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LA MORTE TI FA CANE di Daniela Bellandi Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE TI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE DI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

Da lassù poteva vedere tutta la città. Le luci colorate dei negozi che si accendevano una dopo l’altra con l’imbrunire. Era bello guardare dall’alto ciò che lo circondava. Dava un senso di potere. Era come se quel senso di inferiorità e frustrazione per un attimo lo avesse lasciato. Ma aveva deciso ormai, troppi anni aveva passato con questo disagio, troppe le umiliazioni che aveva dovuto superare ogni giorno. E’ vero, aveva solo 15 anni, presto avrebbe cambiato scuola, non avrebbe più visto quelli che sarebbero dovuti essere i suoi amici, ma non ce la faceva più a sostenere tutto e era certo, che come una calamita, avrebbe attirato a sé solo fallimenti, perciò era la decisione giusta. L’ultimo pensiero a sua madre Lisa.

Lei aveva messo al mondo Martino all’età di 19 anni. Nonostante la giovane età, dal momento che aveva stretto tra le braccia il suo bambino aveva acquisito la maturità e il senso di responsabilità di una vera mamma.

Di certo non si poteva dire lo stesso di suo padre Federico. Pochi mesi dopo la sua nascita aveva sposato sua madre, perché messo alle strette dai genitori, ma non aveva mai dimostrato realmente amore per Lisa e soprattutto per Martino, che considerava la causa della sua prigionia matrimoniale.

In casa stava pochissimo, probabilmente frequentava altre donne, e le poche volte che c’era, o litigava con la madre o si chiudeva nella sua stanza a strimpellare con la chitarra elettrica che aveva ricevuto il Natale prima proprio da Lisa.

Era molto giovane anche lui e questo lo poteva forse giustificare, ma lasciare sua moglie e suo figlio il giorno del suo quinto compleanno era imperdonabile. Martino era piccolo, ciò nonostante l’immagine di suo padre che usciva di casa con le valigie, senza degnarlo di uno sguardo, senza nemmeno avergli fatto un regalo di compleanno o meglio di addio, era vivida nei suoi pensieri. Ma ancora più viva e ancora più terribile era l’immagine di sua madre seduta in terra, in bagno, straziata dalle lacrime, e quella frase detta per dolore e rabbia «è tutta colpa tua». Martino sapeva che non lo pensava davvero ma il suo cuore non l’aveva mai accettato realmente. Era colpa sua se il loro amore era finito, colpa sua se suo padre li aveva abbandonati, colpa sua se da quel giorno sua madre dovette fare almeno due lavori al giorno per mantenerli, colpa sua se il sorriso della donna era sempre velato da un’amara tristezza.Era per tutto questo che si era convinto che togliersi la vita avrebbe risolto le cose. E poi a scuola, quello stupido di Davide. Non aveva mai odiato nessuno così tanto, nemmeno suo padre. Ogni giorno c’erano insulti, umiliazioni e talvolta anche schiaffi. Sua madre diceva che era lui che si estraniava senza darsi l’opportunità di avere degli amici. Diceva che anche ai suoi tempi c’erano i “bulletti” della classe e che stava a lui tenerli a debita distanza o magari diventarci addirittura amico. Ma lei non poteva capire e Martino non aveva intenzione di darle altre preoccupazioni.

Fu grazie a Davide che decise che quella fosse la giornata adatta per farla finalmente finita. La mattina in classe, non si sa perché avevano litigato e Davide con solo l’intento di ferirlo gli aveva detto ridendo che aveva fatto bene suo padre ad abbandonarlo, perché era solo un fastidio per tutti e che nemmeno lui evidentemente lo sopportava. Il cuore di Martino si riempì di quella convinzione e prima di diventare un fastidio anche per la sua adorata madre decise di sparire. Il vento tiepido primaverile gli accarezzava dolcemente i capelli. Non era più andato a tagliarli: «mamma si arrabbierà di nuovo», ma ormai sua madre non l’avrebbe più rivisto perciò non esisteva nemmeno più quello stupido problema. Chiuse gli occhi e si librò nell’aria. «Chissà se farà male?», fu l’ultima cosa che pensò e poi più nulla.

Si stava allacciando le scarpe quando un colpo di tosse attirò la sua attenzione. Non ricordava come fosse arrivato nella sua stanza, ricordava soltanto di trovarsi sul tetto della scuola. E soprattutto non si ricordava minimamente del ragazzo che seduto sul suo letto lo guardava con un sorrisetto maligno e sarcastico. Aveva pressappoco la sua età ma fisicamente non si assomigliavano per niente. Martino non era molto alto e piuttosto magro. I suoi capelli erano perennemente spettinati e all’altezza delle spalle, brillavano di un rosso carota, ovviamente naturale. Nonostante il colore dei capelli e due grandi occhi verdi la carnagione di Martino non era poi così chiara. Quella dell’estraneo davanti a lui invece era del colore del latte. Era inquietante, soprattutto perché metteva in risalto due occhi azzurro ghiaccio e dei lunghi capelli biondi. L’altezza poi già notevole era accompagnata da una longilineità innaturale.

Continuando a sorridere quest’ultimo porse la sua mano a Martino in attesa che lui gliela stringesse. «Morriss» si presentò. Martino non fece in tempo a rispondere che lo sconosciuto lo interruppe «si so chi sei e mi stupisco di scoprire che sei dannatamente stupido, visto che non hai ancora capito chi sono. Come ci chiamate voi? Dei della morte? Angeli sterminatori? O quel termine giapponese che amate tanto voi adoranti dei manga, Shinigami? Beh più o meno è così, ovviamente non abbiamo un nome così stupido: chi ci conosce davvero ci chiama tramiti. Coloro che guidano le persone che… beh… si, sono finite.. oops… morte, all’entrata del a) paradiso b) inferno a/b) purgatorio. Una sorta di hostess ma senza quel noioso giochetto con le mani per spiegare le uscite di sicurezza. Ahimè qui non ce ne sono. Anche se…» ma si interruppe velocemente. «Parlami di te piuttosto, perché mai hai deciso di splash! Tuffarti sbadatamente senza acqua?» Martino era confuso, intimorito e poi non avrebbe mai pensato che un Dio della morte, o quello che era si presentasse vestito in giacca e cravatta…bianchi! Non riuscì a rispondere così Morriss incalzo’ «tremendamente noioso… Eppure non sembravi così male da vivo. Sai di anime in pena come te ne ho accompagnate tante, si lo ammetto mai come Peter del “reparto over 70”, ma anche io me la cavo. Si…devi sapere che ogni Tramite ha una fascia di età. E a me sono toccati gli adolescenti, per la mia apparente giovane età, anche se in realtà ho superato da poco la novantina. Anche io sono morto alla tua età, ma di morbillo. Erano altri tempi, c’era la guerra e avrei pagato qualsiasi cosa per ritornare a casa con i miei genitori. Invece ho chiuso gli occhi per sempre in ospedale. Ma ero in gamba e presto sono stato promosso Tramite.» nel suo viso un velo di assoluta tristezza l’aveva reso più umano che mai. Martino ebbe un sussulto: «ma che ho fatto? Suicidarmi a 15 anni! Ma come ho potuto fare una cosa simile? E mia madre? Come l’avrà presa? Sarà distrutta! Io ero l’unico nella sua vita. L’ho uccisa con me..» Il ragazzo non riusciva a calmarsi, a nastro dalla sua bocca frasi che spesso diventavano prive di senso logico. Si era finalmente reso conto di quanto fosse importante quello che aveva, ma era troppo tardi. «Morriss ti prego riportami indietro!» il Tramite perse totalmente il suo sorriso sarcastico. «tutti me lo chiedono, sai, e a tutti do la stessa risposta. Spiacente non si può’ tornare indietro! Ma vedi tu mi piaci particolarmente e io non amo per niente le regole. Ci sono cose della tua vita ormai passata che devi ancora capire. Persone che devi rincontrare e conoscere più a fondo. Non posso riportarti indietro ma posso darti la possibilità di vivere un anno, ma nei panni..beh…di un cane. Un cucciolo randagio in cerca di risposte e della sua strada. Che ne dici accetti?» Martino rimase attonito, la confusione che prima regnava nella sua testa si trasformò in caos totale. Un cane? Aveva capito bene? Era uno scherzo! Morriss lo osservava impaziente, finché non ruppe il silenzio «Hey! Non ho tutto il giorno…perfetto, deciderò io per te. Vedrai che da randagio ti divertirai tantissimo e ridendo a squarciagola sparì». Rimasto solo sentì l’esigenza di uscire di casa, intanto sua madre non sarebbe ritornata fino alla sera o fino a che qualcuno l’avesse informata di quello che era accaduto a suo figlio. Attraversò velocemente il piccolo giardino che separava la strada dalla porta di casa. Camminava senza una meta vera e propria e fu durante questo sconosciuto itinerario che cominciò a percepire i primi cambiamenti. I colori attorno a lui perdevano la solita luminosità era come se un pittore avesse ripassato tutto con scale di grigio. Non serviva strofinarsi gli occhi incredulo, l’effetto non cambiava. Improvvisamente il profumo di sua madre lo fece fermare e incredulo si trovò ad annusare il muretto che costeggiava il marciapiede. Lei era stata qui. Nel frattempo altre decine di odori lo attiravano e piano piano si catalogavano nella sua testa. Non sapeva come reagire. Capiva perfettamente che non c’era niente di normale nell’alzare la gamba su un muro e farsi prontamente pipì nei pantaloni, ma era un istinto incontrollabile che doveva assecondare ad ogni costo. Era nella piazza centrale davanti al suo negozio di videogiochi preferito quando di punto in bianco si trovò accasciato in terra. Sentiva di non avere più le scarpe ma soprattutto sentiva il terreno sotto di lui in modo diverso, come se sotto ai piedi ci fossero dei veri e propri cuscini. Ma presto capì che non era nulla di tutto ciò, bensì le zampe e i polpastrelli tipici dei cani. Non fece in tempo a stupirsi che d’impulso cominciò a grattarsi ripetutamente il collo. In un attimo scoprì che i suoi capelli erano stati sostituiti da del pelo corto ma morbido e che le sue orecchie adesso erano sporgenti e dritte sulla sua testa, con la parte più alta piegata verso il basso.

Il suo corpo si era completamente trasformato in quello di un cane, ora restava l’ultima prova da fare: la voce! Provò a dire il suo nome scandendo lentamente le lettere ma invece di una parola uscì un guaito davvero ridicolo. Si poteva dire che non aveva certo un abbaio molto virile, tanto da pensare che pure da cane era un cosiddetto “sfigato”. Questo pensiero, non sapeva perché, lo metteva di buon umore. Morriss gli aveva anticipato che sarebbe stato un randagio e per prima cosa un vagabondo doveva trovarsi da mangiare anche perché così affamato non era mai stato.

Girava per le strade con il naso per aria in cerca dell’odore di qualcosa di commestibile e vicino, ma tutto sembrava inutile finché non capitò davanti al panificio dove era solita comprare il pane sua madre. Il profumo del pane appena sfornato non fu l’unica cosa che attirò la sua attenzione dalla vetrina riuscì per la prima volta a vedere la sua nuova immagine. Era palesemente ancora un cucciolo, sembrava un batuffolo di cotone tutto bianco, a parte una mascherina nera sul muso e nell’estremità più alta delle orecchie. Stava ancora guardando la sua immagine riflessa quando dalla porta di fianco a lui un giovane ragazzo uscì sorridendo. L’unica persona che non avrebbe mai voluto incontrare: Davide!

D’istinto a Martino si drizzò il pelo e gli ringhiò minaccioso. Finalmente poteva vendicarsi. Ma più cercava di essere minaccioso più gli uscivano dei suoni ridicoli e dolcissimi come un peluche che veniva schiacciato.

Davide non solo non fu intimorito ma si dimostrò completamente impazzito di gioia e di affetto per quel cucciolo. « Sei affamato piccolo?» Martino provò ad intimorirlo in qualche modo ma improvvisamente il suo stomaco “rispose” alla domanda del ragazzo.

Un panino caldo e soffice gli si presentò davanti al muso e Martino non seppe resistere. Senza nemmeno accorgersene si trovò in braccio al ragazzo. Era davvero stanco, gli occhi gli si chiudevano da soli. Cercava di combattere il sonno per pianificare una via di fuga ma l’abbraccio di Davide era caldo e in men che non si dica Martino si era già addormentato tra le braccia del suo nemico.

