GIULIA
di Anna Maria Benone
Secondo Livello – Corso Adulti
Era sempre stata sicura di sé. Perfetta in ogni azione aveva sempre ottenuto tutto dalla vita, eppure qualcosa aveva sempre offuscato il suo splendore: qualcosa nel suo dentro. Figlia di una famiglia agiata, 32 anni appena compiuti, Giulia era già una ricercatrice universitaria affermata, grazie ai vari ganci e agganci italiani, e anche grazie alle proprie capacità. Il suo aspetto fisico l’aveva sempre aiutata, forse troppo. Capelli neri, lunghi, leggermente mossi, sopracciglia lunghe e sottili, di quelle che nemmeno una brava estetista riesce a rendere perfette, scure su una carnagione candida. Nasino delicato e discreto, labbra carnose dal sorriso enigmatico; altezza media, corpo esile. Più che a Mortisia assomigliava ad Audrey Hepburn, così dicevano in giro; forse per lo sguardo a volte svampito, a volte dolcemente penetrante; forse per la delicatezza dei suoi lineamenti. Giulia non era consapevole di tali somiglianze, tanto meno di possedere tanta bellezza.
Quell’ultima settimana di settembre fu proficua per lei. La conferenza di Londra era andata bene, in modo perfetto, con ottimi risultati, com’era stato programmato da lei e dai suoi capi. L’aereo era atterrato e mentre Giulia attendeva paziente di prendere le sue valigie di pelle scura, pensava a quanto fosse fortunata. La sua vita procedeva, lei procedeva con la sua vita, eppure non si sentiva felice. Presi i bagagli mandò velocemente a Marco un sms per informarlo che era atterrata e che il viaggio era andato bene. Aveva pensato di chiamarlo, ma in cuor suo sapeva che non desiderava sentirlo in quel momento. Sorrise da sola, come se si fosse fatta un rapido esame di coscienza e si fosse resa conto di amare il suo Marco, ma contemporaneamente di volere in quel momento stare nel silenzio dell’affollato aeroporto di Malpensa, per mescolarsi tra la gente che partiva e che tornava. Si sentiva strana quel giorno, si diresse verso l’uscita. Improvvisamente sentì chiamare più volte, da una voce maschile, il suo nome. La voce insisteva. Giulia finalmente si voltò e si trovò di fronte chi non avrebbe mai pensato di rivedere. Un passato che credeva ormai sepolto si impose nella mente della giovane donna. Non poteva credere a ciò che gli occhi avevano davanti.
“Non posso crederci? Sei tu? Sei proprio tu? E la Barba? I capelli lunghi? Faccio fatica a riconoscerti. Giacomo?”disse meravigliata.
“Certo che sono io e tu non sei cambiata affatto. Tajer, pantalone invece della classica gonna, tacchetti, i capelli raccolti, quindi immagino siano ancora lunghi. Sempre perfetta. Sempre bella. Ti ho intravista e seguita. Anch’io non posso crederci. Sono in partenza, mentre tu sei di ritorno mi sembra di capire” rispose Giacomo.
Giulia annuì e non disse nulla, non riusciva a parlare, continuava a guardarlo, riflettendo sul suo volto dai lineamenti diversi. Lo guardava senza dire una parola, incrociò il suo sguardo e di colpo sentì un sussulto nel cuore, lo stesso di 10 anni prima. Giacomo impulsivamente l’abbracciò e la tenne stretta. In quel momento tutto sembrò fermarsi, anche la gente che affollava l’aeroporto si era dileguata. Non si sentiva alcun rumore, nemmeno quello degli aerei; i ricordi presero il sopravvento. “Giacomo, sono tra le braccia di Giacomo” pensò Giulia irrigidendosi come uno stoccafisso, mentre lui la teneva stretta come se in quel momento prezioso volesse farle sentire tutto ciò che aveva dentro per lei e che in questi anni aveva, in qualche modo, conservato.
“Sento il mio respiro nel tuo, era da tanto che non sentivo più il mio respiro” pensò Giulia mentre iniziava a lasciarsi abbracciare.
Un raggio di sole nel buio di lei era arrivato, lo stesso raggio di sole a cui lei anni fa aveva rinunciato. Quante cose le vennero in mente in quell’attimo, quel prezioso attimo. L’aveva ritrovato ed è come se nulla, nemmeno il tempo, tra loro, fosse mai passato. Era stato l’unico che l’aveva sempre letta dentro, forse troppo. Lui, un folle, innamorato dell’arte, della poesia, della diversità. Mentre lei era la studentessa modello che ascoltava il professore e rispondeva a tutte le domande, lui blaterava con i suoi amici, commentando e ironizzando sul suo modo di porsi e di fare.
“Dicevi che ero perfettamente interessante, poiché nella mia perfezione ero imperfetta. Come poter dimenticare! Credevo di aver dimenticato” pensò ed iniziò a ricambiare anche lei l’abbraccio e a stringersi nel corpo di lui, come se volesse aggrapparsi a qualcosa.
