destinazione a cui non dovevo neanche pensare. I miei piedi l’avevano percorsa così tante volte nell’estate che ormai ci avevo fatto l’abitudine. Un leggero ma gelato vento scompigliava i miei capelli gettandoli all’aria e il mio naso iniziava a congelare, ma ero troppo presa dai miei pensieri per badarci, pensieri così complicati che avrebbero mandato in tilt chiunque. La scorsa notte infatti avevo fatto il solito sogno ricorrente, ormai era un abitudine ma mi colpiva lo stesso e nel frattempo mi irritava, si mi irritava perché tutte le volte che lo facevo avevo la sensazione di essere vicina a scoprire qualcosa e che, all’ ultimo momento, mi sfuggiva. Nel sogno mi trovavo in una stanza, aveva le pareti strette e dal soffitto proveniva un illuminazione a luce violetta, senza però bisogno di un lampadario o delle lampadine per estenderla. Il pavimento era di sabbia e non c’erano finestre o porte, a eccezione di una piccola porticina fatta di marmo bianco. Nel sogno mi avvicinavo alla porta e la spalancavo. Dietro la porta trovavo un’ altra stanza, la pareti coperte di antichi ritratti di dame e cavalieri in armatura ma non era lì che dovevo andare, avevo la sensazione di dover andare urgentemente avanti. Passavo un’altra porta, questa volta di legno laccato, e giungevo in un’altra stanza, questa volta rotonda e guardavo su, sul soffitto, dove era raffigurato un sole dorato e rifinito perfettamente congiunto con una mezza luna di un bianco splendente che emanava come un magico bagliore e, dopo questa scena, il sogno finiva. Il bello era che quel simbolo mi ricordava qualcosa ma ogni volta che cercavo di ricordare c’era come una foschia nel mio cervello, come un buco vuoto. Avevo cercato quel simbolo da tutte la parti, su tutti i libri di miti e leggende su cui riuscivo a mettere le mani e tutti quelli che i miei genitori non mi confiscavano. Ma dopotutto loro non erano i miei veri genitori. Avevo vissuto per un anno insieme a mia nonna, l’unica mia parente ancora in vita e quando anche lei morì mi trasferì dal fratello di mio papà, non che non avessi potuto andarci anche prima ma la nonna voleva tenermi con se, diceva che loro non capivano quanto ero importante. Anche solo la parola suonava strana, importante come no, i miei zii neanche mi guardavano. Tutti mi trattavano come se non esistessi e io non mi sono mai lamentata, anzi, a me faceva piacere. L’unica che mi considerava, purtroppo, era la figlia dell’ amica-vicina di casa di mia zia, che non la smetteva mai di prendermi in giro perché non avevo i genitori. In realtà della mia vera madre e del mio vero padre non sapevo veramente nulla, erano scomparsi così senza lasciare traccia o almeno era quello che mi diceva sempre la nonna, eppure vedevo una strana luce nei suoi occhi quando ne parlava, una luce di nostalgia. Avevo camminato per metri e metri senza accorgermene, come sempre. Erano quasi le sette e decisi di svoltare per tornare a casa, la zia si sarebbe arrabbiata ancora di più se avessi fatto tardi per la cena. Tornavo in dietro lentamente come sperando che più tempo rimanevo su quella vecchia strada meno ne passavo nella villetta dei miei zii. Una speranza inutile, lo sapevo già, tanto avrei dovuto passarci una vita intera! Svoltai all’angolo sbagliato e mi trovai in vicolo cieco. In fondo c’era una figura bassa e incappucciata, si avvicinò zoppicando vistosamente e riuscì ad intravedere appena il suo volto alla luce del tramonto. Era un uomo anziano, una cicatrice gli partiva dall’occhio destro fino ad arrivare alla piccola bocca storta e sottile. Aveva la pelle rovinata dal tempo e mi fissava con due piccoli occhi rotondi e neri come la pece. Solo quando fece un altro passo zoppicante in avanti mi accorsi che era vestito in maniera alquanto strana: portava un cappello a bombetta rosso acceso che non si intonava molto ai suoi capelli di un biondo sporco lunghi fino alle spalle. Le sua maglia era piena di strappi e cuciture, di un verde foresta e era abbinata malamente a dei pantaloni lunghi e neri rattoppati con stoffe di diversi colori come verde acido o blu notte. Qualunque persona normale di testa sarebbe scappata via urlando, ma non io, io rimasi lì a fissare quell’uomo dall’aspetto spaventoso, guardando il suo volto duro e solcato dalle rughe e dal tempo ma che, dietro a quegli occhi, nascondeva ancora qualcosa di umano. All’improvviso parlò con una voce dura e rauca: << Allora ragazza tu sai perché sono qui vero?>> mentre parlava si avvicinò ancora di qualche passo.
<>, sinceramente non ne avevo proprio idea. Non l’avevo mai visto, figuriamoci se sapevo che cosa ci faceva lì. Magari era un vecchio parente? Impossibile, me lo sarei ricordato: guarda com’era vestito! Frugai nella memoria ma alla fine mi arresi al fatto che per me era un perfetto sconosciuto e che non sapevo per quale assurda ragione si trovasse in un vicolo buio, di notte e per giunta stesse parlando con me.
A quanto pare interpretò il mio silenzio come un no perché aggiunse un po’ spazientito: << Bene, allora mi toccherà spiegarti tutto dall’inizio. Sai almeno chi sei?>>
A questo punto ero un po’ confusa, forse aveva preso una botta in testa o quella stupida bombetta gli bloccava la circolazione? Certo che sapevo chi ero! Stavo per rispondergli ma mi interruppe: <> disse con un tono di voce che sfiorava l’esasperato.
<< Tu sei un lupo.>>.
Si, a questo punto era chiaro che aveva preso una bella botta in testa. Prima che potessi dire qualcosa, però, mi interruppe di nuovo e disse: <> si frugò nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un amuleto. Quasi urlai dall’eccitazione: attaccata a un piccolo filo d’argento c’era l’immagine dei miei sogni, un sole dorato congiunto con una luna brillante. Notai poi che anche lui aveva lo stesso medaglione, ma cosa significava? Forse aveva veramente ragione, ero davvero un lupo? Ormai tutto era possibile. Lo presi tra le mie dita tremanti e me lo infilai al collo, l’effetto fu immediato. Di colpo mi sentì forte e non più fragile come ero prima. Una bellissima sensazione di libertà mi invase da capo a piedi.
<> all’improvviso si trasformò in un grosso lupo marrone e sparì correndo per la strada ormai illuminata solo dal chiaro della luna. Il giorno dopo lo rincontrai e il giorno dopo ancora e, dopo una serie di dettagliate istruzioni, decisi che la sera del giorno seguente avrei provato a trasformarmi.
Così, a mezzanotte di sabato, corsi fuori e andai in un bosco lì vicino. La luce della luna si risplendeva nei miei occhi preoccupati. Magari era stato tutto uno scherzo, impossibile, lui si era trasformato no? Mi concentrai, come aveva detto lui, su un ricordo sereno, il più bello che avessi mai concepito. Pensa, pensa e poi un’ immagine mi venne in mente: la foto dei miei genitori nel salotto della nonna tanti anni prima, sorridenti e felici. Un istante prima ero lì a pensare e un istante dopo correvo. Le mie zampe grandi e bianche come la neve solcavano il terreno veloci e sicure, i tagli dei rovi si rimarginavano subito e sentivo delle voci nella mia testa, dei sussurri. Dopo un po’ che gli ascoltavo capì che erano pensieri, pensieri di persone vicine e lontane da me. Quindi riuscivo a leggere nella mente, ecco il mio potere unico. Mentre provavo a concentrarmi su un singolo pensiero per ascoltarlo scorsi il mio riflesso in un laghetto lì vicino: una grande, bellissima lupa bianca come la luna mi restituiva lo sguardo fiero e poi un ululato lacerò la notte, il mio ululato, un urlo di trionfo per il fatto che finalmente non mi sentivo più fuori posto, che finalmente ero libera. Nelle settimane seguenti appresi che esisteva un posto dove tutti i muta-forma vivevano insieme. Lasciai la mia vecchia e odiata casa per raggiungere quel luogo, un luogo in cui c’erano persone che mi accolsero come un’amica. Il vecchio che avevo conosciuto mi seguì, restammo amici per sempre perché lui mi aveva dato una mano, lui mi aveva portato in un mondo dove finalmente mi sentivo a casa, il mio mondo, il mondo da dove non sarei mai uscita.