Si svegliò dopo un paio d’ore e notò che era su un enorme cuscino morbidissimo posto su un letto singolo. Doveva essere la camera di Davide. Lo aveva intuito dai poster di personaggi sportivi alle pareti e dalle decine di fumetti che riempivano la libreria. Guardando i titoli scoprì che erano davvero molti quelli che anche lui aveva amato quando era ancora un ragazzo. Gli sembrò di ridere, ma uscì prontamente un buffo guaito. Sentì arrivare di corsa Davide. « ti sei svegliato Casper?»

Aveva sentito bene il suo nuovo nome? Era Casper? Come il fantasmino dei cartoni. Era uno scherzo? O il destino era stato così sadico e ironico da farlo chiamare in quel modo? Ahimè, anche questa volta fu Davide a decidere e Casper sia!!

Le giornate con il suo nuovo padrone passavano inaspettatamente bene, nonostante cercasse ripetutamente di morderlo “Martino/Casper” si stava affezionando davvero. Gli aveva insegnato un sacco di giochi, passavano tutto il tempo libero insieme e quando Davide non poteva giocare con lui, magari per lo studio Casper si appallottolava sulle sue gambe e dormiva felice. Spesso aveva malinconia di sua madre ma le cure del ragazzo celavano prontamente quel dolore. Della sua vita si occupava esclusivamente lui con amore e responsabilità, dalla pappa ai bisogni fuori, dal bagnetto alle cure veterinarie, tutte detratte dalla sua paghetta. Casper o meglio Martino cominciava seriamente a domandarsi se fosse stato lo stesso ragazzo che a scuola lo umiliava e spesso lo picchiava.

Ma solo una mattina capì davvero che dietro alla maschera di durezza di Davide c’era una persona molto sensibile e buona. Stavano facendo colazione, quando sua madre esordì: «ho visto la madre di Martino ieri pomeriggio. Pensano seriamente che si sia suicidato. E’ una cosa terribile!» il ragazzo subito non aprì bocca, ma poi rispose in un modo davvero inaspettato: «pensa come doveva stare male, mamma. Pensa cosa doveva sentire dentro di lui per fare una cosa del genere. Sai spesso lo prendevo in giro pesantemente, non avrei mai dovuto.» la madre lo interruppe rassicurandolo e spiegandogli che Martino sapeva che erano scherzi tra ragazzi e che purtroppo ci sarà stata una motivazione ben più seria. Ed ecco che Davide fece rimanere di sasso il giovane cane che lo stava osservando attentamente: «A volte mi manca davvero molto». Ma non ebbe il tempo di elaborare il valore di quest’ultima frase che dalla porta d’ingresso entrò un uomo molto alto e robusto. Doveva essere suo padre. Era la prima volta che Casper lo vedeva. Nemmeno a scuola si era mai fatto vivo. Nonostante fossero parecchi giorni che l’uomo non si presentava a casa il figlio e la moglie lo salutarono come se fosse rientrato dopo essere stato via solo cinque minuti. E ancora più strano fu il repentino cambio di argomento in modo quasi imbarazzato se non spaventato. Solo più avanti Casper avrebbe capito che la sensibilità di Davide non sarebbe di sicuro stata capita dal padre. Dopo la scuola Davide si chiuse in camera sua per studiare come ogni giorno, ma questa volta a distrarlo c’erano le urla dei suoi genitori che litigavano nella camera a fianco. « La tradisce continuamente e vuole pure avere ragione» la faccia di Davide si era trasformata, sembrava come deformata da una rabbia accecante. «non lo sopporto più, sono stanco» con le lacrime agli occhi strinse tra i pugni la matita, spezzandola. Il cane gli portò il guinzaglio con l’intento di farlo scappare un attimo da quella casa. E quando, come ogni volta, suo padre cominciò a insultare la moglie per aver cresciuto un inetto di figlio, un buono a nulla, Davide raccolse l’invito del suo amico a 4 zampe. Casper cominciava a capire molte cose. Erano davvero simili loro due e quell’atteggiamento superiore e strafottente che aveva sempre avuto verso di lui era il suo modo per nascondere tutto il suo dolore. «Dove stai andando? Devi finire i compiti! vedi di diplomarti se non vuoi che ti cacci a calci nel sedere insieme al tuo cane. Cerca di prendere esempio da tuo padre che alla tua età era già caporeparto di un’officina. Prendi esempio e cerca di diventare come il tuo vecchio!» Era un monologo. Il figlio non poteva e non voleva rispondere. Chiuse la porta di casa con foga e morsicandosi le labbra disse rivolto al cielo: «io non sarò mai come te. Io lotterò e sarò migliore di te! Lo giuro!» Casper gli leccò le mani, avrebbe voluto stringerlo e dirgli che ce l’avrebbe fatta, che ne era sicuro. Erano molto simili, ma la forza di Davide che era mancata a Martino. Chissà dove sarebbero arrivati se fossero diventati amici?

Ormai aveva dimostrato a Davide che nonostante la giovane età sapeva tornare a casa solo e spesso saltando la staccionata del giardino lo andava a prendere a scuola, con in cuor suo la speranza di vedere sua madre. E fu proprio in questo modo che la rivide dopo quasi due mesi dalla sua morte. Stavano proprio tornando da scuola, quando incrociò il suo sguardo. «ciao Davide, che bel cagnolino» Casper cominciò a tirare verso la donna voleva saltarle in braccio, baciarla e piangere con lei. «Le piace particolarmente signora, guardi come tira per venire da lei». Con un debole sorriso ammise di essere terrorizzata dai cani declinando cosi l’invito del cucciolo e cambiando strada salutando il ragazzo. Casper era deluso ma convinto che per un attimo gli occhi di sua madre avessero visto dentro di lui dentro il vero Martino.

Ma del vero Martino ogni giorno rimaneva sempre meno. I ricordi di ragazzo sembravano piano piano dissolversi lasciando posto a quelli della sua nuova vita da cane e questo non gli dispiaceva affatto. Ma era tutto troppo bello.

…La piazza era gremita di gente, un rumore assordante, e poi un altro, e un altro ancora…Gli venne in mente la prima volta che, ancora bambino, lo portarono a vedere i fuochi d’artificio nel paese vicino al suo. Ne era affascinato e non ne era per niente spaventato. Invece adesso gli sembrava d’impazzire. Era terrorizzato. A guidarlo solo l’istinto di scappare, tornare a casa o almeno nascondersi in un posto sicuro al riparo da quei rumori terrificanti. Il collare gli stringeva la gola, si sentiva soffocare ma era più forte di lui, doveva scappare! Uno strattone più forte e il guinzaglio scivolò via dalle mani di Davide. Invano il suo tentativo di fermarlo, Martino era già lontano. Correva disperato tra la folla che incantata, dai giochi pirotecnici non lo aveva nemmeno notato. La sua corsa continuò fino a una piccola baracca abbandonata ai bordi della spiaggia. I pescatori la utilizzavano in passato per tenerci le esche le canne e tutto il necessario per la pesca. Non gli era del tutto sconosciuta ma era buio era spaventato e non riusciva a capire dove potesse trovarsi. L’unico pensiero: Davide! Lui non l’avrebbe mai lasciato da solo, l’avrebbe cercato fino in capo al mondo. D’altronde era il suo migliore amico. Decise cosi di riposarsi un po’ nell’attesa che arrivasse Davide. Rannicchiato vicino alla porta della baracca con il muso sulle zampe anteriori si addormentò sognando di abbracciare presto il suo padrone. Dormiva ancora ma come sempre vigile e attento quando si sentì tirare la coda con forza. La bocca spalancata nel finto tentativo di morsicare il colpevole. Girò il muso all’attacco e vide Morriss che si divertiva beato. Il gelo gli trapasso tutto il corpo. «sono morto di nuovo? Che ho combinato questa volta?» così ruppe il silenzio il ragazzo/cane davvero spaventato. « Sei vivo come non lo sei mai stato mio caro Martino! Perdonami, Casper! Solo che è passato un anno proprio oggi e sono venuto a riscuotere il mio premio.. » « Tu sapevi che sarebbe andata a finire così, che Davide sarebbe diventato il mio padrone che proprio oggi sarei scappato da lui» mentre Martino parlava le sue sembianze umane riprendevano possesso del suo corpo, ma il ragazzo non si sentiva per niente a suo agio. «modestamente ho conoscenze importanti “ai piani alti” e qualcosa mi era stato anticipato» rispose Morriss con fare ironico. «Prima di portarti via con me voglio farti vedere due cose». Davanti a lui si materializzò uno schermo che proiettava degli ologrammi. «La prima immagine che vedi è tua madre nel momento stesso in cui ha appreso la notizia della tua morte.» Davanti a lui una visione terrificante: sua madre si dimenava tra le braccia di alcuni medici, con il viso straziato dal dolore e dalle lacrime, tremava convulsamente, finché all’improvviso stramazzò a terra svenuta. A seguire alcune immagini della quotidianità della donna. Non c’era un momento dove lei fosse serena o non piangesse, il velo di malinconia e di tristezza che aveva da quando suo marito l’aveva lasciata era diventato una maschera di dolore che le aveva plasmato totalmente i lineamenti. Spesso si chiudeva nella stanza di Martino e stringendo il suo cuscino implorava il figlio di perdonarla. Martino urlò al vento che non era colpa di sua madre che…no, lei non centrava. Si sentì lacerare il cuore, si buttò in terra e cominciò a prendere a pugni la sabbia. Morriss voleva abbracciarlo ma si limitò a sfiorargli la testa con la mano. Aveva sbagliato tutto, l’aveva resa ancora più infelice dandole un dolore che non l’avrebbe mai abbandonata. Ma Morriss gli aveva detto che c’era un’altra visione da mostrargli.

Questa volta davanti a lui le lacrime strazianti di Davide, la sua ansia, il suo correre a perdifiato per cercarlo. Il gridare che era il suo unico amico e per nulla al mondo avrebbe potuto fare a meno di lui. Questa volta Martino reagì violentemente. Velocemente strinse la sua mano destra al collo di Morriss conscio del fatto che non gli avrebbe fatto niente visto chi era in realtà, ma era stata una reazione spontanea. «cosa vuoi dimostrarmi Morriss? Forse che sono solo capace di fare soffrire le persone, che sono la causa di tutti i mali? Beh…questa volta ti sbagli di grosso, ho sbagliato tutto con mia madre ma ho coltivato la possibilità che mi hai dato con amore e intelligenza e mai e poi mai avrei fatto soffrire Davide. Lui ha bisogno di me, come ne aveva la mia mamma ma non posso tornare indietro perciò darò a lui tutto quello che avrei dovuto dare a lei. Nessuno soffrirà più per causa mia! » Morriss lo guardò soddisfatto. « e cosi ci sono riuscito.. Hai capito che non era questo che volevano coloro che ti amavano. Che Davide è solo un ragazzo con tanto dolore nel cuore. Che suo padre non l’ha abbandonato ma è come se lo facesse ogni volta che si vergogna di lui. Che tua madre si sentiva viva solo quando tornava a casa e vedeva il tuo viso anche se spesso imbronciato. E soprattutto hai capito che la vita è un bene troppo grande. Guarda me, dall’alto della mia posizione invidio te che puoi vivere ancora nelle sembianze di un cane. Ma proprio per questo la scelta è tua: vieni via con me, con il tuo bagaglio di ricordi sbiaditi, con ciò che hai imparato, sapendo che vicino a te c’erano davvero molte persone che ti amavano; oppure decidi di restare con Davide ma cancellando tutti i tuoi ricordi; sarà come se non fossi mai stato Martino». Morriss lo abbracciò affettuosamente.

…Era la sera dell’ultimo dell’anno, le persone erano in fibrillazione per i fuochi d’artificio. Davide teneva forte il guinzaglio nonostante avesse il cane in braccio stretto stretto a lui. Cominciarono i botti che stranamente a Casper piacevano, era divertito e a ogni esplosione leccava la faccia del suo padrone e ululava alla luna. Finiti i giochi pirotecnici si liberò dall’abbraccio del padrone e cominciò ad annusare i vestiti delle persone accanto a lui. Finché un odore strano acre fastidioso attirò la sua attenzione. In un attimo davanti a lui la sua vecchia vita di cui fino a quel momento non ricordava più nulla. Una piccola ferita si aprì nel suo cuore e poi Morriss. Casper fu terrorizzato «tranquillo sono qui solo per un salutino» con un cenno del capo gli indicò una donna tra la folla. Sua madre! Con coraggio le si buttò tra le braccia cominciando a leccarle il viso. Lei incredula ma per niente spaventata rispondeva alle coccole del cucciolo. Poi un istante i suoi occhi dentro quelli del cane… Martino! Solo un nome sospirato e una lacrima a rigarle il viso. Poi il mondo tornò alla normalità, il cane disorientato ritrovò Davide, ora potevano tornare a casa.