Di nuovo i ricordi la pervasero:
“mi scrutavi in ogni dove, in ogni tempo e anch’io scrutavo te, tenendoti a distanza, poiché sapevo che eri troppo diverso da me e mi facevi paura. L’anno accademico si era concluso e giugno fu galeotto per noi, un esame che non ho mai superato. Ed ora sono qui. Ricordo tutto. Mi invitasti ad uscire con la scusa di andare a vedere una mostra. Rimasi sorpresa nel rendermi conto che eri tu l’artista in questione. Ricordo tutto perfettamente: le tue sculture, i tuoi quadri astratti, per me assurdi, fatti con materiali diversi e strampalati. Era questa la tua genialità. Riuscivi a trarre l’armonia, la perfezione, il bello anche da un semplice barattolo di fagioli ormai vuoto e consumato. Rimasi stupefatta dalla bellezza delle tue opere. Alcune erano tristi e comunicavano devastazione, altre invece erano armoniose, romantiche. Quel giorno, alla mostra, eravamo da soli. Furbo! Ti eri messo d’accordo con il proprietario della galleria per rimanere da solo con me. Mi irritai alquanto. Mi sentii in trappola, tu eri la mia trappola.”
Avrebbe voluto confessargli tutti i suoi ricordi, ma non c’erano parole degne di comunicare l’emozione che la donna stava ora provando e così continuò nei suoi pensieri.
“Quel giorno mi prendesti estremamente in giro per com’ero vestita, avevo solo 20 anni e mi facesti notare che ne dimostravo 32. Ecco perché mi dici che non sono cambiata affatto. Facesti il pazzo, come il tuo solito. Fosti un giullare. Mi presentasti ogni tua opera nel dettaglio, come solo i folli sanno fare. Un’opera attirò la mia attenzione. Rimasi incantata a vedere il volto di donna dipinto su una tela rialzata da una piattaforma in acciaio. Ti avvicinasti a me. Il tuo corpo vibrò nel mio, in quell’abbraccio, lo stesso di ora. Mi turbai, come in questo momento. Tu invece mi stringevi dolcemente, voltasti il mio viso verso di te accompagnando il mio corpo che inaspettatamente si avvicinava al tuo sempre di più. Lasciati andare, mi sussurrasti, vivi Giulia, vivi. Non feci in tempo a risponderti e a respingerti che sentii le tue calde labbra morbide sulle mie. La tua barba e i tuoi baffi mi solleticavano, ma il calore del tuo bacio mi fece perdere. Non respirai, ma respirai finalmente un senso di libertà. Fu solo un attimo, lo stesso che ora sto provando, ora dopo 10 anni. Mi sciogliesti i capelli e il nostro bacio proseguì per diverse ore. Mi ritrovai a terra, accanto a te che mi fissavi sorridendomi e mi sfioravi delicatamente il volto. Mi dicesti che mi amavi e che amavi soprattutto ciò che non ero, ciò che nascondevo, ma che tu leggevi. Ricordo ancora le tue parole, parole che mi fecero paura. Continuavo a fissarti e ad ascoltarti, ma non parlavo, non riuscivo. Non facemmo l’amore, dicesti che non ero pronta. Rimanemmo distesi per un po’, l’uno accanto all’altra. Il mio sguardo cadde su quel volto di donna e mi rividi: ero io e tu lo confermasti. Rimanemmo in silenzio, abbracciati fino all’alba. Mi riaccompagnasti a casa e da lì, mi negai. Eri uno squattrinato, un genio pazzo adorabile e soprattutto colui che aveva visto di me troppo, anche quello che io stessa non avevo visto.”
L’annuncio dell’aereo per Berlino distolse Giulia dai suoi pensieri, dai suoi ricordi. “E’ il mio volo” sussurrò Giacomo nell’orecchio di lei.
Si distaccarono a fatica. Un lieve bacio sulla guancia, lo sguardo di Giulia incrociò nuovamente quello di Giacomo. Tra loro, le non parole di un dialogo d’amore. L’aeroporto era nuovamente affollato.
Giacomo si allontanò senza voltarsi indietro, mentre Giulia iniziò a sentire che qualcosa dentro di lei stava iniziando ad affacciarsi e a chiederle aiuto. Lo scrigno perfetto, dorato, decorato da pietre preziose colorate, non grezze, già lavorate, armoniose e perfette era stanco di rimanere chiuso.