Francesca Arcangeli

LA CASA DEI MISTERI di Isabel Sacchetti. Primo livello Bambini. Corso di scrittura online

La Casa dei Misteri di Isabel Sacchetti

Corso di scrittura bambini – Primo Livello

 

Siamo a Londra nel 1871.
A ovest, nascosta alla città dagli alberi di Regent’s Park, c’era una casa che tutti chiamavano “Casa dei misteri”.
Era una villetta con tante stanze: due camere da letto con letti a baldacchino, due comodini di legno e vecchie lampade a gas, un ampio salotto con un camino sporco di cenere e c’era anche un grosso divano con la copertura blu bucata, due sedie di pelle ormai graffiata, una grossa soffitta polverosa con nascoste strane mappe e lenzuoli strappati, una scala portava giù in una grande cucina, con un ghiacciaio una dispensa con dentro solo farfalle e insetti morti e una scatola di pane ammuffito. Un’altra immensa scala  portava ad altre stanze sempre chiuse a chiave con delle porte di legno  diroccate. Fuori c’era un grosso cortile d’erba con pochi alberi morti e fiori secchi anche in piena estate.
La chiamavano casa dei misteri perché, ogni notte, a mezzanotte in punto dalla casa provenivano ululati e rumori sinistri, che spaventavano la città.
Era abitata da un vecchio fantasma che stava in soffitta tutto il giorno e faceva altri rumori che la gente non gradiva affatto.
Un giorno iniziò a girar voce che qualcuno sarebbe andato ad abitare in quella casa, e infatti qualcuno arrivò. Era una famiglia, composta dal signor Bartolomeo Wordigan, da madam Maria Mistrò e da un bambino curioso di nome Fabian Wordigan. Il signor Wordigan era una persona un po’ cicciotta con pochi capelli ed era molto spiritoso, la signora Mistrò era una signora magra coi capelli corti biondi e ricci, pensava sempre in modo positivo, come si vedrà nel corso della storia e il signorino Fabian era  un bambino alto con capelli castani e con una personalità veramente vivace. Tutti li guardavano male, perché nessuno era mai andato ad abitare in quella casa.
Appena entrarono una nuvola di polvere gli coprì gli occhi e quando riuscirono a riaprirli davanti a loro si presentò uno spettacolo tremendo: tavoli e sedie ribaltate, vasi di fiori rovesciati, acqua dappertutto, perfino topi che zampettavano e si infilavano nei buchi della parete.
Ma madame Mistrò non si scoraggiò e disse in tono solenne: -Noi la rimetteremo a posto e scacceremo via tutti quei brutti topastri!-. Bartolomeo Wordigan e Fabian non erano tanto convinti ma annuirono lentamente con il capo.
La casa era un vero disastro e per riordinarla correttamente ci sarebbe voluta almeno una settimana e madame Mistrò ne era consapevole.
Quel curiosone di Fabian andò subito ai piani superiori  a sbirciare le stanze chiuse a chiave e quando provò ad aprirle e  le trovò chiuse ci rimase molto male. Allora sbirciò nel buco della serratura e vide una cosa che lo colpì molto: da una parte lo spaventava e dall’altra lo incuriosiva sempre più.
Dentro la stanza c’era nientemeno che…….una grossa sfera rossa che lampeggiava ad intermittenza, poggiata su un tavolo di legno d’ebano. Appena la mise a fuoco subito distolse lo sguardo dalla sfera, o meglio dire cercò di distogliere lo sguardo dalla sfera. Era come se quella sfera lo tenesse imprigionato lì, per punirlo di aver  ingordamente  spiato dalla serratura.
Intanto ai piani bassi, madame Mistrò  e suo marito stavano cominciando a rimettere in ordine la casa partendo dal salotto. Erano le 20,00 quando avevano appena finito di spazzare la polvere e tirare su l’acqua e i vasi rovesciati e gli venne fame. Decisero di mangiare del pane con spalmato del pomodoro e dissero:- Fabian vieni a mangiare!- Fabian sentì ma non riusciva a parlare perché quella sfera lo teneva imprigionato lì a guardarla. Quando Maria andò a cercare Fabian e lo vide imprigionato lì mancò poco che svenne. Chiamò suo marito e insieme decisero di chiamare il dottor Buramon, che era specializzato in: casi senza ipotesi. Era molto ricco ed abitava a Kensington.  Il dottor Buramon era un vecchio signore coi capelli bianchi, gli occhiali quadrati e due baffetti anch’essi bianchi. Portava un camice bianco con una taschina da dove spuntavano un block-notes e un tappo di biro che lui portava sempre con se. Appena arrivato alla casa rimase sbalordito dal disordine ma fece finta di non notarlo.
Quando vide il bambino attaccato alla sfera lo staccò con la forza  e vide che i suoi occhi erano rosso sangue fissi sulla serratura e il corpo tremava tutto. Gli diede subito una medicina di nome: “Scindie  per casi disperati”.
Poi disse ai genitori: – Fra qualche ora tornerà come prima- questa frase rassicurò  madam Mistrò e il signor Wordigan, ma non li tranquillizzo del tutto.
Un  paio d’ore dopo come previsto Fabian si svegliò e si promise di non spiare più nel buco della serratura.
Scese e trovò il dottor Buramon che parlava coi suoi genitori, si nascose sotto la scala per ascoltare senza essere visto. Stavano parlando del fatto che in giro per la città girovagava un vagabondo; nessuno sapeva il suo nome si sapeva solo  che abitava a  Lambeth.  La mattina dopo Fabian uscì per dare un’occhiata alla sua nuova città. Stava passeggiando a Leicester Square quando si scontrò con una bambina – Ciao io sono Penny, Penny Lisley. E tu?-  chiese la bambina. – Io sono Fabian Wordigan, piacere di conoscerti Penny.- Penny Lisley era una bambina alta con dei  capelli corti biondi, due grandi occhi marroni e delle lentiggini marroncine. Lei era molto originale, si vestiva stravagante anche se i suoi  genitori erano molto ricchi. Penny era molto simpatica e chiese: – Oggi posso venire a casa tua?-  -Certo! Dai vieni, non abito molto lontano.-
Appena Penny arrivò davanti alla casa  per poco non urlò poi chiese:-Ehm tu….abiti qui?-
-Sì- rispose Fabian – La mia mamma l’ha messa a posto insieme a mio papà, ora e bella, oggi volevo vedere il fantasma. Ti va?-  Penny annuì e con un po’ di timore entrò con il suo nuovo amico nella casa.