Daniela Bellandi

IL TEMPO DEL CUORE di Quirino Pilosi – I racconti dei corsi on line-

IL TEMPO DEL CUORE

di Quirino Pilosi

Corso Scrittura Adulti – Primo Livello

Vaart aveva il fiato grosso una volta in cima alla collina. La salita fu ripida e faticosa, ma era la via più sicura per arrivare all’appuntamento senza essere visto. Sorrise alla vista del maestoso albero di ciliegio che svettava dinanzi a lui. Ogni volta rimaneva abbagliato dalla sua bellezza. Quel possente albero sbucava dal terreno fiero e orgoglioso. Una miriade di rami perpendicolari al tronco, si curvavano verso l’alto sfociando in una maestosa chioma di petali colorati, che danzavano alla leggera brezza che accarezzava il mondo, in quella piacevole giornata di primavera.

Sorrise.

Era lì per una sola ragione… Neesa. Da quando l’aveva incontrata, aveva capito che i loro cuori dovevano correre uniti.

Era nervoso, come ogni volta che doveva incontrarla. Non la vedeva da cinque giorni.

Ripensò a quando la vide per la prima volta, mentre chiacchierava in una locanda ai confini di Teora. Non ricordava perché avesse accompagnato il vecchio Morn da quelle parti, l’unica cosa che ricordava era il suo splendido viso, gli scintillanti capelli dorati che accarezzavano sinuosi la splendida schiena, mentre era impegnata in una conversazione con Leandra, la proprietaria della locanda. Quel giorno non ebbe il coraggio di parlarle. E nemmeno la volta successiva, e nemmeno quella dopo ancora. Non sapeva davvero cosa dirle, fino a che Leandra, forte del suo possente intuito, fece in modo che si conoscessero. Scoprì che si chiamava Neesa, abitava a Teora ed era la nipote di Leandra stessa. Ancora pochi giorni e sarebbe tornata nella sua città. Ora tutto divenne più facile, e fu una meravigliosa sorpresa per Vaart, scoprire che il loro rapporto si costruiva volta dopo volta da solo.

Ripensò a quando tre settimane prima, proprio sotto quel ciliegio le aveva dichiarato le sue intenzioni, e ricordò che fu una gioia immensa scoprire che anche lei ricambiava i suoi sentimenti.

Ripensò a tutto questo, e sorrise così tanto da sembrare che il suo cuore non fosse abbastanza grande da riuscire a contenere tutta quella gioia.

I suoi pensieri vennero interrotti da un rumore acuto di passi. Poi improvvisamente la vide. Scese il leggero viottolo che circondava l’enorme ciliegio ed eccola là, bellissima, avvolta in un vestito lungo di seta sottile, azzurro come il cielo, che danzava insieme al suo corpo snello e sinuoso in un armonia splendida.

Si salutarono calorosamente. Era difficile dire chi era più felice dei due.

“Credevo che non venissi più” disse Vaart.

Neesa sorrise, come solo lei riusciva a fare. Le chiare lentiggini donavano il giusto colore al suo meraviglioso viso.

“Un appuntamento è un appuntamento” disse Neesa sfoderando quel sorriso magnetico al quale Vaart non sapeva resistere.“Ma dimmi di te, cosa hai fatto in questi giorni? Ti sono mancata?” disse poi maliziosamente, mordendosi il labbro inferiore.

“Oramai non so che fare, quando non ci vediamo” disse Vaart avvicinandosi dolcemente, così da poter sentire il dolce profumo del suo corpo. Il cuore gli batteva a mille allora, ogni volta che la sentiva così vicina. Era una sensazione stupenda.

Vaart la baciò delicatamente. Erano giorni che non sentiva il sapore delle sue labbra, e capì che anche Neesa ne aveva altrettanto bisogno. Un’incredibile energia gli scorreva lungo tutto il corpo ogni volta che la sentiva sua, e capì che ogni singolo giorno di attesa per vivere quel momento, ne era valsa la pena.

“Ho corso il rischio di non poter venire. Ci sono molte guardie in giro oggi” disse Neesa, il tono improvvisamente serio.

“Vorrei che ci fosse una soluzione a tutto questo. Vorrei gridare al mondo intero quello che provo senza rischiare una condanna a morte”

Neesa appoggiò la sua fronte a quella di Vaart.

“Lo vorrei anch’io”

“Un giorno sarà così. Te lo prometto”

Neesa si sedette con la schiena appoggiata al tronco dell’albero. “Non fare promesse che non puoi mantenere. Tuo padre non mi accetterà mai. Io vengo da Teora, per lui sono una sua nemica. Non puoi cambiare questo”

Vaart non riusciva davvero a darle torto. Suo padre, il re Urth, signore di Targun, era da sempre nemico di Teora, la città natale di Neesa. Era un astio però che apparteneva solo a suo padre, e che Vaart non aveva mai condiviso. Scoprire che appartenevano a due mondi così distanti, fu un duro colpo per entrambi, ma alla fine ciò che provavano era talmente grande da arrivare a credere che niente al mondo aveva il diritto di separarli. Non era giusto che loro dovevano pagare le conseguenze di un astio che altri s’impegnavano ad alimentare. Tuttavia, se volevano vedersi, dovevano farlo di nascosto, decidere con cautela i giorni per non dare nell’occhio, e non potevano trattenersi oltre un certo limite, poiché i cancelli delle loro città chiudevano al calar della sera. In quel tempo di conflitto, quello era il loro rifugio sicuro, fuori dal mondo.

Neesa distese le labbra in un sorriso amaro. Vaart le accarezzò una guancia delicatamente, e una piccola lacrima uscì dagli occhi di Neesa.

“Tutto questo non finirà. Non permetterò che accada”

Neesa si avvicinò al viso di Vaart.

“Tu sogni a occhi aperti, ma va bene così” disse e lo baciò teneramente.

Il tempo sembrò volare via troppo velocemente, e il cielo azzurro si stava lentamente tingendo di nero.

“Ci sarà una festa, tra una settimana, in un piccolo villaggio. Forse posso farti entrare in città senza essere visto. Così potremo stare un po’ più di tempo insieme”

“Dimmi tutto”, la risposta di Vaart non si fece attendere. Coglieva al volo ogni occasione che aveva per stare con lei. Neesa non ebbe il tempo di spiegargli tutti i dettagli, poiché l’ora si fece tarda e dovettero tornare alle rispettive città prima della chiusura dei cancelli. Ma fecero un buco nella corteccia dell’albero, sottile quel tanto che bastava per infilare un pezzo di carta.

“Ti lascerò un messaggio qui dentro, per i dettagli del piano. Se non ci riuscirò te lo comunicherò ugualmente”

“So che ce la farai”.

Si salutarono e ognuno tornò alla sua città.

Mentre correva per i prati non sentiva la stanchezza dalla corsa, poiché ogni muscolo del suo corpo pompava energia alla massima potenza. Arrivò in città appena prima della chiusura.

Entrò dal portone secondario, così da poter passare a salutare il suo vecchio amico Morn. Era un fedele amico e saggio consigliere per Vaart da quando era un bambino. Si fidava di lui. Un tempo era stato il fabbro del palazzo, ma oramai esercitava la sua professione nella sua fucina, per occupare il tempo. Lo trovò che stava mettendo a posto i ferri del mestiere.

“Toh. Chi non muore si rivede. Dove te ne vai in giro a quest’ora?” chiese il vecchio Morn con il suo solito tono burbero. Era un uomo basso, tarchiato, e portava una folta barba incolta. I capelli erano raccolti in una coda di cavallo che gli ricadeva lungo la schiena. Era un uomo dalla tempra dura e sincera. Come se ne vedevano pochi ormai.

“Magari un giorno mi fermo e te lo racconto” disse con un sorriso sghembo mentre giocherellava con un martello.

“Fosse quasi ora che ti facessi un po’ vivo” disse Morn mentre toglieva il martello dalle mani di Vaart per rimetterlo al proprio posto. “E’ un mese a questa parte che non hai tempo per fare niente”. Poi lo guardò con fare interrogativo. “Chi è?”

Vaart s’irrigidì improvvisamente, e questo diede la conferma al vecchio Morn di aver colto nel senno.

“Non capisco di cosa parli” disse Vaart di nuovo sicuro di sé.

“Testa calda che non sei altro. Hai capito molto bene invece. Il re non c’è, e subito ne approfitti”

“Il re pensa solo alle guerre. Complicando la vita del suo popolo. Potrebbe rendere tutto più semplice, ma è così testardo”

Morn lo squadrò con sguardo severo. “Sta attento a ciò che professi”

“Mi hai insegnato a non temere nessuno, nemmeno mio padre” disse Vaart con la sua solita spavalderia.

“Ma ti ho anche insegnato a non sottovalutare le persone. Il re è un uomo pericoloso, molto più di quanto immagini” disse con tono severo.

“Adesso è meglio che vada”

“Con una promessa. Voglio vederti in questa stanza quanto prima, e voglio sapere cosa stai combinando. Intesi?”

“Intesi”

Quella sera delle pesanti nuvole si addensarono all’orizzonte. La pioggia iniziò a cadere copiosa a tarda notte. Vaart era ancora sveglio, ripensando alla giornata passata insieme alla sua bella Neesa. Ancora una settimana, ed avrebbe assaporato di nuovo il dolce profumo del suo corpo. Ma doveva organizzare la sua uscita. Questa volta non si trattava di una scampagnata, bensì di entrare a Teora. Era proibito per un abitante di Targun andare in una città nemica. Neesa apparteneva ad un mondo che il padre odiava. Si chiese cosa sarebbe successo il giorno in cui tutto sarebbe venuto alla luce del sole. Si chiese chi avrebbe scelto. In cuor suo sapeva già la risposta.

La mattina seguente la pioggia aveva smesso di cadere, ma il cielo era coperto da una spessa coltre di nubi grigie. Nolger, il suo insegnante d’armi lo attendeva come tutte le mattine per i suoi allenamenti con la spada. Era un uomo alto, massiccio, il temperamento di chi ha assaporato la crudeltà di una battaglia. Quella notte Vaart aveva dormito poco, ma aveva tanta energia in corpo, e voleva concederle il giusto sfogo in un duello.

“Cominciamo?!” disse brandendo la sua spada.

“Sarebbe quasi ora” disse Nolger. Iniziarono il duello, l’abilità di Vaart in combattimento migliorava repentinamente, seppur aveva ancora molta strada da fare.

“Non spingere troppo con la gamba quando fai questo movimento. Tieni sempre alta la difesa in questo caso”.

Nolger spaziava nel dargli consigli di vario genere per migliorare la sua tecnica. A Vaart non stava molto simpatico, forse perché era il braccio destro di suo padre. Ma doveva ammettere che era un combattente eccezionale, in un eventuale battaglia non avrebbe voluto scontrarsi con lui. E visto che quegli allenamenti erano un imposizione del re, come tante altre cose a Targun, si sforzava di imparare più cose che poteva. Alcune gocce di pioggia incominciarono a cadere, ma gli allenamenti continuarono comunque, perché una battaglia, non veniva rinviata in caso di pioggia.

Ad interrompere i loro allenamenti, fu un leggero ma deciso battere di mani. Vaart non si era accorto dello spettatore d’eccezione. Suo padre, il re Urth si stava avvicinando al luogo dello scontro. Era un uomo dalla mole possente, di aspetto rude ma deciso. Indossava ancora il lungo mantello da viaggio, sormontato dalla cotta di maglia.

“Il degno erede di tuo padre. Diventerai un gran guerriero un giorno”

Vaart vedeva suo padre poche volte, quando combatteva, o quando voleva insegnargli una strategia di guerra. Per il resto ignorava come occupasse il suo tempo. Immaginò ad inventarsi qualche strategia di guerra.

“Non sapevo che fossi tornato”

“Sono arrivato all’alba, appena in tempo per questo meraviglioso spettacolo. Tieni, ho un regalo per te”

Il re Urth, gli consegnò un pugnale dalla lama lunga circa venti centimetri, dentata dalla metà fino alla punta, con una leggera curvatura. Il manico era ornato di segmenti d’oro e d’argento finemente intrecciati.

“L’ho fatto forgiare per te, da quando Nolger mi ha detto che hai un particolare talento per gli scontri ravvicinati. D’ora in poi questa sarà la tua arma contro i tuoi nemici. Un giorno diventerai migliore di tuo padre. Non avremo rivali, costruiremo un esercito tale da spazzare chiunque in tutto il continente. Sto rafforzando il nostro esercito in numero, e cercando le giuste alleanze. Manca poco figlio mio. E Teora, sarà la prima a cadere sotto il nostro dominio”

“Vuoi attaccare Teora?” Vaart senti le vene che gli pulsavano ferocemente. Muovere una guerra contro quella città, significava mettere Neesa in pericolo.