Fabian entrò e disse:- Mamma ho una nuova amica- Penny e madame Maria si presentarono e andarono subito molto d’accordo, tutti insieme bevvero una cioccolata calda, senza papà perché era andato a Pentonville a cercar lavoro.
Penny e Fabian andarono  in soffitta a cercare il fantasma, quando salirono e non lo trovarono stavano per tornare indietro quando eccolo lì sbucare fuori! Era proprio trasparente, aveva un mantello e aveva due grossi baffi. Penny e Fabian urlarono e scapparono di sotto.
La mattina dopo Fabian si alzò di buon ora e andò a suonare a casa di Penny. Lei scese subito e insieme andarono a passeggiare a Trafalgar Square. Fabian raccontò che il fantasma era sparito ed aveva infestato un’altra casa. Penny batté le mani  felice.
Poi però videro il vagabondo, iniziarono a correre verso la casa di Penny ma lì c’erano troppe carrozze e non si riusciva a passare andarono allora verso la casa dei misteri entrarono chiusero il chiavistello e raccontarono tutto a madame Maria Mistrò che li fece sedere sul nuovo divano a bere una tazza di thè. Poi videro a parlare con il signor Wordigan  il dottor Buramon, ma in un angolo della cucina c’era il vagobondo legato e imbavagliato anche il signor Bartolomeo era legato alla seggiola chiamarono madame Mistrò che appena vide la scena svenne.
Il dottor Buramon fece una risata maligna e gli occhi gli uscirono fuori dalle orbite.
Poi si gettò al loro inseguimento, Penny e Fabian scapparono corsero dentro Hyde Park  si nascosero dietro un albero sperando che non li vedesse. Ad un  tratto arrivò una carrozza con uomini armati che presero il dottor Buramon e dissero:-Lui è un ricercato, è pazzo e andrà dritto in prigione- poi ringraziarono i bambini di averlo scovato e rientrarono nella carrozza.
Fabian e Penny tornarono a casa liberarono il signor Wordigan, risvegliarono madame Mistrò  e liberarono anche il vagabondo che si scoprì che si chiamava Umberto Daing, era una persona normale tutti lo chiamavano così perché viaggiava sempre e  rivolgeva la parola in modo brusco a chi gli chiedeva informazioni, poi tornò a casa sua dove c’era ad aspettarlo il suo cane.
La settimana dopo il signor Bartolomeo tornò a casa felice dicendo di aver trovato lavoro come cocchiere, Penny e Fabian diventarono molto amici e la città non considerò più ne la famiglia ne Umberto strani.
Il giorno dopo la regina li chiamò per ringraziarli di aver risolto il caso e gli regalò un servizio da thè. Tornando a casa Fabian disse:-Secondo me, incontreremo altri misteri in questi anni- -Hai ragione. Però noi naturalmente li risolveremo!- e tutti e due si misero a ridere.

 Isabel Sacchetti

LA CASA DEI MISTERI di Gaia Bigoni. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

La Casa dei Misteri di Gaia Bigoni

– Corso bambini – Primo Livello

 

E’ il 20 gennaio e nevica fitto fitto. Sono in casa, da sola, e osservo dalla finestra i fiocchi che scendono lentamente. Vivo su una collina, proprio accanto al suo esatto centro. Ed è dalla mia cameretta che riesco a scorgerlo, insieme a quella nebbia che non lo abbandona mai. Chissà perché, non mi sono mai avvicinata a quel castello spettrale. Mi fa venire la pelle d’oca solo pensare a quella cancellata che lo circonda, nero come le piume del corvo e con degli spuntoni come punte delle lance preistoriche.

 <Chissà se ciò che mi ha raccontato Erica è la verità..> dico tra me e me, seguendo con lo sguardo un fiocco di neve che, trasportato da un soffio di vento, va a posarsi dentro al grande giardino del castello abbandonato.

 Erica è la mia migliore amica, andiamo a scuola insieme.

 Io mi chiamo Noemi e ho dodici anni.

 <Noemi, lo sai che cosa mi ha raccontato mia nonna? Hai presente quel vecchio castello, vicino a casa tua? Mi ha detto che, centinaia di anni fa, ci vivevano due strani signori. Avevano all’incirca l’età dei nostri genitori, sui 38. Beh, loro avevano l’abitudine di uscire alle 6:00 del mattino e di ritornare sempre alle 12:00 in punto. Non sgarravano mai di un minuto, sembravano dei robot programmati per fare sempre gli stessi gesti, gli stessi movimenti. Un giorno, però, sbagliarono. Era il 20 di gennaio, e nevicava tantissimo, un po’ come oggi, dunque. La signora indossava un gilet di lana molto pesante e spesso che, al ritorno, si è impigliato nell’albero di fianco al castello. Il marito ha cercato di aiutarla, ma più tiravano più la lana si intersecava con la neve e i ramoscelli. Sembrerebbe che, alle 12:01, i due siano spariti, nel nulla, senza più lasciare loro notizie. Strano, vero?>.

Ecco, adesso sapete ciò che mi ha spiegato la mia amica. Già, proprio strano. Chissà, magari è una semplice leggenda. Ma io sono sempre stata curiosa e adesso mi sono intestardita: voglio assolutamente andare a fondo di questa faccenda!

Mi alzo e mi infilo in fretta un maglione rosso porpora. Mi metto un paio di anfibi che arrivano poco sotto al ginocchio, un cappotto e prendo la borsa con dentro le chiavi di casa, dei fazzolettini e un piccolo blocco con una penna. Ho intenzione di interrogare qualche passante, in modo di scoprire qualche informazione in più. Appena apro la porta per uscire, sento la pelle del viso gelarsi. Fa davvero un gran freddo, sembra quasi di essere al polo nord! Cammino lentamente e mi apposto vicino alla fontana, ormai ghiacciata completamente, aspettando pazientemente che qualcuno passi. La prima che vedo è una vecchia signora che vive di fronte a me e, data l’età, penso che potrebbe essere un buon soggetto per iniziare. Mi avvicino e la saluto. La vecchietta, sempre sorridente, contraccambia il “buonasera” e fa per continuare la passeggiata, ma io sono più veloce e le chiedo: <Mi scusi, lei sa qualcosa su quel vecchio castello? Sa… devo.. Fare una piccola ricerca per la scuola e mi sembrava un buon soggetto!> mi invento, sperando che la signora non abbia niente di urgente da fare. Per la prima volta, da quando l’ho conosciuta, ho visto il suo viso oscurarsi. <Mi dispiace, ma temo che dovrai cambiare argomento. Quello non è proprio il castello più adatto sul quale svolgere una ricerca, te lo assicuro. Perché non provi con qualcosa di più classico, che so.. La torre di Pisa?> propone la vecchietta, riprendendo lentamente a sorridere. <Ehm.. Perché no?! Grazie mille, mi è stata di grande aiuto..> farfuglio, fingendomi di buon umore. Dentro di me, però, i punti interrogativi si fanno più grandi. “Perché mai non ha voluto parlarmi di quel castello? Cosa ci sarà di tanto orribile?” penso, guardando la signora allontanarsi a grandi passi, facendosi strada tra i grandi cumuli di neve ammucchiati. “Ok, io non mi arrendo! Proverò con un altro passante!” decido, facendo il grave errore di sedermi sulla fontana ghiacciata. Mi rialzo in piedi come se ci fossero stati mille chiodi appuntiti e torno alla posizione iniziale: in piedi, con le mani (ormai quasi ghiacciate anche quelle..) nelle morbide e calde tasche del cappotto. Aspetto per almeno dieci minuti e non passa anima viva. Decido di appostarmi un po’ più a destra, dove passa un po’ più gente, ma quasi non faccio in tempo a pensarlo che vedo un signore in lontananza camminare nella mia direzione. “Fantastico, quello è lo spazzino Jim! E’ simpaticissimo e sicuramente saprà qualcosa su quel castello, lavora qui da molto tempo..” penso, tornando sorridente. <Buonasera, Jim! Come stai?> gli chiedo, agitando la mano. Per me è come uno zio, spesso viene addirittura in casa ad aiutarmi a fare i compiti quando mamma e papà sono troppo impegnati col lavoro, oppure quando ero più piccola mi leggeva le favole.. Insomma, ho tanti bei ricordi legati a lui! <Oh, ciao piccola! Cosa ci fai qui fuori, nevica fortissimo! Dovresti essere a casa a sorseggiare una buona cioccolata calda!> mi dice lui, facendomi l’occhiolino per sottolineare le ultime parole. <Si, adesso rientro.. È solo che mi servirebbe il tuo aiuto!> tento, sperando che non rimanga sul vago anche lui. Appena Jim annuisce, chiedo immediatamente di spiegarmi qualche cosa sul castello, senza aggiungere la bugia del compito: con lui posso essere sincera. <Veramente.. Preferirei non parlare di quel castello, non è il posto per voi ragazzi! Piuttosto.. Perché non vai davvero a berti quella cioccolata calda, su!> mi incita, indicando casa mia. “Non è possibile!” penso, sgranando gli occhi. <Ma.. Perché non me ne volete parlare? Che cos’ha di tanto brutto quel castello?> insisto, sperando che ceda. Ma Jim è irremovibile e non mi resta che tornare a casa, sotto il suo occhio vigile che controlla ogni mio movimento. “Altro buco nell’acqua..” penso, sconcertata. Mi sforzo di mettere insieme i pochi tasselli che ho a disposizione, ma mi rendo immediatamente conto che sono troppo pochi. “Aspetta! Se andassi lì, magari ci capirei qualcosa.. Certo! Mancano esattamente due ore prima che i miei tornino dal lavoro.. Uhm.. Forse è meglio rimandare il tutto a domani, così informo anche Erica e qualche altro compagno, se volessero venire con me sarebbe più divertente e.. mi sentirei più sicura!” sono euforica per questa bella idea, ma qualcosa ancora frena il mio entusiasmo. “Però.. Quel castello fa una gran paura.. Non so se avrò il coraggio di entrarci!”. Cerco di non pensarci, per ora e mi concentro singolarmente sui compiti che ho davanti. “ODIO LE FRAZIONI!” penso, dopo essermi soffermata per più minuti su un’operazione complicatissima. La serata vola in fretta ed è già ora di andare a dormire. Mi giro e rigiro nel letto fino a mezzanotte, poi, finalmente, mi addormento e lascio per un po’ il mondo reale.

DRIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN!!

<Oh, No.. È già mattina?> sussurro, aprendo prima un occhio e poi, molto più lentamente l’altro. Spengo quel frastuono e scendo a fatica dal letto. Poi mi scuoto, ricordandomi che è il “grande giorno”, quello della spedizione! Faccio velocemente colazione e mi lavo i denti in fretta, in modo da avere il tempo di scrivere cinque bigliettini: “NON ANDARE SUBITO A CASA, DOPO LA SCUOLA! ASPETTA SOTTO CASA MIA! DEVO DIRTI UNA COSA IMPORTANTE! BY NOEMI.” Ho deciso che li avrei attaccati a un libro di Erica, Samantha, Elisa, Roberto e Kevin, i compagni di classe più simpatici. Corro a scuola nonostante manchino ancora venti minuti e trovo, come previsto, Samantha e Elisa che arrivano sempre molto presto. <Ciao, ragazze! Tenete questi!> dico immediatamente, allungando loro due dei biglietti. Li leggono attentamente e annuiscono. <Vi spiego oggi pomeriggio!> continuo, correndo via, perché ho visto arrivare Kevin e Roberto. L’ultima è Erica che arriva dieci minuti dopo. Sono tutti e cinque molto curiosi, ma non rivelo niente per non dare nell’occhio: ormai ci sono almeno una cinquantina di alunni nel piazzale e discorsi su castelli avvolti dalla nebbia non passerebbero certo per normali chiacchiere sportive!

Così mimo “dopo!” con le mani e, in quel preciso istante suona la campanella.

<Ragazzi, aprite il libro a pagine 50..> borbotta la scorbutica insegnante di matematica. “Uffa.. Speriamo che la mattinata passi velocemente, adesso non sto più nella pelle!” penso, osservando un’espressione con almeno cento numeri. Per fortuna il mio “desiderio” si avvera e le ore trascorrono piuttosto velocemente, grazie al fatto che la professoressa è chiamata ben tre volte in un’altra classe per chissà quale strano motivo. <FINALMENTE!> esulto, appena metto piede fuori dalla scuola. Approfittando del fatto che gli altri cinque sono, casualmente, vicini tra di loro, li trascino verso casa mia e spiego loro il piano. Rimangono tutti allibiti, soprattutto Erica, che mi conosce meglio degli altri e sa perfettamente che quel castello mi ha sempre dato i brividi. <Sei.. sicura?> mi chiede, infatti. <Certo! Sarà una bella avventura, non trovate? E poi se è disabitato non può sgridarci nessuno, no?> commento, anche se un briciolo di tensione è sempre presente e non sembra avere intenzione di lasciarmi. <Io ci sto!> risponde Kevin. Anche gli altri, dopo qualche secondo di esitazione, accettano. <Bene! Ho qui, dentro allo zaino, il pranzo al sacco per tutti. In più sei torce, una fune (non si sa mai..) e sei walkie talkie.> annuncio, tirando fuori l’attrezzatura e porgendo i panini al prosciutto, formaggio o salame. <Sei proprio attrezzata!> commenta Elisa, strizzandomi l’occhio e divorando il suo panino. Dopo il pranzo, durato non più di un quarto d’ora, osserviamo l’albero della “leggenda” che mi ha raccontato Erica a pochi metri di distanza. Mi faccio coraggio e mi avvicino. “Hey!” penso, notando un pezzo di lana infilato in un rametto. “Che sia.. Quella della signora? Ma no, non può essere..sarà una semplice coincidenza, ecco tutto!” scaccio via quell’assurda idea, anche se devo ammettere che la cosa mi spaventa un po’. Il castello è sempre avvolto da quella sottile nebbiolina inspiegabile. <Mi sa che dobbiamo scavalcare!> annuncia Roberto, tenendo la pila in una mano e il walkie talkie dall’altra. Si arrampica sul cancello ghiacciato. <Ma sei matto? Potresti scivolare!> esclama Samantha, spalancando gli occhi. <Tranquilli.. Sembra ghiacciato, ma in realtà non c’è traccia di neve! E’ incredibile, ma è la verità! Toccate una sbarra!> ciò che dice Roberto ci sembra un’assurdità, ma dopotutto provare non costa niente. Tocco con la mano gelata uno spuntone e avverto quasi un leggero.. Calore! <Com’è possibile..> sussurro. “Beh, non c’è tempo!” penso, scrollandomi e scavalcando il cancello. Anche gli altri mi imitano e, in men che non si dica, siamo dentro. <Una volta, ho sentito un signore parlare con un suo amico di questo castello! Per caso ho scoperto che tutti lo considerano una casa dei misteri, ovvero una casa stregata! Non sono riuscita a capire benissimo per quale motivo, ma dalla faccia cupa del signore ho capito che non deve essere niente di piacevole!> annuncia Samantha. <Già.. Anche io ne avevo sentito parlare! Dicono che ci siano addirittura degli spettri, ma sinceramente non ci credo..> ammette Roberto. Accendono le pile, perché in quel posto lugubre, nonostante sia a due passi dal resto del mondo (dove sono ancora le 14:00..), sembra notte fonda.

<Accidenti, qui è tutto così.. Spettrale!> commenta Erica, facendo leggermente tremolare la voce. <Se avete paura.. Possiamo tornare indietro!> aggiungo, che ho la tentazione di scappare da questo terrificante posto a gambe levate. <Ma no, proseguiamo! Voglio esplorarlo per bene questo castello!> risponde invece Kevin, spostando la flebile luce della pila verso la porta d’ingresso. Un corvo, tanto per “rallegrare” l’atmosfera, lancia un grido e si alza in volo appena Samantha tocca la maniglia per entrare. “Fantastico.. Proprio come nei film horror! Ma dove siamo capitati?” mi chiedo, pentendomi immediatamente della scelta improvvisa di visitare questa specie di casa stregata. La porta si apre con un leggero sibilo a un tocco di Elisa e, facendoci coraggio, entriamo in fila indiana. <Bene.. Fin qui tutto a posto, no?> sussurro, come per cercare di tranquillizzare gli altri, ma soprattutto me stessa. <S-sì..> la risposta di Samantha arriva come un soffio lontano mille anni luce. <HEY, DOVE SIETE FINITI?> urlo, appena sposto la luce della pila da un muro qualsiasi al punto in cui, in teoria, dovrebbero esserci i miei amici. Sono spariti tutti, sono da sola!

“Ok, niente panico.. Ci deve essere una spiegazione logica! Magari hanno visto una luce e l’hanno seguita, mentre io ero soprappensiero.. No, non può essere, mi sono voltata solo per qualche istante, troppo poco per riuscire a dileguarsi in questo modo!” la mente si riempie di pensieri, prima che riesca a notare un fatto molto insolito. <Un momento.. Mi sembrava che.. Qui non c’era un muro?!> sussurro sbalordita, fissando un corridoio apparso dal nulla dove prima c’era la parete illuminata dalla mia torcia. Mi volto con l’intenzione di correre via, verso la porta, ma sbatto contro.. <IL MURO!>. Ecco dov’era finito! Si era.. Spostato?! “Adesso da dove proseguo? L’unica via è questo corridoio.. Sembra una specie di via che porta a un labirinto, se mi perdo sono fritta! Ma d’altronde.. Anche se resto qui sono fritta! Quindi tanto vale tentare!”. Corro nell’unica direzione possibile e mi ritrovo in una stanzetta buia che assomiglia a un salotto. Ci sono almeno cinque quadri su ogni parete, un grande lampadario acceso, due poltrone rosse affiancate e un vecchio televisore. Sembra una stanza che risale al novecento.. Tra l’altro lo stiamo studiando proprio in questi giorni, quel periodo! Beh, è normale che sia così.. Qui ci hanno abitato centinaia di anni fa. Mi sento leggermente più a mio agio, anche perché il panorama adesso assomiglia alla casa di mia nonna, ovviamente togliendo il fatto che questo è un castello vero e proprio e che è su due piani, non come la vecchia cascina della nonna Iris. Osservo il tappeto: sembra posizionato proprio al centro della stanza, non un millimetro più a destra o a sinistra. “Erano tipi precisi..” penso, posando lo sguardo su una grande libreria, su cui ci saranno almeno un migliaio di libri vecchi, alcuni ammuffiti o ingialliti. Almeno la metà sembra composta tutta da “La Divina Commedia” da quanto sono spessi quei volumi! Mi avvicino e leggo un titolo a caso: “La Casa Stregata: le verità e le bugie”. Ironia della sorte.

<MI SENTIIIIIIIIIIIIIIIIIITE??> io non posso saperlo, ma dall’altra parte del castello sono rinchiuse Elisa e Samantha. Si sono ritrovate in soffitta, una buia, polverosa soffitta, abitata da ragnetti e topi. Non poteva esserci stanza peggiore, per Samantha! Odia tutti gli animali che assomigliano, anche solo lontanamente, a insetti o molluschi. Per non parlare degli aracnidi! Se ne vede uno è capace di svenire! Decidono di mantenere la calma e di continuare a chiamare rinforzi con il walkie talkie, perché di porte non ve n’è traccia.

C’è qualcun altro intento a far funzionare il walkie talkie. E’ Erica, chiusa al piano superiore nella stanza esattamente sopra alla mia, ma non sento alcun rumore di passi o nessun grido, come invece sarebbe logico udire. Più precisamente è in una camera da letto. C’è una scrivania alta all’incirca un metro, con sopra mille oggettini diversi. Sembra un bazar! Fermagli, carillon, matite, libricini, un blocco ingiallito, qualche spilla, bottoni, una piuma d’oca, un barattolino con una sostanza nera (probabilmente inchiostro vecchio centinaia di anni..) e numerose altre cose. Probabilmente, se non fosse stata impaurita e sola, si sarebbe incantata nell’osservare quel bellissimo “mercatino”. Lei adora gli oggetti, ha un sacco di collezioni, alcune molto ricche che lei considera tesori, che fanno invidia ai negozi più forniti!

Intanto Kevin e Roberto sono rimasti insieme. Sono tornati in giardino e la casa e scomparsa sotto ai loro occhi, nello stesso istante in cui io mi sono accorta di essere da sola. <Che cosa ci facciamo di nuovo qui? E dove sono le ragazze?> domanda immediatamente Kevin. <Non lo so.. C’è stato una specie di lampo accecante, poi mi sono ritrovato qui, come del resto tu..> risponde semplicemente Roberto, scrollando le spalle.

Ammiro, rapita, ogni singolo libro. Sono proprio tantissimi! Vorrei sedermi su una poltrona e leggerli tutti, uno ad uno. Quando ho imparato a leggere e andavo a casa di nonna Iris, sceglievo sempre un libro dalla sua vastissima raccolta di volumi di tutti i generi e mi esercitavo. Quanto mi piace leggere! Adesso, però, non c’è tempo. Corro verso l’uscita e vedo, davanti a me, una lunghissima scala a chiocciola. La salgo cautamente, avvolta da scricchiolii sinistri per ogni passo fatto e raggiungo il piano superiore. E’ solo allora che sento sia la voce di Samantha, che quella di Elisa, di Erica e quella dei ragazzi. <Kevin e Roberto a ragazze! Ci sentite? Passo!> gracchiava il walkie talkie. <Io vi sento!> rispondo, felice di avere un contatto con loro. <Anche io!> rispondono in coro le ragazze. <Dove siete? Noi di nuovo in giardino, non sappiamo come ci siamo finiti. Passo.> avverte Roberto. <Io sono alla fine delle scale a chiocciola, vale a dire all’inizio del secondo piano..> comunico. <Non saprei.. Credo di essere al secondo piano anche io, ma non ho il coraggio di guardare alla finestra per confermarvelo!> ammette Erica. <Noi siamo chiuse in soffitta! AIUTO, c’è un ragnoooo!!> urla Samantha, cedendo il walkie talkie a Elisa e correndo a rintanarsi dentro a una specie di scatolone. Mi scappa un risolino, che contagia immediatamente gli altri, perfino la “temeraria” Samantha. <Arrivo, ragazze! Passo e chiudo.> avverto, mettendo il walkie talkie in tasca e dirigendomi verso una porta a caso. Ne apro una e, fortunatamente, è quella giusta: Erica mi abbraccia come se fossi un pompiere che porta via una ragazza ferita da una casa incendiata e mi chiede come ho fatto a trovarla. <Che domande.. Ho aperto la porta e..> non riesco a finire la frase. Non c’è più alcuna porta! Non esiste più la stanza nella quale, un momento prima, eravamo! Adesso c’è solo una lunga parete e, in fondo, una scala che porta alla soffitta.

<Ok, arriviamo anche noi! Passo e chiudo!> dice Roberto, buttandosi immediatamente verso la porta. <Stiamo calmi, magari c’è qualche altra trappola..> Kevin non è tranquillo, ma decide che non può lasciarci sole, così affronta nuovamente questa stramba casa stregata.

<NOEMI! ERICA! Che bello vedervi!> siamo in soffitta e si ripete la scena: Samantha mi butta le braccia al collo, manco fossi un’eroina. <Dai, stai calma!> le dico infatti, sorridendole e osservando la sua carnagione che, lentamente, torna del suo colore originale. <Prima era bianca come un lenzuolo, soprattutto quando ha scoperto che ci sono dei ragni..> mi sussurra Elisa, guardando teneramente la nostra amica. <Usciamo di qui, prima che ci siano altre sorprese!> interrompe Erica, ma è troppo tardi: la porta dalla quale io e lei eravamo entrate è nuovamente scomparsa, imprigionandoci lì. <Oh, meraviglioso..> sussurro, in preda a una crisi nervosa.