“Si” proclamò in tono fiero. “Così avrò la mia vendetta, e manterrò una promessa fatta. Diventerò il signore di queste terre. E tu sarai al mio fianco in questo dominio”

“Io non voglio combattere per seminare morte padre. Non è quello che mi hanno insegnato”

“Bah. Da dove vengono queste sciocchezze. Dal quel vecchio pazzo del fabbro, non è così?. Se avessi saputo prima quali stupidaggini ti stava inculcando, lo avrei allontanato da te”

“Non voglio macchiare la mia spada di sangue innocente. Era il desiderio di mia madre”

Il re s’irrigidì improvvisamente, ma poi tornò sereno.

“Ma non sarà così per sempre. Quando si arrenderanno, vivranno felici. Lavoreranno, si sposeranno, avranno dei figli bastardi con le loro amanti, tutto ciò che vogliono, sotto il dominio di Targun. Cambierai idea, quando ti mostrerò la mia visione”

La visione di un pazzo, pensò tra sé.

“E se io non fossi d’accordo?”

Il re, si stava allontanando, quando si fermò improvvisamente. La pioggia iniziò ad aumentare d’intensità.

“Questo non avverrà” disse in tono asciutto senza voltarsi.

“Come fai ad esserne sicuro”

“In un modo o nell’altro, tu sarai al mio fianco”, disse il re, e senza aggiungere altro se ne andò.

“Continuiamo, non abbiamo ancora finito” disse Nolger.

Il pensiero di Neesa in balia dei soldati di Targun fece crescere una tale rabbia nel cuore di Vaart, che anche sotto la pioggia oramai incessante, continuò i suoi allenamenti, spendendo le sue energie al massimo, e per la prima volta riuscì a tenere testa persino a Nolger.

Mancavano solo tre giorni al suo incontro con Neesa, ma sembravano un’eternità. Quella sera non voleva stare a palazzo, così decise di scendere dal vecchio Morn. Aveva proprio bisogno di parlare con qualcuno. Quando arrivò, trovò la porta chiusa. Bussò per vedere se fosse all’interno, ma non rispose nessuno. Poi sentì dei passi che si affaccendavano per casa, e alla fine la porta si spalancò e apparve Morn. Fu un gran piacere per Vaart vedere quel volto amico.

“Che hai, sembra che tu abbia visto un fantasma” disse Morn mentre lo invitava ad entrare.

“Non è da te chiuderti a chiave in casa. Che stavi combinando?” chiese Vaart incuriosito da quello strano atteggiamento.

“Ne dovrà passare di acqua sotto i ponti prima che io debba dare conto a qualcuno di quello che combino in casa mia. Ti va qualcosa da bere?”

“Qualcosa di forte” disse Vaart.

Morn prese una bottiglia di Brandy da uno scaffale, con due bicchieri. Si sedette al tavolo dove stava Vaart e riempì un bicchiere, mentre l’altro lo colmò d’acqua e lo porse a Vaart.

“Spero che sia abbastanza forte?!” disse con un ghigno ironico. “Allora, mi vuoi dire cosa ti è successo. Sei bianco come un cencio”

“Non so da che parte cominciare”

“Inizia dal principio. Se sei qua è perché hai voglia di parlare. Non avrai fatto mica un viaggio a vuoto?”

“Ti ricordi qualche giorno fa, quando mi hai chiesto cosa stavo combinando…”

Vaart gli raccontò la sua storia. La conoscenza di Neesa, ciò che provava per lei, la loro difficile situazione, fino alla discussione di quella mattina con il re. Morn ascoltava con molta attenzione il suo racconto, e il suo volto s’incupì non poco, mano a mano che la storia prendeva corpo.

“Ragazzo mio, ti stai addentrando in una storia molto più grande di te. Sei sicuro che ne vale la pena?”

“Ci sono già dentro. Non so cosa stia succedendo. Mio padre sembra che abbia perso la ragione. Se muoverà un attacco contro Teora, seguire lui, significherà rinunciare a Neesa. E questo non voglio farlo”

Il vecchio Morn fissò il suo bicchiere di Brandy con lo sguardo perso in pensieri lontani.

“A quanto pare, sta giungendo il tempo”

“Che vuoi dire?”

“Il re sta togliendo molti contadini dalle loro case per reclutarli nel suo esercito. Sono mesi che va avanti così, ma ora sembra che voglia accelerare le operazioni”

“Perché proprio adesso, cosa è cambiato?”

“Non lo so. Forse si sente sempre più vicino al suo obiettivo. Ma chiunque si rifiuta di eseguire il suo volere, viene imprigionato nelle celle sotterrane, e torturato fino alla morte”

Il vecchio Morn, prese dal fondo di un cassetto, due fogli stropicciati, ripiegati più volte su se stessi, e li aprì. Vi erano scritti centinaia di nomi, che riempivano i fogli in ambedue le facciate. Alcuni dei nomi era cancellati.

“Questa è una lista di tutte le persone che sono state imprigionate. La aggiorno continuamente. Questi segnati, sono le persone che non ce l’hanno fatta”

Vaart rabbrividì nel vedere che almeno la metà di quella lista era cancellata.

“Tu come fai a esserne certo?”

“Perché li ho visti con i miei occhi. Ho conosciuto una a una queste persone, ma la cosa peggiore, e che questa lista contiene anche nomi di bambini”

Vaart non riuscì a credere a ciò che sentiva. “Bambini?”

“Tuo padre è un uomo pericoloso, te l’ho già detto. Ci sono tante cose che tu non sai, ragazzo mio, ma che forse è giunto il momento che tu conosca. Ho sempre sperato che tu non fossi come lui, e forse le mie preghiere sono state esaudite”

Morn sembrava indeciso se proseguire o meno nel suo racconto.

“Se c’è qualcosa che devi dirmi, per l’amor del cielo dimmela”

“Cambierà ogni cosa Vaart. Non so se spetta a me compiere questo passo”

“Ho il diritto di conoscere la verità, Morn. È la mia vita, io devo sapere. Soprattutto adesso”

“E sia” disse Morn sbattendo i pugni sul tavolo. “Se gli eventi devono prendere il loro corso, che il cambiamento inizi oggi. In questa stanza” Disse in tono perentorio. Prese il bicchiere di Brandy, lo guardò per alcuni istanti, poi in sol sorso ne bevve il contenuto e lo poggiò sul tavolo. Quindi iniziò il sua racconto.

“Devi sapere che un tempo Targun e Teora, erano una sola città. Era lunga diverse leghe, circondata da una muraglia enorme che ne delineava il portamento e la potenza. Essa veniva governata da un sovrintendente, ed un consiglio, che ne doveva controllare il corretto operato. Ma quando si acquista tanto potere, si finisce col volerne dell’altro. Ma il sovrintendente non era dello stesso parere, non voleva dichiarare guerra agli stati confinanti, per un potere che non riteneva necessario. “Non porterò alla morte migliaia di nostri soldati per inseguire un ideale che non condivido. La nostra città è forte, ha mura possenti, ed è la capitale di uno stato che non promuove guerra, ma libertà. Se qualcuno ci attaccherà noi ci difenderemo, e potete giocarvi il vostro onore che lo respingeremo. Ma non saremo noi a dichiarare guerra”. Con queste parole, il sovrintendente liquidò il consiglio, che però non era dello stesso avviso. Così con una serie di strategie politiche poco chiare, capitanate dal ministro Martus, nonché fratello del sovrintendente, riuscirono a far aumentare il potere del consiglio, che a sua volta elesse a suo comando il ministro Martus.

Riuscirono ad arrivare ad una pubblica elezione che doveva decidere il nuovo sovrintendente.

La sera prima dell’elezione però, Martus subì un attentato, ma riuscì comunque a scappare. Quando arrivò a casa, ferito gravemente, mandò a chiamare il suo primogenito, Urth. Era solo un bambino di dieci anni all’epoca, che non conosceva ancora il lato oscuro del mondo. Ricordo ancora vividamente gli eventi di quella notte, poiché ebbi la coincidenza di ascoltare quella conversazione. “Padre, che vi è successo?” disse il piccolo Urth non appena vide il padre sanguinate.

“Tuo zio, il sovrintendente, è malvagio, è stato lui a farmi questo. Porterà questa città alla rovina, con il suo modo di fare. Voglio che questa sera tu mi faccia una promessa. Promettimi che porterai a termine ciò che io ho iniziato, debella dal trono la sua famiglia, diventa tu il re di questa città, e guidala alla conquista di altre terre prima che siano gli altri a conquistare noi. Me lo prometti figliolo, farai ciò che ti chiedo..”

“Ma padre io non capisco…”

Il padre afferrò con forza il braccio del figlio… “Promettimelo! Un giorno capirai”

“Ve lo prometto padre”

Quella sera il padre Martus morì.

Successivamente scoprii che Martus aveva ragione. Fu il sovrintendente ad organizzare l’omicidio. Le votazioni erano corrotte, e Martus sarebbe salito certamente al potere, portando la città allo scontro con altri stati.. Con quel gesto, per quanto meschino, salvò la sua città dalla paura della guerra, portandola a vivere altri decenni di pace e prosperità. Per questo non ci furono mai abbastanza prove per accusarlo, e rimase saldo al comando di Teora.

Il piccolo Urth, crebbe. Diventò un uomo, e più cresceva più la promessa che fece a suo padre diventò per lui una missione, che non deviava in verità di molto dal suo essere. Aveva ereditato la brama di potere del padre. Non riuscì ad acquisire l’intero potere, ma riuscì a estirparne una parte dalle mani del cugino, che nel frattempo era subentrato al trono, così da riuscire almeno a dividere la città. Una parte, prese il nome di Targun. Ora non era più una maestosa e rigogliosa città, ma due stati circondati da uno stesso muro. Si sposò ed ebbe un erede. Tu. E le nuove generazioni crescevano con la convinzione che una città fosse la rivale di un’altra.”

Morn esitò un attimo, come a voler dosare le parole nel modo giusto, poi riprese a parlare

“Tua madre, povera donna, non morì di causa naturale come hai sempre creduto. Fu lui la causa della sua morte. Una volta la sorprese mentre cercava di farti comprendere come stavano veramente le cose. Sebbene fossi solo un bambino all’epoca, la imprigionò e la fece picchiare a sangue, fino a che il suo povero corpo non ce la fece più. Ma forse, riuscì nel suo intento, se oggi sei qui di fronte a me. Questa è la vera storia”

Vaart non si era accorto che stringeva forte il bicchiere che aveva tra le mani. Il viso era rigato di lacrime, che riusciva a stento a trattenere. Non voleva piangere. Ma come poteva non farlo. Il suo cuore si riempì di odio, rabbia, repulsione verso un uomo che non meritava più niente. Aveva ragione Morn. Ora qualcosa era cambiato.

“Se hai voglia di sfogarti, fallo. Ti sentirai meglio”

“Non ho tempo di sfogarmi. Che cosa dobbiamo fare”

”Assolutamente niente. Non farmi pentire della mia scelta”

“Non te ne pentirai, di questo puoi stare tranquillo”

“Vaart, ascoltami. Tu conosci come stanno gli eventi, ma c’è un piano in atto, per cambiare le cose che non spetta a te condurre. Mi ascolti?”

“Ho bisogno di stare da solo” disse Vaart uscendo dalla casa di Morn.

Vaart vagò per le strade della città senza una meta. Si chiese come poteva essere stato così stupido nel non vedere la realtà. Non si era mai preoccupato dei problemi politici che attraversavano il suo tempo, e ora capiva che i tempi felici e spensierati erano finiti. Bisogna cambiare, e anche in fretta. Non poteva più fare finta di niente. La gente della città moriva in segreto nelle celle sotterranee del palazzo. Aveva perso l’amore di sua madre per la follia di un pazzo. E per amare liberamente la sua bella Neesa, doveva cambiare gli eventi in maniera radicale. Ripensò alle promesse fatte a Neesa, di quando credeva che tutto si sarebbe risolto magicamente, prima o poi. Che bastava solo aspettare. Si rese improvvisamente conto di quanto avesse sottovalutato la situazione, spinto dall’euforia dei suoi sentimenti. Si sedette vicino ad un muro in un piccolo vicolo, stremato nel fisico e nell’animo. Si chiese se era abbastanza forte da riuscire a sopportare tutto questo.

Quella sera pianse, come mai aveva fatto prima.

Finalmente arrivò il giorno in cui avrebbe rivisto Neesa. Un giorno in cui i problemi che negli ultimi tempi avevano avvolto il suo cuore in una stretta feroce, aveva deciso di accantonare per tornare alle sue vecchie abitudini.