<Ho sentito un rumore strano..> dice intanto Roberto, riferendosi al sinistro cigolio della porta scomparsa. <Anche io, ma non ho capito cos’era.. Boh, forse un topolino!> taglia corto Kevin, salendo le scale a chioccola per raggiungere la soffitta. <Hem.. Le ragazze non avevano parlato di QUESTO.. Vero?!> la voce del ragazzo, che ha preceduto Roberto, è tremolante. <Che cosa?> chiede l’amico. Ma non c’è bisogno che dica niente. Appena Roberto gli è accanto e vede lo strano e spettrale spettacolo diventa bianco di paura. C’è un lunghissimo corridoio con almeno cinque lampadari che vanno su e giù, ripetutamente, come in una strana danza. In più le porte, situate alternativamente a destra o a sinistra, sbattono e cigolano. Una risata agghiacciante non dà loro il tempo di scegliere se proseguire o scappare a gambe levate. Si ritrovano direttamente in soffitta, accanto alle amiche. <Ma come..> inizio io, vedendoli apparire alla mia destra. Kevin scrolla le spalle e Roberto alza le mani, segni che fanno immediatamente capire che loro non ne sanno più di noi.

<Ok, di qui non si esce.. Che si fa?> domanda Erica, avvicinandosi cautamente alla finestra. Sotto vede il vuoto abissale: solo nebbia. <Forse se legassimo la corda a qualcosa e scendessimo dalla finestra..> ipotizza Roberto, ma a me non pare una grande idea. <Impossibile, per due motivi: primo, la corda non è tanto lunga da arrivare fino a terra (o anche solo a una misura da cui si possa saltare). Secondo.. Non sono brava ad arrampicarmi sulla corda! E che io sappia neanche loro..> termino, indicando le mie amiche. Queste ultime annuiscono.

Decidiamo di aspettare: qualcosa dovrà pur succedere! Infatti, appena dieci o forse quindici minuti dopo, sentiamo un’altra risata, simile a quella udita da Roberto e Kevin. Questa volta, però, ha un suono più roco.. La voce sembra maschile. <Chi va là?> chiedo, con voce tremolante.

<Perché siete venuti in questo castello?> domanda qualcuno, questa volta una voce femminile.

<Non volevamo disturbare nessuno.. Credevamo fosse disabitato e..> azzarda Samantha, ma l’uomo la interrompe. <Non è disabitato! Insomma.. Non esattamente.> mormora, infatti.

D’un tratto sentiamo qualcuno singhiozzare. <Siamo gli spettri della coppia che, un tempo, ci viveva.> spiega la donna, tra una lacrima invisibile e l’altra. Appena sento questa notizia mi vengono i brividi. <Che cosa è accaduto?> domando. L’uomo fa un respiro profondo, poi una luce argentata investe un angolo della stanza e appaiono due corpi, apparentemente normali. <Ecco, questi eravamo noi più di cento anni fa..> rivela la donna. Erano bellissimi e lei portava lo stesso gilet del giorno in cui è scomparsa (o almeno credo.. È rosso e ha, su un fianco, due o tre fili tirati..).

Siamo spaventati ma allo stesso tempo affascinati. Ci sediamo per terra, in silenzio, ad aspettare tutto il racconto. <La verità è che noi siamo sempre stata una piccola famiglia molto particolare. Non credevamo particolarmente alle leggende, ma ci sono sempre piaciute. Così, appena abbiamo saputo che su questo castello circolavano voci strane (maledizioni e spiritelli, per di più) siamo corsi a comprarlo. E’ stato il più grosso errore della nostra vita. Una maledizione c’era davvero. Eravamo obbligati ad uscire a una determinata ora e rientrare ad un’altra, senza poi poter più mettere naso fuori. Se tardavamo di un minuto.. Allora per noi sarebbe finita. Tra l’altro qui ci sono tutti gli spiriti delle persone che, prima di noi, hanno voluto venire ad abitare qui. Alcuni di loro sono malvagi e, due in particolare, si divertono a fare scherzi sciocchi ai ragazzini come voi che, spinti dalla curiosità, vengono a vedere che cosa si nasconde in questo castello. Ma dovete stare attenti! Se rimanete qui più di ventiquattro ore, farete la nostra stessa fine e sarete costretti a rispettare i nostri stessi orari per tutta la vita! Anche dopo la vostra morte, naturale o non, sarete per sempre rinchiusi qui dentro.> racconta l’uomo. <E’ orribile! Continuate, cos’è successo di preciso quel giorno?> chiede Elisa. <Beh.. Quel giorno ho avuto la sciocca idea di raccogliere, lungo la strada, una mela da quell’albero. Già, un tempo era rigoglioso e dava buonissimi frutti, non come adesso che è vecchio e rinsecchito. Non l’avessi mai fatto. Sono rimasta impigliata lì e, nonostante tutti i nostri sforzi, non siamo riusciti a liberare il mio gilet. Ecco com’è andata.> termina sconsolata la donna, sul punto di rimettersi a piangere. <E’ una storia tristissima. Non possiamo fare nulla per voi?> chiedo, sperando con tutto il cuore che la risposta sia “si”. <Veramente.. Una cosa potreste farla! Sareste davvero gentili e vi saremmo eternamente riconoscenti!> si illumina l’uomo.

<Se riusciamo con grande piacere!> accetta per tutti Kevin.

<Innanzitutto dovete uscire da questo castello, ma non sarà un problema: possiamo aiutarvi noi. Poi dovete trovare il modo, entro le 12:00, di tagliare via, comprese le radici, l’albero in cui mi sono impigliata. Se riuscirete in questa impresa, saremo tutti liberi di uscire di qui. Alcuni che sono morti per colpa di questa maledizione, come noi, potranno tornare a vivere. Altri che sono diventati spettri per altre ragioni potranno, finalmente, riscoprire la libertà. Ma dovete fare in fretta: forse non ve ne siete accorti, ma è passato molto tempo da quando siete entrati in questo castello. Sono già le 11:00!> esclama la donna. Noi cinque non possiamo credere alle nostre orecchie. Com’è possibile? <Beh, adesso uscite da quella porta e cercate un modo per distruggere l’albero!> termina l’uomo, indicando una piccola porticina appena apparsa. <Certo!> esclamiamo in coro, colmi di gioia. Non solo possiamo uscire, ma abbiamo anche il modo di aiutare quelle povere persone.

<Credi che ce la faranno? Molti hanno già tentato e altri, dopo questa promessa, sono fuggiti senza neanche provarci..> ricorda a capo chino la donna. <Loro mi sembrano ottimi ragazzi. Vedrai, è la volta buona!> la rassicura il marito, abbracciandola.

<Siamo fuori!> esulto, correndo verso il mondo reale. Adesso, intorno a noi non c’è più nebbia ma un bel sole caldo che sta lentamente sciogliendo la neve. Ci fermiamo tutt’intorno all’albero. <Sembra più secco del solito..> commenta Samantha, toccando un rametto. <Come facciamo a toglierlo? Poi, le radici.. È impossibile!> commenta Roberto, osservandolo come se lo vedesse per la prima volta. <No, non è impossibile.. Ma è difficile!> lo correggo io, abbozzando un sorriso.

<Chissà com’è andato il compito in classe..> mormora invece Elisa, distraendosi un attimo. <Ma ti sembra il momento di pensare alla scuola?!> la rimprovera Erica, mettendosi le mani sui fianchi.

<ELISA, SEI UN GENIO!> esclamo, invece, io. <Hem.. Grazie.. Perché?> chiede lei, confusa. <Su che argomento era il compito di scienze?> domando. <Beh.. Sulla natura.> risponde Roberto. <Esattamente. E abbiamo studiato che gli alberi, per vivere, hanno bisogno della fotosintesi clorofilliana. Che cosa serve per far sì che la fotosintesi avvenga?> chiedo ancora. <Serve la luce del sole e la.. LA LINFA!> esclama Samantha, che ha capito dove voglio arrivare. <Giusto! Per cui.. Cosa succederà se priviamo questo albero della linfa?> continuo, sorridendo. <L’albero morirà! Certo! E’ già secco, quindi non ci vorrà molto!> termina Kevin, raggiante. <Mettiamoci al lavoro! Dobbiamo forare in qualche modo le radici, così acqua e sali minerali non passeranno più e la linfa grezza non potrà salire verso il tronco!> spiega Erica, mettendosi a scavare nella neve a mani nude. <Ma dobbiamo fare in fretta! Manca un quarto d’ora!> avvisa Elisa, aiutando l’amica insieme a tutti noi. Scaviamo freneticamente e, finalmente, troviamo la terra. <Coraggio, non deve mancare molto!> aggiungo, quando ormai mancano si e no cinque minuti. E’ una vera e propria corsa contro il tempo, ma sappiamo che abbiamo le carte per vincerla. <ECCOLE!> esultiamo, toccando qualcosa di duro. <Non sarà una passeggiata farci un buco! Sono ancora belle spesse!> commenta Samantha. <Aspetta.. La corda! Potremo legare le radici e poi tirare, tutti insieme, l’altro capo! Così si dovrebbe sradicare dal terreno!> propongo. Siamo tutti d’accordo, così leghiamo velocemente la corda a tre o quattro radici, facendo nodi belli spessi e tiriamo con tutte le nostre forze. Tiriamo, tiriamo, tiriamo e tiriamo.. Poi sentiamo un “CRICK”, simile a un vaso di cristallo che và in frantumi. Non crediamo ai nostri occhi: l’albero sta… andando in pezzi! Proprio la fine che fanno, a volte, i piatti di casa mia..

<Ce l’abbiamo fatta!!!> gridiamo, colmi di gioia. Piano piano la nebbia intorno al castello si dirada e una folla di gente esce, urlante, dal castello. Altrettanti spiriti, liberi da quello che sembrava un eterno maleficio, volano di qua e di la, come impazziti. <GRAZIE!> urlano tutti in coro, mentre assaporano il piacere di essere di nuovo vivi.

<Noemi, Noemi!> una voce mi chiama, ma non capisco da dove viene.

Apro gli occhi. Sono sdraiata in camera mia, sul mio letto. “No.. Non può essere..” penso, sbarrando gli occhi e sedendomi di scatto. <Sveglia, dormigliona! E’ ora di prepararti per la scuola!> mi annuncia mia madre dalla cucina. <Si, arrivo!> rispondo. “No, sono convinta che non sia stato un sogno.. Era troppo reale!” continuo a ripetermi, ma per quanto cerchi segni di realtà in quella bizzarra situazione, non ne trovo. Eppure, se solo mi affacciassi alla finestra, noterei non solo che il castello non è più avvolto nella nebbia e che il famoso albero rinsecchito non c’è più.. Ma anche che c’è una bellissima coppia che, ridendo, osserva compiaciuta tutta la scena.

Gaia Bigoni

LA CASA DEI MISTERI di Francesca Arcangeli. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

LA  CASA  DEI  MISTERI di Francesca Arcangeli

 

Primo Livello Bambini

Corso di Scrittura on-line

 

La chiamavano la casa dei misteri ed era disabitata da molti, lunghissimi anni.
Era sempre stata nota per l’orrenda fine dei suoi proprietari. Era una storia di cui i vecchi abitanti del paesino amavano ancora parlare per impaurire i piccoli e curiosi bambini della zona. La storia racconta che una volta lì ci viveva un duca, con sua moglie e due figli. Poi, una mattina cupa e scura, il giardiniere trovò la moglie e i figli del duca assassinati in salotto: il figlio maggiore quasi incenerito nel camino, la madre stesa sul divano e il più piccolo dei due figli appeso al soffitto. Nessuno sa cosa successe veramente quella notte ma una cosa fu certa: del duca neanche traccia. Nessuno però si stupì più di tanto dato il fatto che la famiglia, recentemente, aveva avvertito strane presenze come mobili che si spostano, oggetti che scompaiono e ricompaiono all’improvviso nei posti più insensati e il solito vento caldo che spostava le tende anche a finestre chiuse. La famiglia insomma aveva affermato che la casa era infestata da spiriti malvagi….