Arrivò di buon ora al solito posto. Il messaggio che Neesa gli aveva lasciato nella corteccia del ciliegio, gli diceva l’esatto luogo nel bosco dove doveva recarsi. Una volta lì, doveva attendere.

Vaart trovò rapidamente i tre alberi di pino disposti in maniera tale da formare un triangolo. Era pieno pomeriggio. Non sapeva quanto doveva aspettare, così si sedette all’ombra, e aspettò. Un po’ di volte dovette nascondersi per il passaggio di alcune guardie di Teora. A palazzo aveva lasciato detto che avrebbe passato tutto la notte dal vecchio Morn per questioni personali, e sperò che la scusa avrebbe retto. In ogni caso Morn era un uomo sveglio, e avrebbe saputo come uscirne.

Dopo molto tempo, quando oramai iniziava seriamente a pensare che nessuno si sarebbe fatto vivo, improvvisamente si sentì chiamare. Ma non vide nessuno. Poi notò un bambino, o almeno sembrava tale, appeso su uno dei rami degli alberi. Quando scese a terra, notò che non arrivava ad un metro di altezza. Aveva un cappello verde che gli ricadeva lungo la schiena, e una folta barba bianca molto lunga. Due simpatici occhi scuri, grossi e tondi sbucavano da sotto le ciglia cespugliose. Fece un poderoso inchino, da permettere al mento quasi di toccare terra.

“Il mio nome è Nargil… signore del fuoco. Piacere di essere al vostro servizio, e di quello della signorina Neesa”

“Piacere di fare la tua conoscenza, Nargil, il mio nome è Vaart”

Tagliarono per i boschi, per sbucare su una piccola strada dissestata, dove un carro attendeva il loro arrivo. Nargil gli fece indossare un cappello e una barba finta, e lo fece salire nel carro.

“Resta qui fino a che non tornerò a chiamarti”

Il carro iniziò a muoversi, e Vaart finalmente aveva compreso la “splendida” idea di Neesa, per farlo entrare di nascosto. Si chiese come poteva mai funzionare. Ma si dovette ricredere poco dopo, quando sentì che le guardie al cancello gli davano l’ordine di proseguire. Quando il carro si fermò, Vaart aspettò che Nargil comparisse di nuovo.

“Via libera”

Vaart scese dal carro, salutò Nargil e si diresse nel luogo dove gli aveva indicato.

Diede una veloce occhiata in girò e notò che era un luogo davvero accogliente. La gente sembrava allegra, gioviale, simpatica. Non sapeva esattamente in quale parte si trovasse, ma a giudicare dalla vasta distesa di edifici che s’intravedevano all’orizzonte, doveva essere in periferia. Le case erano di pietra, ricoperte da tetti di legno. Nascevano distanti tra lo loro di un paio di metri. Raramente ve ne erano due o tre attaccate.

“Pssshhh” si senti chiamare. Quando si voltò vide Neesa in un vicolo appoggiata ad una casa. Era bellissima. Indossava uno splendido vestito rosso, e teneva raccolti i capelli in una coda. Corse verso di lei e la baciò senza pensare a niente.

“Mi sei mancata tanto” disse tra un bacio e l’altro.

“Anche tu. Temevo che non arrivassi più”

Vaart smise di baciarla per un attimo e la guardò negli occhi. “Quella era la tua idea?”

“Ha funzionato no!” Disse Neesa e riprese il “discorso” da dove l’avevano lasciato.

Il dolce profumo dei suoi capelli, accarezzare la sua morbida pelle, gli fece dimenticare di colpo gli ultimi giorni tormentati che aveva trascorso. Aveva deciso. Quegli attimi preziosi erano per loro due. Niente avrebbe interferito. Qualunque problema lo avrebbe risolto più tardi. La strinse forte a sé come forse non aveva mai fatto, e le dichiarò tutto il suo amore. .

Quel paesello era splendido. Le strade erano lastricate di pietra, scortate da lunghi viali di erba tagliata con molta cura. Neesa gli spiegò che si trovavano alla periferia di Teora, e che il piccolo villaggio si chiama Tarmil, e aveva circa duecento abitanti.

Ovunque vi erano bancarelle, carri, tende che ingombravano tutte le strade. Si susseguivano senza ordine, vendendo ogni sorta di cibo, attrezzi da lavoro, o materiale per la cucina. Uno squisito aroma di cioccolato, caldarroste o quant’altra squisitezza echeggiava nell’aria. Vaart e Neesa si fermarono quasi ad ogni carro, assaggiando di tutto. Neesa gli spiegò ancora che quella festa durava tre giorni, e che era la più importante dell’anno a Tarmil. Era in onore di una divinità. Veniva gente anche da fuori ad ammirare lo spettacolo di fuochi d’artificio, che però ci sarebbero stati l’ultimo giorno della festa.

Il pomeriggio volò via troppo in fretta, e rapidamente l’atmosfera cambiò per poter ospitare la sera. Numerosi fuochi vennero accesi, le fiaccole pendevano da ogni carro e le strade iniziarono ad affollarsi. In più parti del villaggio erano stati allestiti palchi per dare sfogo ad ogni tipo di musica. Il borgo si animò di gente allegra, che cantava, rideva, ballava e si ubriacava felicemente in compagnia. Risero alla vista di un simpatico signore tarchiato, con un gran paio di baffi attorcigliati, e con in mano un boccale di birra che si tuffava nella mischia con quante più signore riusciva ad acchiappare. Cantava, ballava, beveva e rideva contemporaneamente. Ci fu un momento in cui stava per portare nella mischia anche Neesa, ma lei lo divincolò con disinvoltura. Non era così eccentrica. Poi Vaart scoprì perché Nargil si definiva “il signore del fuoco”. Prima con una, poi con due fino a cinque torce accese contemporaneamente, faceva delle esibizioni strepitose. Ma la cosa che più lo colpì fu quando si posizionò una torcia davanti alla bocca e soffiò una fiammata enorme dipingendo nell’aria uno spettacolare uccello di fuoco.

“Da dove vengono?” chiese Vaart incuriosito

“Da un luogo lontano e meraviglioso. Accadono cose straordinarie laggiù. Mi piacerebbe un giorno poterlo visitare”

Camminarono abbracciati lungo le strade della città. Nessuno badava a loro. Tutti erano presi dalle ballate, dai piacevoli ristori, dalla buona birra che circolava tra la gente. Quella era la prima volta che potevano mostrarsi in pubblico senza rischiare di essere scoperti. Vaart notò che era una bella sensazione.

“Grazie di avermi fatto venire”

“Non l’ho fatto per te. Ho pensato solo a me stessa” disse mordendosi il labbro com’era solito fare, con quel suo splendido sorriso.

“Allora grazie mille di essere così egoista” disse Vaart, mentre la baciava intensamente, in pubblico, come aveva sempre sognato di fare.

Si sedettero su una pietra in mezzo all’erba. Sul fondo la festa proseguiva allegramente. Ma loro volevano un po’ di tempo per stare da soli. Tra un po’ si sarebbero dovuti salutare.

“Come faremo. Abitiamo in due mondi cosi diversi”

“Non abbiamo scelto noi di innamorarci. Se ne devono fare una ragione. Non pensiamoci adesso”

Il cuore di Vaart incominciò a battergli a mille allora come ogni volta che le stava così vicino. La desiderava, e non trovava nessun altro posto dove voleva stare se non li. La sua mano accarezzava delicatamente il suo braccio nudo, percorrere quella pelle morbida gli donava un piacere unico. Voleva qualcosa di più, sentirla più vicina, ma non osava tentare. La strinse a sé, e abbracciati fissarono in lontananza la festa che proseguiva felice. Dopo aver scoperto la verità su suo padre, credeva che non avrebbe più vissuto attimi così belli e sereni in compagnia di Neesa. Fu felice di essersi sbagliato. Ma se avrebbe consentito a suo padre di agire, tutto questo sarebbe finito. Promise a se stesso che non lo avrebbe mai permesso.

A tarda notte, Nargil si fece vivo, e disse a Vaart che era arrivato il momento di andare.

“Quando ti rivedrò”

“Fra tre giorni, al solito posto”

“Neesa, sta attenta. Sono tempi pericolosi”

“So badare a me stessa”

“Lo so. Ma fai attenzione”.

Le diede un bacio appassionato, e poi si recò con Nargil ai cancelli, chiedendosi come avrebbe fatto a evitare le guardie, ma quando arrivarono, non trovarono nessuno.

“Dove sono le guardie?””

“Le ho corrotte” disse Nargil senza specificare di più.

Si salutarono, e Vaart tornò di gran carriera verso la sua città.

Aspettò che i cancelli aprissero, e che Morn distraesse le guardie come d’accordo. Il piano riuscì alla perfezione.

“Ci sono stai problemi?” chiese Vaart ansioso.

Morn scosse la testa. “A te com’è andata?”

“Magnificamente. Teora non merita una guerra. Dobbiamo fermare tutto questo!”

“Lo faremo, ora però andiamo a palazzo e non destiamo sospetti”

Morn aveva lavorato tutta la sera ai ferri di cavallo da donare al palazzo, e doveva farsi vedere che le consegnava insieme a Vaart per coprire la sua assenza della notte scorsa. La maggior parte della città, dormiva ancora a quell’ora.

“Ho ragione di pensare che qualcuno ti abbia seguito ieri notte” disse Morn mentre salivano la strada a spirale che portava a palazzo.

“Cosa?” disse Vaart silenziosamente. “Io non mi sono accorto di niente”

“Non ne sono del tutto convinto. È solo una supposizione” disse Morn, ma il loro discorso venne interrotto da alcune urla che provenivano da un’entrata secondaria del palazzo. Quando arrivarono videro che si trattava di una donna che stava urlando contro alcune guardie. Sembrava disperata.

“Vi prego, ridatemelo, è solo un bambino, solo un bambino” continuava a ripetere mentre singhiozzava tra urla e pianti. “Vi prego”, continuava a gridare in ginocchio davanti all’ingresso.

Vaart mollò il materiale a terra e corse verso la prima guardia che aveva a tiro.

“Che sta succedendo?” chiese Vaart ad una guardia.

“La solita madre che reclama il figlio signore” disse freddamente l’uomo.

“Spiegati meglio soldato” disse Vaart, mentre avvertiva un rantolo di rabbia che ribolliva nelle sue vene.

“Il re sta preparando il suo esercito. Tutti debbono contribuire alla causa, mio signore. Quella donna se ne deve fare una ragione”

“Chi è suo figlio?”

La guardia indicò imbarazzato una stanza vicino. Vaart andò a vedere e rabbrividì alla scena. Vide un bambino di non più di dieci anni, che stava per essere lavato e preparato per un esercitazione di guerra. Aveva uno sguardo spaesato, e gli occhi rossi gonfi di lacrime. Vaart guardava quel bambino, e contemporaneamente, sentiva la madre urlare all’ingresso disperata. Strinse talmente forte i pugni che le unghie penetrarono nella carne.

Stava per fare qualcosa, quando una mano forte lo afferrò per un braccio. Era il vecchio Morn.

“Non fare sciocchezze”

“Ma che stai dicendo. La senti quella donna che reclama il figlio”

“Credi che lui sia il primo. Non puoi cambiare nulla, non oggi almeno. So cosa stai provando in questo momento, perché e quello che provo anch’io. Ma ci sono troppe cose da organizzare perché tu le rovini con una sciocchezza adesso.” Disse sottovoce Morn. “Per l’amor del cielo, esci da questo posto, prima che rovini tutto.”

Vaart guardò prima Morn poi il bambino.

“Tutto questo un giorno finirà. O per mano tua, o per mano mia” disse Vaart sbattendo un pugno sul muro. Mentre si allontanava, vide che un uomo, forse il marito cercava di portare via la donna che continuava a imprecare contro le guardie. Alla fine l’uomo riuscì nel suo intento.

Vaart ora voleva solo vedere Neesa. Stringerla forte a se. Voleva sentirla, ne aveva bisogno. Aspettò con impazienza il giorno del loro incontro, ma stranamente quel giorno lei non venne. Guardò nell’incisione nella corteccia, ma non c’era nessun messaggio. Pensò che avesse avuto dei problemi. O forse che la loro relazione stava diventando troppo complicata e pericolosa, e lei non voleva correre tutti quei rischi. Forse il loro incontro a Tarmil non era stato come lei se lo immaginava, ed era rimasta delusa. Non sapeva cosa pensare. Ma perché non veniva? Il suo cuore era agitato. C’era qualcosa che non andava. Ma non sapeva dire cosa.

Tornò a Targun in tempo per la chiusura dei cancelli. Il giorno seguente tornò di nuovo all’albero di ciliegio, ma lei non c’era ancora. E non si fece viva nemmeno il giorno seguente.

Quel giorno però, quando tornò in città, venne fermato da Morn. Lo invitò a entrare, e Vaart capì subito che quella sera era inquieto, come se qualcosa lo preoccupasse. Fu lieto di sapere che Vaart non aveva fatto sciocchezze dopo gli ultimi accadimenti, ma c’era qualcos’altro, non era il solito Morn che conosceva.

“Come vanno i tuoi incontri segreti?”

Vaart si rabbuiò improvvisamente al pensiero di Neesa. Non la vedeva da tanti giorni ormai, e anche Morn divenne ancora più inquieto quando venne a sapere della situazione.

“Se non verrà anche domani, entrerò a Teora, e andrò a vedere che succede”

“Non farlo assolutamente. Per andare dove poi, sai dove abita?” disse Morn particolarmente nervoso.

“In qualche modo farò”

“Neesa, è questo il suo nome non è vero?”

“Si. Perché?” chiese Vaart incuriosito da quella strana domanda.

“Non riuscivo a ricordarmelo” disse vagamente Morn. Poi puntò un dito deciso contro Vaart.

“Stammi a sentire molto bene, perché è molto importante. Hai parlato di queste cose con qualcun altro oltre che con me?”

Vaart disse di no, ma quando gli chiese il perché di quello strano atteggiamento, Morn lo interruppe di nuovo.

“Fa come ti dico e non fare domande, e forse troveremo una soluzione. Va a palazzo, fa finta di niente e non dire a nessuno della nostra conversazione. Niente colpi di testa . Intesi?”

“Si ma..”

“Allora fila e aspetta mie notizie”. Disse il vecchio Morn senza accettare obiezioni.

Vaart non capì cosa stava accadendo, ma si fidava del suo vecchio mentore. Non poteva fare altro ormai.

Era notte fonda quando sentì dei rumori provenire dal corridoio. Con sommo stupore, vide entrare nella sua stanza il fabbro.

“Vestiti, che dobbiamo andare. Questo ci servirà” disse prendendo il pugnale di Vaart che gli aveva regalato suo padre.

Intimandogli di fare silenzio, lo condusse attraverso vari corridoi poco illuminati del palazzo. Conosceva molto bene quei luoghi, muovendosi con notevole maestria e attraversando zone che persino Vaart ne ignorava l’esistenza. Molte volte si dovettero fermare per aspettare che le guardie passassero. Procedettero con cautela, fino a che non arrivarono, alle celle sotterranee. Attraversarono una porta già aperta ed entrarono in un altro corridoio pieno di celle vuote. Si appostarono dietro una botte di legno, posta di fianco a un muro.

“Che stiamo facendo?” chiese Vaart.

“Neesa è tenuta prigioniera in queste celle”

“COSA?”

Il fabbro tirò fuori da una tasca un foglio raggrinzito, e lo porse a Vaart. Capì che si trattava di uno di quei fogli dove Morn segnava i nomi di chi veniva fatto prigioniero. L’ultimo nome della lista era quello di Neesa.

“Da quando lo sai?”

“Da stamattina”

“Perché non me lo hai detto quando ci siamo visti.? È per questo che mi hai chiesto come si chiamava Neesa, per accertarti che fosse lei”

“Fa silenzio o ci scopriranno” gli intimò Morn. “Ora la cosa che conta è liberare Neesa. Ho organizzato tutto, quindi sta zitto, e fa quello che ti dico”

Sentì la rabbia che stava prendendo velocemente il sopravvento. Il re gli aveva tolto l’amore di sua madre, ed ora stava impedendo anche il suo amore con Neesa. Non aveva mai creduto che fosse capace di arrivare a tanto.

Improvvisamente arrivarono due guardie. Aprirono al porta e entrarono, ma quando la seconda guardia lasciò la porta semi aperta, cosicché da fuori si potesse vedere ciò che accadeva all’interno, Vaart rimase impietrito.

La sua bella Neesa stava seduta su una panca di legno, con la schiena poggiata al muro. Era legata con le mani dietro la schiena. Indossava un vestito stracciato e mal ridotto e lo sguardo sfinito di chi ha subito torture per giorni.

“Dobbiamo liberarla” disse Vaart, che oramai riusciva a stento a trattenere la rabbia.

“Calmati. Dobbiamo aspettare il momento giusto” disse Morn sottovoce.

Vaart ascoltò il consiglio e restò in attesa.

“Resisti amore mio, tra poco sari libera” si disse per non agire d’impulso.

Le guardie stavano facendo il giro delle celle. Ma quando furono davanti a Neesa, indugiarono per un momento. Una delle guardie accarezzò delicatamente le caviglie di Neesa, poi lentamente salì con la sua mano lungo le gambe piene di lividi e tagli.

“Mio signore, non credo che sia il momento. Abbiamo altre cose da..”

“Solo un momento” disse l’uomo mentre palpava con più forza le gambe di Neesa, mentre i suoi occhi s’inondarono di lacrime, e scosse la testa come a volerlo supplicare di andarsene.

Quando la guardia arrivò ad alzare l’ultimo brandello di vestito che indossava fu davvero troppo per Vaart, che sfilò il coltello dalla cintura del fabbro e corse con tutta la sua rabbia all’interno della cella. Mentre correva, sentì un’incredibile ira emergere dal profondo del suo animo, che gli donava una potenza che non credeva di possedere. Spalancò la porta della cella e come un falco si avventò sul suo avversario. Con un colpo secco gli tagliò la gola di netto e l’uomo cadde a terra privo di vita.. Poi si scagliò contro l’altra guardia, ma il fabbro lo fermò un attimo prima che Vaart gli conficcasse il pugnale dritto al cuore.

“Lui è con noi”

Vaart ansimava per l’enorme sforzo, gli occhi spalancati dall’ira che si riversava maestosa in ogni singola vena del suo corpo.

Lasciò andare il coltello e si concentrò su Neesa che sorrideva e piangeva mentre Vaart la liberava dalle catene.

“Amore mio. Mi dispiace così tanto”

“Portami via da qui” riuscì appena a dire.

Vaart la prese in braccio, e solo quando si voltò per andarsene, si accorse dell’orrore che c’era in quella stanza. Era un corridoio lungo, pieno di celle e all’interno vi erano decine di uomini e donne nelle stesse condizioni di Neesa, se non peggio. Delle grida e suppliche di aiuto si levarono dal corridoio, le mani dei prigionieri che tentavano invano di uscire dalle proprie celle come se dovessero afferrare qualcosa nell’aria.

“Non possiamo liberare anche loro, sarebbe un suicidio” disse la guardia.

Vaart era combattuto, ma in cuor suo sapeva che non poteva perdere più tempo.

“Dobbiamo liberarci del corpo, e loro avranno fame” disse con un ghigno indicando il resto dei prigionieri.

Morn abbozzò un sorriso compiaciuto, poi trasportò il corpo vicino alle celle e lanciò un coltello ad un prigioniero.

“Fatene ciò che volete” disse il fabbro.

Mentre uscirono dalla cella, Vaart sentì i denti del coltello affondare nella carne dell’uomo. Un inaspettato senso di piacere lo attraversò all’idea della sua triste fine.

S’incamminarono lungo dei corridoi sotterranei. Il tracciato sembrava essere stato studiato alla perfezione. Vaart non voleva sapere in quel momento se poteva fidarsi della guardia, ma sapeva che se li avesse traditi avrebbe fatto la stessa fine dell’altra. Correva con in braccio Neesa che si era stretta al suo collo. Dopo giorni, finalmente si sentiva al sicuro.

Scesero ancora giù attraverso corridoi che Vaart non conosceva. Sbucarono su una sporgenza a ridosso di un piccolo fiume che scorreva lungo le mura della città.

C’era una piccola imbarcazione ancorata ad un palo ben piantato nel terreno.

Il fabbro salutò la guardia, e dopo avergli raccomandato di attenersi al piano salì sulla barca insieme a Vaart e Neesa.

“Questo era un vecchio percorso che facevamo per uscire e comunicare con Teora. Non lo si usa da un po’ di tempo”

A quanto pareva la storia che lo circondava era molto più grande e difficile di quanto si fosse mai immaginato, ma in quel momento non gli interessava. La sua attenzione era solo per Neesa.

“Come stai piccola mia?

“Grazie di essere venuto”

“Ti amo più di ogni cosa al mondo”

Neesa sorrise a quelle parole, gli cinse il collo e appoggiò il viso sul petto.

“Ti amo anch’io” sussurrò.

Neesa riconobbe subito il dolce profumo di pulito del suo candido e soffice letto, ornato da splendide lenzuola rosa e azzurre. Una mano strinse forte la sua, e non fece fatica a riconoscerla. Aprì gli occhi e vide Vaart, che la stava vegliando di fianco al letto.

“Finalmente ti sei svegliata dormigliona” disse accarezzandole il viso, e dandole un bacio sulla guancia.

“Quanto ho dormito?” chiese mentre tentò di alzarsi, ma il dolore alle costole le fece cambiare idea.

“Un po’. Sei bellissima, come mai prima d’ora” disse Vaart, che non riusciva a smettere di guardarla e sorridere.

“Ma smettila” disse Neesa, ma in fondo era felice di sentirselo dire. “Insomma, entri nella mia stanza senza chiedermi il permesso”

“Stavi dormendo” poi fece un sorriso malizioso. “Così ne ho approfittato per dare una sbirciata”

Neesa sorrise. “Spero che hai gradito almeno”

“Decisamente. Non vedo l’ora di approfondire la faccenda” disse Vaart con un ghigno malizioso. Poi le diede un bacio sulle labbra come non faceva da tanto, troppo tempo ormai.

Neesa ci mise diverse settimane per rimettersi in sesto, periodo nel quale i due ne approfittarono per stare molto insieme.

“Raccontami cosa è successo quella notte” disse un giorno Neesa, mentre stavano passeggiando vicino ad un piccolo torrente.

“Quando siamo arrivati, ci siamo diretti verso il palazzo di Teora. Ci hanno fatto entrare senza problemi, poiché Morn era molto conosciuto”

“Morn. Mi ricordo di lui. Quando venne a vedermi si preoccupò molto per me. Mi disse che quella sera mi avrebbe liberato. E poi siete arrivati”

“Gli devo molto, senza di lui non so cosa avrei fatto”

“Continua, cosa è successo dopo?”

“Ho incontrato tuo padre. Credo che volesse uccidermi. Ma era più interessato a te, per mia fortuna. È stato curioso scoprire che sapeva della nostra relazione”

“Non te lo aspettavi eh. Non si fidava di te. Soprattutto quando gli ho spiegato chi era tuo padre”

“E aveva ragione. Hai visto cosa ti hanno fatto per colpa mia”

“No. Non aveva ragione. Tu non sei come tuo padre. E quando ha visto cosa hai fatto per me, credo che se ne sia convinto anche lui. E gli altri prigionieri, che ne sarà di loro?”

“Sono tutti liberi”

Neesa lo guardò con stupore.

“Se mi lasciassi spiegare come si sono svolti gli eventi senza interrompermi ogni volta, forse capiresti”

“Scusa tanto..” disse mentre sfoderava uno dei suoi splendidi sorrisi.

Vaart alzò gli occhi al cielo e continuò la sua storia.

“Quando ho parlato con tuo padre, dopo i primi attriti, ho scoperto che Morn era in contatto con Teora da anni per cercare di liberare Targun dal dominio di mio padre. Fu mia madre ad iniziare questa battaglia insieme a Morn, molti anni fa. Quella sera stessa i soldati di Teora attraversarono il passaggio sotterraneo e scoprirono i prigionieri nelle celle, e hanno denunciato tutto alla capitale. In più furono trovati molti documenti che testimoniavano le sue strategie per conquistare Teora”

Vaart si fermò un momento, per contenere la rabbia.

“C’eri anche tu nei suoi piani. Mio padre non poteva attaccare Teora senza un buon motivo, così quando ha scoperto la nostra relazione, come abbia fatto è un mistero ancora oggi, ha deciso di sfruttare la situazione a suo vantaggio. Se ti avrebbe rapita, e avrebbe fatto in modo che Teora tentasse di liberarti, avrebbe tentato di girare la situazione dicendo che Teora stava cercando di sovvertire Targun illegalmente. A patto di far scomparire le prove, ovviamente. Solo cosi avrebbe ottenuto l’alleanza della capitale, nel chiedere l’abbandono al potere del vostro sovrintendente. Se non ci fosse stata, cosa sulla quale contava, avrebbe attaccato, con gli alleati dalla sua parte. Quando siamo arrivati, abbiamo scoperto che tuo padre stava organizzando un incursione. Ancora poche ore e avrebbe vinto mio padre. Ma non aveva calcolato quella vecchia volpe di Morn in questo suo piano.”