Era una fredda mattina di fine ottobre, l’aria era pesante e un leggero venticello pungeva il viso. Avevo sentito tutte le storie su quell’orribile casa ed ero decisa a scoprire cosa si nascondeva là dentro. Era una villetta isolata posta in cima ad una collina, piuttosto diroccata ma ancora visitabile e comunque ci sarei entrata lo stesso anche se il tetto potesse crollare da un momento all’altro. Il muro era scrostato e pieno di edera e in alcuni punti c’erano dei buchi grandi quanto un palmo di mano che la rendevano ancora più inaffidabile agli occhi della gente. I quattro lati della casa erano rivestiti da pietre di diversa grandezza e spessore che, al tramonto, creavano simpatici giochi d’ombra sull’erba verde e dorata tappezzata, qua e là, da un po’di ghiaia bianca e diverse piccole macerie che la casa doveva aver perso con gli anni. Accanto aveva una piccola pianta di uva rossa che si era arrampicata mezza su capanno di legno a cui mancava una parete e dove dentro, una volta, tenevano gli attrezzi da giardinaggio. Infatti all’interno c’erano ancora un vecchio tagliaerba con diversi fili che spuntavano dal manico e si erano ricoperti di polvere e, su un tavolo di legno forato dalle tarme, c’era un antico macete arrugginito che aveva perso ormai tutto il pezzo di lama affilato e, dato che il manico era mezzo rotto, assomigliava di più a un boomerang di ferro. Al lato destro della piccola vigna cresciuta senza riguardi c’era un pozzo fatto di rocce e cemento che aveva sopra un piccolo archetto in ferro battuto avvolto dall’edera secca. Sporgendosi non si riusciva a vedere il fondo infatti si scorgeva soltanto una massa melmosa sotto quelli che sembravano cinque metri d’acqua stagnante. Accanto scorreva un piccolo ruscello proveniente dalla montagna che portava acqua gelida ad un minuscolo laghetto dove sguazzavano piccoli pesci rosso rubino e giallo ocra anche se erano tutti ricoperti di sporcizia e inquinati. Una mal ridotta staccionata di legno con diverse assi mancanti e di un colore marroncino chiaro scolorito dal tempo e dalle intemperie, circondava il tutto rendendo il posto, se possibile, ancora più malandato. Dietro la casa c’era un giardino dall’erba mal curata e un enorme quercia secolare con foglie gialle e quasi spoglia. La sua corteccia era ruvida e in alcuni punti scavata dal tempo. Doveva essere lì da molto più tempo della casa perché era alta più o meno quattro metri e con lunghi rami grossi e pesanti. Una piccola stradina di sassi portava ad una poco rassicurante porta con i vetri rotti. La tintura viola era scolorita e al suo posto era comparso il legno forato; << non entrare>> diceva una vocina maligna i un sussurro come per mettermi paura, << sei arrivata fin qui, che senso ha tornare indietro? Entra!>> questa voce era più calda e rassicurante e così raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo, girai la vecchia maniglia di ferro arrugginito e, con un cigolio inquietante, entrai.
Davanti a me c’era un piccolo corridoio fatto di tavole di legno. Esse erano di un marrone terra sbiadito e corrose dalle tarme e dal tempo, umide e rotte. Davanti a me c’era una scala a chiocciola con il porta mano in ferro scolorito dalla sua tintura bianca originale. Un vecchio tappeto logoro e sporco le saliva tutte accompagnato dai suoi buchi. Al centro, proprio sopra di me, i resti di un vecchio lampadario fatto a fiore con diverse striscioline di diamanti che pendevano sul punto di staccarsi completamente. Dietro la scala a chiocciola c’era una porta bianca con diverse macchie ed una maniglia arrugginita che un tempo era tinta d’oro. Decisi di iniziare dal piano terra e così aprì quella porta. Era una vecchio bagno. Il wc era rotto e scheggiato ma un tempo doveva essere di una ceramica costosa. C’era un antico lavello di marmo bianco, sporco ma ancora intero. I pomelli erano ricoperti di polvere e arrugginiti tanto che non si potevano più muovere. Sul pavimento c’erano diverse piastrelle rotte e di alcune non ce n’era proprio traccia in modo da mettere il suolo terroso in bella vista. Una piccola doccia era davanti al wc ma i vetri che la contenevano erano andati in frantumi e mancavano diverse mensole porta-sapone. Richiusi la porta e decisi di oltrepassare l’arco accanto al lampadario. Mi ritrovai in salotto. Era una stanza grande ed abbastanza accogliente. I muri erano di un colore giallo acceso ma scolorito e diverse lampade ad olio erano poste su dei tavolini di legno rotondi e corrosi posti ai lati di un bel divano arancione con della gommapiuma che spuntava dai braccioli e dei buchi nell’involucro ruvido. Davanti c’era una camino ben lavorato di pietre scure che spiccava per il suo comignolo a punta fatto di pietre arancioni. Era però scalfito, rotto e coperto da un centimetro di polvere (come tutto in quella casa) che lo rendeva inquietante e isolato. Al centro, sopra un bel pavimento fatto di tavole di legno logore e sudice, si trovava un tappeto azzurro pieno di buchi e con i disegni dorati scoloriti dal tempo. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo a forma rotonda. Le lampadine erano rotte ma la maggior parte era caduta a terra formando piccoli pezzi di vetro taglienti che riflettevano la luce del sole. Passando per una vecchia porta di cui era rimasto solo qualche pezzo di legno qua e là, c’era la cucina. I fornelli erano rotti e minuscoli pezzi di ferro arrugginito erano davanti. Doveva aver preso fuoco perché l’interno era nero e pieno di fuliggine e diverse pentole erano state cappottate sopra anche queste completamente nere. Il tavolo era bucato dalle tarme e al centro della cucina. I gambi erano lavorati finemente anche se adesso ne mancava uno che era sdraiato sul vecchio pavimento freddo e umido di marmo nero. Sopra un vecchio lavandino rotto senza un pomello d’argento c’era una credenza per i piatti, anche se dentro era rimasto solo un bicchiere di vetro sporco e macchiato. Accanto si trovava un cofanetto bianco e rotto il cui sportello si muoveva ritmicamente. Un momento: lo sportello si muoveva! Tornai a guardarlo e questo si fermò di colpo. Poi iniziò ad accendersi e spengersi una lampada ad olio vicino ad un vecchi mobile di legno di noce che già traballava. D’un tratto ogni cosa si fermò e iniziò a fare freddo, il freddo aumentava. La brina si stava posando sul vecchio frigorifero rotto. Poi un fischio assordante riempì la stanza e a questo punto volevo solo scappare. Iniziai a correre versò la scala a chiocciola e dalla fretta di salirla inciampai in due gradini rotti finendo con una gamba incastrata mentre con una mano mi reggevo al tappeto. Arrivata in cima il fischio cessò. Che cosa poteva essere stato? Una cosa era certa: quella casa non era normale. Prima finivo di ispezionarla meglio era!
mi trovavo in un lungo corridoio con il soffitto arrotondato e pieno di disegni che raffiguravano angeli nel cielo coperti di nastri e fiocchi ma era anche tappezzato di porte. Davanti ad ognuna c’era una lastra di legno più chiara di quelle con cui era ricoperto il pavimento che serviva forse come piccolo scalino. Entrai nella prima: era una camera con il letto a baldacchino. Le lenzuola erano di un color violetta chiaro che stonava alquanto con il muro giallo canarino. I cuscini erano sparsi sul vecchio pavimento bucato e i pezzi di vetro del bellissimo lampadario e delle lanterne riflettevano la luce del sole che passava dalla finestra e che si stava affievolendo sempre di più. dovevo fare in fretta era già inquietante stare lì di giorno, figuriamoci di notte. Guardai per l’ultima voltai magnifici comodini di legno di quercia a cui mancavano diversi gambi e mi chiusi la porta alle spalle. Passai alla seconda stanza: era più piccola e il letto a una piazza aveva le coperte azzurrine e i muri blu notte, il tutto, naturalmente, rotto e sporco. Diverse mensole erano piene di macchinine rotte e bambole aperte a metà. Un piccolo comodino regnava sovrano accanto al letto e sopra c’era un lampada bianca. Le finestre erano assenti come i cuscini e, su una scrivania vecchia e logora, c’era un mappamondo con accanto diverse penne senza inchiostro. Un vecchio lampadario giaceva a terra con tutte le perline sparse per la stanza. Lasciai quella stanza e mi diressi verso la terza e ultima porta. Dentro c’era un box con le coperte giallo ocra e i muri tinti di un azzurro confetto davano l’idea che quella fosse una stanza per bambini. Alla destra del letto si trovava un vecchio cavallino di legno e una confezione di caramelle di cui era rimasta solo la carta. Una piccola lanterna penzolava dal soffitto e sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Una minuscola finestra rifletteva la luce del tramonto dal cima della stanza quadrata. Decisi che la gita in quella casa infestata era finita ma quando feci per uscire si udì un botto secco e tra tantissimo polverume mi trovai davanti una logora scala ridotta proprio male! Aveva quasi tutti i gradini mancanti e, ad ogni passo, produceva un inquietante cigolio come se dovesse schiantarsi da un momento all’altro. Decisi di salirla e mi resi conto che portava ad una soffitta segreta. Dentro c’era di tutto: una vecchia bici senza manubrio, cuscini polverosi, mensole porta-sapone rotte e tantissimi scatoloni impolverati. La luce filtrava da una piccola finestrella in cima al soffitto e bisognava abbassarsi per poter camminare. Poi vidi dei mattoni rialzati come se fossero stati messia a coprire qualcosa e, con un martello dal manico di ferro, cominciai a sfondarli. Penso sia stata la cosa più orrenda che abbia visto in vita mia: un grande scheletro dalle ossa rotte e ingiallite vestito con una cravatta rotta e una giacca blu come i pantaloni tutto pieno di buchi, logoro e sudicio. Non avevo la forza di urlare, ero troppo spaventata. Poi le vidi: quattro ombre che avanzavano verso di me, un uomo, una donna e due bambini uno dei quali era mezzo incenerito. L’uomo parlo con voce possente << non saresti dovuta venire qui, ora scappa finché sei in tempo e non raccontare a nessuno di questa casa e degli spiriti che la infestano>>. Non me lo feci ripetere due volte: iniziai a correre, scesi la scala mentre un fischio assordante riempiva la casa e tutto intorno a me iniziò a muoversi: le porte sbattevano, i lampadari traballavano ma non avevo tempo per stare a guardare. Scesi la seconda scala a chiocciola, oltrepassai il laghetto, il pozzo, la vite e la vecchia staccionata. Poi, ormai lontana da tutto ciò, una voce mi entrò negli orecchi: << tu devi sapere, sapere la vera storia. Il conte assassinò sua moglie e i suoi figli e poi si uccise da solo. Nascose da morto il suo corpo in soffitta e ora vive e vivrà per sempre con la sua famiglia. Ora sai ma non dire a nessuno ciò che hai visto…>>. La voce scomparve com’era arrivata. Tornai a casa e cercai di dimenticare tutto ma io, solo io sapevo la verità e nessuno avrebbe potuto dire che io fossi pazza perché io avevo visto, io avevo sentito.
La chiamavano la casa dei misteri e, alla luce dei nuovi fatti, era abitata da molti, lunghissimi anni!