Vaart ripensò a quando il padre gli disse che in un modo o nell’altro sarebbe stato al suo fianco. Ora capiva cosa intendeva. Strinse i pugni, mentre ripercorreva con la mente quei momenti.

“Invece è stato lui ad essere arrestato per tentato colpo di stato. E con tutte le testimonianze delle vittime, marcirà nelle celle della capitale, fino alla sua condanna. Come si merita”

“Che cosa ne sarà adesso della tua città?”

“Tornerà di nuovo unità a Teora”

“Sarai tu a governarla?”

“Non lo so. Non ci ho pensato al momento. Non credo di esserne capace”

Vaart scostò i meravigliosi capelli di Neesa per liberarle il collo. La riempì di teneri baci.

“Se ripenso che stavo per perderti” disse mentre l’abbracciò con vigore,“mi vengono i brividi”

“Ma non è successo. Ed è questo quello che conta”

Vaart si avvicinò con le labbra alla sua bocca e le disse: “Ti amo”

Neesa si scostò da Vaart per mettersi davanti a lui. Si slacciò il vestito dolcemente, e lo fece cadere a terra. Il suo magnifico corpo nudo era splendido in quella meravigliosa mattina di sole.

“Ti amo anch’io. Con tutta l’anima”

Vaart si avvicinò lentamente. Sfiorò delicatamente con le dita ogni singola parte del suo corpo, accompagnando ogni movimento con teneri baci. La distese sull’erba verde, e quel giorno splendido venne coronato dando libero sfogo alla loro passione.

Quirino Pilosi

IL CORAGGIO DI EVA LUNA di di Quirino Pilosi. Primo livello del corso di scrittura on line.

IL CORAGGIO DI EVA LUNA

di Quirino Pilosi

Corso di Scrittura on-line –Primo Livello

La berlina nera non fece in tempo a fermarsi davanti all’enorme cancello della villa che la portiera posteriore si aprì improvvisamente e i piccoli piedi di Eva Luna si poggiarono sul soffice manto nevoso. Era elettrizzata all’idea di tornare nel suo luogo preferito. Per tutto il resto dell’anno viveva in città con la madre, ma lei non amava la città. Adorava il prato, l’aria fresca, i paesaggi. Se poi era tutto ricoperto di neve, diventava il suo paradiso.

“Dai mamma sbrigati, qui è bellissimo” disse tutta eccitata, le guance tonde già arrossate dal freddo s’intonavano perfettamente col cappotto rosso. La madre però non amava quel luogo. Le riportava alla mente troppi brutti ricordi. Quella villa apparteneva al signor Ronald, padre del suo ex marito Tom. I due si erano lasciati qualche tempo prima, dopo che Tom aveva iniziato a distaccarsi da lei e dalla piccola Eva senza un apparente motivo. Sembrava che loro fossero tutta la sua vita, ma evidentemente si sbagliava. Lei lo amava ancora, ma cercava con tutte le forze di rinnegarlo a se stessa. Si costringeva a venire, solo per non dare un dispiacere a Eva. E poi anche perché dopotutto Ronald le voleva bene. Non smetteva mai di ripeterle quanto fosse addolorato per il comportamento del figlio, abbandonare una moglie con una bambina cosi piccola era un comportamento che nemmeno il nonno aveva mai approvato. Si era sempre messo a disposizione di Isabel per pagare tutte le spese per lei e la sua nipotina, ma orgogliosa com’era, non aveva accettato denaro.

Dall’altro lato dell’enorme cancello c’era un uomo anziano che Eva conosceva bene. Era il vecchio Dog, il collaboratore storico del nonno. Vestito elegante come sempre, i fulgidi baffi bianchi sempre al loro posto, salutò calorosamente l’arrivo di Eva Luna e di Isabel. Salirono sulla maestosa carrozza nera, trainata da due splendidi cavalli, per andare su alla villa. Già, perché questa era una delle “tante” stranezze del nonno. Le macchine, si dovevano fermare all’ingresso. Dopodichè, per salire alla Villa, bisogna farsi scortare dalla carrozza del signor Dog. Quando Eva gli aveva chiesto come mai questa strana usanza, lui scoppiò a ridere come un matto. “Perché è una cosa da vecchio scanzonato quale motivo migliore di questo”.

Eva Luna spiaccicò il naso contro il finestrino della carrozza mentre il vecchio Dog la conduceva lungo il viale della villa. Lo spettacolo era incredibile. L’immenso giardino era completamente imbiancato di neve, Gli alberi maestosi sembravano degli esseri enormi piegati al volere della neve, che aspettavano pazientemente il momento per poter tornare a guardare il cielo. Proprio mentre passavano di fianco ad un albero, la neve cadde e si raddrizzò imponente verso l’alto. Eva Luna ebbe quasi la sensazione che avesse salutato il suo arrivo.

Come al solito,  il nonno aspettava in piedi davanti alla villa, con la sua inseparabile pipa l’arrivo della carrozza. Era un uomo anziano con dei folti capelli bianchi e un pizzetto a punta dello stesso colore. Con la solita impazienza, la piccola Eva salto giù dalla carrozza e corse con tutta l’energia che aveva verso il nonno, e alla fine tutti e due capitombolarono sulla neve. “O piccola mia. Che bello ritrovarti”. Eva non si staccava più dal nonno tanto era felice di rivederlo.

Le prime giornate di vacanza trascorsero allegramente. Eva andava su e giù per i prati innevati, anche se la neve oramai si stava sciogliendo. Poi passò del tempo in compagnia del vecchio Dog.  Cosa che faceva sempre ben volentieri. Era un uomo dal sorriso facile. E poi metteva di buon umore.

“Ti piace ancora questo lavoro?” gli chiese Eva una volta.

Il vecchio Dog stiracchiò i due fulgidi baffi bianchi ad accompagnare un gran sorriso.

“Come il primo giorno. Questo posto è magico, ti entra dentro e non riesci più a staccartene. E poi tuo nonno è una brava persona. Mi ha sempre trattato bene”.

Magico. Non poteva usare una parola migliore. C’era qualcosa di magico in quel posto per Eva. La priva volta che ne prese coscienza fu quando passeggiando per i prati come suo solito s’imbattè in un coniglio bianco incastrato in un ramo. Quando lo liberò le fece l’occhiolino, e subito dopo andò a prendere un pezzo di carta e con un pennarello rosso le scrisse in chiara grafia: “GRAZIE”. Poi scomparì in una tana e non lo rivide più. Eva conservava ancora quel pezzo di carta, per ricordarsi che era accaduto per davvero, e non erano delle fantasie da bambini.

La sera era dedicata alle storie. Davanti all’enorme camino del salotto, il vecchio Ronald con la nipotina rigorosamente in braccio, tirava fuori dal cilindro della sua fantasia delle storie incredibili. Favole, nelle quali gnomi, folletti, fate, persino draghi trasportavano la piccola Eva in mondi meravigliosi.

La notte in cui ebbe inizio l’avventura di Eva prese a nevicare, e il paesaggio venne ricoperto in  fretta da una candida coltre bianca. Quella sera non aveva sonno, così decise di scendere in cucina, quando notò una la luce nello studio del nonno. Andò a vedere credendo di trovarlo ancora sveglio ma con somma meraviglia notò che a illuminare la stanza era un piccolo oggetto sulla scrivania. Quando si avvicinò la luce diminuì fino a spegnersi completamente. Si trattava di un piccolo anello in oro con delle finissime striature azzurre. Era un oggetto splendido. Dopo averlo visionato, lo mise al suo posto, seppur affascinata non voleva prenderlo. Quando uscì dallo studio però, accadde una cosa assai strana. L’anello che aveva lasciato sulla scrivania, ora si trovava nella tasca del suo pigiama. Questo bastò a far prendere in considerazione l’idea di studiare quell’oggetto. Questa volta lo ispezionò con molta attenzione, lo rigirò più volte e alla fine se lo mise al dito. Un energia fortissima attraversò il suo corpo, simile ad una forte ma piacevole scarica elettrica. Così com’era venuta  scomparve. Poco dopo sentì delle voci in cucina. Andò a vedere di chi si trattasse. Il frigo era aperto, e c’era un gatto, e quello che aveva tutta l’aria di essere un topo enorme con un bastone, che stavano chiacchierando animatamente. Eva non riuscì a capire cosa dicevano, ma rimase sbalordita. Davanti a lei c’erano un gatto e un topo parlante. Quando si accorsero di lei, anche loro sembravano altrettanto sorpresi. Il gatto rimase con la bocca piena, ma riuscì comunque a dire:“Tu, riesci a vederci?!”

Eva annuì con la testa.

“Ma sei solo una bambina” esclamò ancora il gatto. Aveva una voce profonda.

Il tempo di abituarsi alla strana situazione, che fecero subito amicizia. Il gatto era Max, il topo Moglir. Dopo un primo attimo di sbandamento divennero incredibilmente felici, e si misero a cantare e ballare come due ubriachi ad una festa. Eva capì il perché quando gli spiegarono che l’anello veniva da un luogo lontano, e fu creato da alcuni stregoni in segreto con lo scopo di trovare le persone giuste per liberare il loro mondo dalla schiavitù del potere del male. Esso era la chiave per condurre quella persona in quel luogo. C’era già stato qualcuno prima, ma aveva fallito. Non era riuscito a resistere al potere del male, così l’anello doveva trovare qualcun altro per quella missione. E a quanto pare, c’era riuscito.

Si recarono nel mondo magico quella notte stessa. Non c’era tempo da perdere. Mentre si dirigevano nello studio del nonno Eva comprese ancora che l’anello l’aveva trovato il nonno molti anni prima durante una sua spedizione, e che lo custodiva gelosamente in attesa del suo utilizzo. Moglir batté un colpo secco col suo bastone sul tappeto dello studio, che si alzò come richiamato da un antico comando, si mise di fronte a loro e si apri come se fosse una pagina di un libro. Ora davanti a loro c’era una porta, con delle scale che portavano in basso. Scesero la scala fino a quando finì, e Eva si trovò a capitombolare sul pavimento impolverato di una stanza sconosciuta. Un gran fracasso arrivava dall’esterno. Si resero conto di essere nel mezzo di un attacco degli esseri del male quando irruppe nella stanza un soldato. Indossava un’armatura lucente, ed aveva un possente elmo dai quali luccicavano cattivi due profondi occhi gialli. Quando vide Eva e i suoi amici , marciò impetuoso verso di loro, ma quando si avvicinò si fermò di colpo. Rimase impietrito. Gli occhi gialli fissi sulla bambina.

“Che ci fai qui?” disse con una voce rauca, e profonda. Una voce che la Piccola Eva non aveva mai sentito.

Ma chi era? Come mai conosceva Eva. Interrogativi che divennero più pesanti quando l’esercito si ritirò improvvisamente. Un coro si levò in segno di saluto alla piccola Eva, che da sola aveva fatto ritirare un intero esercito salvando il villaggio dalla distruzione certa.

“A quanto pare stavolta l’anello ha scelto bene” sussurrò Max a Moglir.

In quel momento Eva si rese conto dello strano posto in cui era finita. Vi erano esseri simili a gnomi, o forse lo erano per davvero, con orecchie a punta, molti altri animali con sembianze umane. C’era anche il coniglio che aveva liberato qualche anno prima. Scopri che si chiamava Lobby, e adorava disegnare.

La sua missione consisteva nel raggiungere la Grotta della Paura e gettare l’anello nella sorgente della vita, cosicché la sua forza facesse risvegliare la magia nel mondo di Acquadolce..

Durante la missione però, Eva insieme ai suoi amici venne catturata. Sembrava spacciata quando il destino l’aiutò. Il comandante che l’aveva riconosciuta nel villaggio la liberò. Poi scoprì la sua identità.

“PAPA’” grido Eva e gli saltò al collo. Ora capiva tutto. Capì che non aveva abbandonato la madre per stare con un’altra, che l’anello prima di lei aveva scelto suo padre, e che purtroppo aveva fallito.

“Ti voglio bene piccola mia….Mi dispiace così tanto di avervi abbandonato”

Eva pianse lacrime felici, ma sapeva che c’era qualcosa di più importante adesso.

“Non c’è tempo per le scuse adesso. Ho una missione da portare a termine, mi aiuti?”

Tom condusse la figlia lungo il giusto sentiero, e insieme lanciarono l’anello nella sorgente della vita. Gli esseri che dominavano su quelle terre caddero in pezzi, e poco dopo divenne limpida e cristallina come un tempo. Tutti levarono un calice in onore della piccola ma coraggiosa Eva Luna.

Moglir si avvicinò col suo bastone nodoso a Eva e Tom, con un gran sorriso.

“Grazie piccola Eva. Tutti noi ti siamo debitori, non passerà anno in cui non brinderemo in tuo onore. E grazie anche a te Tom, per l’importante ruolo che hai avuto in questa faccenda”

“Non me lo merito. Ho deluso voi e fatto soffrire la mia famiglia”

“Ti sbagli mio grande amico. Senza di te la piccola Eva non avrebbe potuto nulla. La magia che venne racchiusa nell’anello e molto pura e antica. Aveva cercato te, e fallendo sei entrato nelle grazie delle oscuro potere, ma ti ha dato anche la via della salvezza in tua figlia. Ora l’anello aveva il suo condottiero, e l’arma per combattere il male. Pensaci, se tu non avessi fallito il tuo compito, la piccola Eva non avrebbe mai avuto un “amico” all’interno che le indicasse la giusta via per attraversare la Grotta Oscura. In più serviva un sentimento sincero di amore fra due persone per poter attraversare indenni la Grotta Oscura.  Tutto era nel disegno dell’antica magia. Forse ti ha chiesto molto, ma la salvezza di molti e dipesa da voi e forse, sei ancora in tempo per la “tua” salvezza”

Eva sorrise solennemente. “Andiamo a dirglielo” disse prendendo la mano del padre.

Quando Isabel vide la figlia con il padre, rimase incredula. Non voleva credere all’incredibile avventura che le stava raccontando la figlia, così Eva si sfilò l’anello e sussurrandogli “mostrale la verità”, lo diede a Isabel.

Quando tornarono, aveva compreso tutto.

“Lo so che ti ho fatto male. Ora ti chiedo; puoi perdonami?”

Isabel abbassò lo sguardo. Avrebbe tanto voluto cedere, poi però si ricordò di quanto aveva sofferto. Alzò gli occhi e lo guardò sicura.

“Forse. Ma non posso dimenticare”

“Non ti chiedo di farlo. E non lo farò nemmeno io. Perché ricordarmi del dolore che ti ho provocato, mi servirà a non commettere più lo stesso errore. Ti amo. Più di ogni cosa al mondo. Torna nella mia vita”

Isabel esitò un attimo, poi si lasciò andare ai suoi sentimenti. Si baciarono sotto l’applauso caloroso della piccola Eva Luna, e il brindisi silenzioso del nonno.

Dopo tanti anni la famiglia di Eva tornò unita, e più felice che mai.

Miriam e Jo, una storia d’amore di Monica C.- Primo Livello Adulti – Corso di scrittura on-line

Miriam e Jo, una storia d’amore di Monica C.

– Primo Livello Adulti – Corso di scrittura on-line

Why does the sun go on shining?

Why does the sea rush to shore?

Don’t they know it’s the end of the world, Cause you don’t love me any more?

Perchè il sole continua a splendere, perchè il mare si muove verso la riva, non sanno essi che è la fine del mondo perchè tu non mi ami più? (The end of the word-The Carpenters)

Brindisi-Settembre 2010

Era tornata lì, senza un perché, dopo averlo rivisto quella mattina, dopo un mese di silenzi, di contatti sfuggevoli, di pensieri che si sentono eppure allontanano, dopo parole che non la desideravano più ma che lasciavano trasparire la nostalgia di qualcosa in cui si era creduto.

Davanti ad una tazza di caffè tenuta fra le mani, le sembrava di tremare dinanzi al suo sguardo, al suo volto, che sapeva turbarla ancora benché distante.

La loro storia era finita, però si annusavano ancora. Ancora era lì.

Si salutarono, poi bastarono pochi sms perché lei tornasse nella loro vecchia casa.

“Devo prendere le ultime cose “, scrisse Miriam.

“Non ci sono rancori, se vuoi passare da me posso offrirti un caffè”, rispose Jo.

“Ok. Ti avviso quando arrivo”, il messaggio fu immediato.

Così si erano ritrovati stretti dentro l’anima e non avevano saputo più lasciarsi, esattamente un anno prima, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre.

Ed ora un anno dopo erano lì a raccogliere i frammenti di qualcosa che non riuscivano più a tenere fra le mani.

Educatori ed artisti entrambi si erano lasciati conquistare dalle immagini e dalla sensibilità che ognuno sapeva leggere dentro l’altro.

E così Miriam lasciò tutto per Jo, un fidanzato che non amava, la sua vecchia vita, prese sé stessa, i suoi bagagli, il suo amato cane e lo seguì.

Fu un attimo e si ritrovò a vivere subito in una casa confinante alla sua, in un vecchio residence malmesso che si affacciava su una strada provinciale.

Lavoravano entrambi: Jo in una piccola realtà costruita da sé, bravissimo a conquistare le turbolenze dell’ età adolescenziale; Miriam, educatrice in una comunità privata, non si stancava di leggere sogni ed immagini di più reali verità, negli occhi, nei gesti e negli sguardi di coloro che sono chiamati matti.

Quel vecchio residence fuori città offriva un bell’ appartamento a basso costo, anche se in periferia.

Così quel pomeriggio tornò lì alla loro vecchia casa.

Avevano due appartamenti confinanti, sullo stesso pianerottolo, due porte attigue.

Entrò.

Assaporò in un attimo quella vita che l’aveva resa felice, la finestra che si affacciava sugli alberi, la poltrona avvolta ancora dentro quel telo arancione e giallo che lei gli aveva regalato, ed i libri sulla mensola, le mura un po’ più spoglie della sua presenza.

Era turbata poiché aveva sognato quella casa.

L’aveva sognata piena di colori di un’altra vita che non era la sua ed i suoi sogni non le mentivano mai.

Eppure adesso, per un attimo, le sembrò che nulla fosse cambiato.

Lui le sorrise, fu carino. Chiacchierarono.

Lei lo sentiva, sentiva il suo sguardo ed il suo respiro e sapeva che il primo passo, la scelta in quel momento spettava a lei.

Giunsero sulla porta, stavano per salutarsi, lei sarebbe andata nel suo appartamento a prendere le ultime cose ed il pomeriggio si sarebbe concluso così.

Si avvicinarono per baciarsi sulle guance, ma le labbra scivolarono vicine, in un bacio, prima lento, dolce, poi forte appassionato.

Non riuscirono a lasciarsi, si guardarono, si sorrisero, si mossero insieme verso la camera da letto.

Fecero l’amore intensamente e lei sentì di amarlo.

Avrebbe voluto dirglielo, gridarlo e stringerlo a sé, ma non lo fece.

Si addormentarono, accoccolati, con le gambe attorcigliate fra loro ed il respiro sereno.

“Pensavo che saresti andata via”, le sussurrò, “ma desideravo che restassi…”.

Si svegliarono poco dopo insieme e tornarono incerti verso la vecchia poltrona.

“Balliamo” -disse Miriam.

Jo lasciò partire una canzone dei Carpenters -The End of the World

A piedi scalzi si avvicinarono carezzandosi l’un l’altro dentro quella nostalgica melodia, mentre passi e fianchi e braccia in sintonia danzavano qualcosa che mai le parole avrebbero potuto dire.

Si sorrisero. Si strinsero.

Salirono sul terrazzo di quella vecchia palazzina malmessa che era stata la loro casa per quasi un anno.

Da lì, senza luci, immersi dentro la notte stellata, erano padroni dell’intero universo, mentre la luna, complice del loro ritrovarsi, li vegliava.

Restavano sempre a lungo a guardare la notte stellata e quell’incanto sapeva avvolgerli dentro le trame dell’universo, energia misteriosa di cui provavano a leggere i disegni.

“Perché non può essere sempre così…”, disse lui stringendola a sé.

Miriam non disse nulla.

Si erano amati intensamente, ma non erano mancate le burrasche, le tempeste…incomprensioni, a volte di fondo, come diversi modi di vedere la vita che portano 1’amore in direzioni opposte.

Ma quanto la diversità può influire sull’ amore e quanto il dolore di ferite antiche non ancor rimarginate può divenire nebbia per l’ amore, non lasciandolo vedere?

Una vita selvaggia ed appassionata li aveva uniti come in una storia fuori dal mondo, ma presto alcune spine cominciarono a lasciare in ombra la bellezza di quella rosa.

Così le corse nei campi, i respiri del vento, il leggere i segni fra le nuvole ed il cielo , stringersi dentro la notte gelida in quella vecchia casa, parlarsi con le arti marziali respirando l’universo, l’intuizione di pensieri e sogni che sapevano ritrovarsi come dono , come per magia, le ispirazioni di pennelli e colori di lui che sapevano danzare con le parole di lei, non erano serviti a niente.

Tutto quell’amore intenso e forte che li aveva uniti stretti scivolava via dalle crepe di antiche ferite di amore che non sa guarire, di paura di amare.

Jo prediligeva una vita libera come il vento, dentro un amore unico forte, la amava come sua regina, ma antichi dolori di bambino non lasciavano all’uomo la libertà di vivere.

“Prima tua e poi mia”. le sussurrava spesso.

E Miriam credendo nell’importanza e nella bellezza dell’amore di sé per amare l’altro non aveva compreso bene quelle parole.

L’amore l’aveva resa cieca a quelle recinzioni che lui sapeva mettere fra loro due perchè il coinvolgimento, pur nella totalità dell’appartenersi, non fosse pieno.

Miriam, invece, pur dentro il valore dell’indipendenza individuale, era affascinata dalla misteriosa “arte del noi”, pur dentro la paura di ferite antiche che fanno tremare dinanzi all’amore e pensava che l’amore, unico potesse essere il superamento della paura di amare, delle ferite ricevute da bambini.

Ma non sempre è così.

A volte amare fa molta più paura.

Ed ancor di più dentro l’economia di uno Stato che non è stabile, che non lascia guardare con fiducia a progettualità future, stringendole dentro precarietà.

Lo vide altre volte, per un altro mese, ma poi capì la direzione ibrida di quella strada che stava percorrendo e non si riconobbe.

Decise di andar via, mentre sanguinava dentro.

Poi si fermò. Sentì il cuore smarrirsi, mentre perdeva ciò che amava.

Ma l’unica direzione, l’unica scelta era andare via.

A passi incerti lei ha ricominciato a vivere, respirandosi, sentendosi, ritrovandosi per sé stessa, dentro radici stabili al di là di lui. Però non riesce ancora a dimenticare quella vita e la magia del loro stare insieme.

Sono in contatto, ma non si parlano più con il cuore, solo dentro silenzi e comunicazioni di lavoro, sospese a tratti da sorrisi.

Ma qualcosa nel vento ancora la chiama.

Qualcosa dentro la notte ancora la cerca.

Qualcosa nella magia della luna le chiede ancora di credere all’incanto, come quando si rividero per caso sotto la sua luce piena che troneggiava al di sopra di entrambi.

In una notte di gennaio dell’anno precedente, notte di festa in città, di gente e artisti per le strade, in una notte incantata, lei uscì per caso da una corte di botteghe artigiane ed entrò in strada; lui camminava di fronte a lei e mentre i loro passi si muovevano in direzioni opposte, i loro sguardi, si trovarono, si incrociarono senza lasciarsi andare.

Gli occhi azzurri profondi di lui, di mare, di cielo, si fermarono sugli occhi grandi e marroni di lei, di cerbiatto, espressivi, intensi e non riuscirono a lasciarsi.

Si fermarono, si riconobbero.

Si erano già conosciuti e persi.

Il compagno di lei li raggiunse, e poi si salutarono.

Ma Jo, mesi dopo, la cercò di nuovo.

E Miriam fece la sua scelta.

A volte il tempo gioca scherzoso, a volte l’amore fa giri strani dentro percorsi tortuosi.

Ma sempre la vita è maestra.

Sempre la vita plasma la bellezza del proprio essere, di quel dono che ci è stato dato di esistere.

E sempre i percorsi di anime affini, sanno ritrovarsi.

Ed il tempo è maestro di vita, così come l’amore.

Solo attraverso il tempo ogni cosa diventa chiara.

Non sappiamo quanto tempo dura la nebbia.

Dobbiamo aspettare che soffi il maestrale, mentre solo l’amore discioglie il dolore.

Così Miriam guardando dentro la notte stellata e pensando a quella che una volta Jo dipinse per lei, pensa a lui. Ed intanto è in ascolto di segni e coincidenze che portano lui sulla sua strada e lascia che la luna vegli sulle loro vite prima del loro prossimo incontro.

La notte impone a noi la sua fatica magica. disfare l’universo,le ramificazioni senza fine di effetti e di cause che si perdono in quell’abisso senza fondo, il tempo- J.L.Borges

Monica C.