Trascorsero due settimane dall’incontro con Giacomo, Giulia non faceva altro che pensarci. Rifletteva su come a volte la vita faccia dei giri strani. Giacomo era l’ultima persona che lei avrebbe pensato di rivedere. I giorni passavano veloci insieme al solito tran tran quotidiano, con essi i mesi. Tutto andava in avanti: il mattino, il pomeriggio, la sera, la notte. Il lavoro procedeva bene sempre in modo perfetto e il rapporto con Marco era splendido. Lui era sempre molto dolce con lei, anche quando per motivi di lavoro era via le faceva sentire la sua presenza. Giulia continuava a ripetere a se stessa quanto fosse fortunata ad avere accanto persone amabili che l’amavano: eppure lei non si sentiva più all’altezza di nulla, si sentiva stressata, osservata e sottopressione, pur non essendo così. Pensava a Giacomo e faceva l’amore con Marco, nel lavoro si impegnava al massimo, l’unica pausa era il caffè delle ore 15.00. Alle 15.05 non lo prendeva già più. Si rendeva conto che stava iniziando a perdere il controllo di tutto, soprattutto di lei. La Pasqua era ormai alle porte e Giulia, come da tradizione, iniziava ad organizzarsi per il pranzo pasquale che però questa volta si sarebbe svolto a casa sua e non dei suoi genitori. Il giovedì santo, dopo la messa di rito alla quale la giovane donna assisteva ogni anno per fare compagnia alla madre, andò con mamma Miriam a fare la spesa necessaria per il pranzo della domenica successiva. Fu proprio quel giovedì che Giulia si rese conto che il suo scrigno era stato scosso e lei non poteva più fingere. Doveva richiuderlo, sopprimerlo di nuovo. Lei doveva fare qualcosa. Quel giorno, dopo aver salutato velocemente Miriam, ritornò in casa. Il vuoto fu la sua voce. Sapeva che stava ricominciando di nuovo, sapeva che in realtà non aveva mai smesso, non poteva smettere, non riusciva, non voleva. Sapeva che lei non poteva più reggere certi ritmi, certe pretese. Conosceva bene gli amori che aveva intorno, specie l’amore di sua madre, forse l’unica della famiglia che aveva effettivamente intuito il suo qualcosa, quel qualcosa che la turbava.
Entrata in casa, sistemata la spesa, prese il vecchio videoproiettore che i suoi genitori le avevano donato in eredità ed iniziò a rivedere i vecchi filmini: la sua fanciullezza, la sua infanzia, la spensieratezza.
“Quanto sorridevi Giulia e quanto eri imbronciata! Eri bella, bimba! Bimba” disse tra sé e sé.
Continuava a vedere e rivedere i filmini.
“Devo ricominciare, è il momento. La Santa Pasqua di rinascita. Quale rinascita?” bisbigliò.
Dopo aver detto queste parole, accese una candela, poi un’altra, poi un’altra e un’altra ancora fino ad illuminare la camera da letto in cui si trovava. Iniziò a denudarsi.
“Sono perfetta, sono perfetta” ripeteva più volte variando il volume ed il tono di voce.
Iniziò a versare sul proprio corpo la calda cera. Rabbia negli occhi, dolore immenso da esorcizzare.
“Non sono nulla e sono tutto” disse.
“Nessuno si è mai accorto di niente. Nessuno si è mai accorto delle mie piccole ustioni, copro tutto in modo perfetto con correttori e creme colorate. Sono brava, molto brava a mascherare le mie ferite, ferite di cui ho bisogno. Il mio dolore, dolore di cui ho bisogno. La mia bellezza, bellezza incollata al mio corpo. Io, la perfetta.” Commentò guardandosi allo specchio.
Distesasi sul freddo pavimento, iniziò a bruciarsi in vari punti: la parte mediale del polso sinistro, il palmo della mano destra, una parte della glabra ascella sinistra e una parte di quella destra, il centro del fondoschiena, dal basso verso l’alto; fin dove riusciva ad arrivare con il braccio. L’inguine. Lì sì che sentiva dolore. Versava a ritmo lento gocce di cera, goccia dopo goccia per le volte che non si era sentita all’altezza, goccia dopo goccia per le volte che non aveva sbagliato, goccia dopo goccia per le volte che era stata perfetta. Urlava dentro, si guardava e faceva scivolare in ogni parte la fluida cera bollente che poi, una volta divenuta solida, lei stessa distaccava dalla setosa pelle.
“Era un mese che non lo facevi più” disse a se stessa, all’altra se stessa.
“Sei stata troppo brava, è ora di ricominciare a sentire il piacere del dolore” proseguì con il suo folle dialogo corpo-voce.
Quella sera, però, qualcosa era differente. Bruciarsi non bastava più. Giacomo le aveva scosso nuovamente il cuore e le aveva fatto vedere che forse in lei non era tutto marcio, ma lei non voleva ancora vedere. Voleva sentire. Non poteva accogliere alcun amore, non sapeva cosa fosse l’amore, non sapeva cosa fosse lei. Doveva sentire il dolore per esorcizzarlo. Prese un temperino, ne estrasse la lametta ed iniziò il nuovo rituale. Il vecchio non era più sufficiente. Seduta a terra, iniziò a farsi dei piccoli tagli sulle gambe, poi sulle cosce, alternando cera e taglio. Una piccola goccia e un taglio superficiale, una grande goccia e un taglio profondo. Le lacrime si impadronirono del suo bel viso, la disperazione si impadronì di lei. Ad un tratto un rumore di chiavi e dei passi veloci distolsero Giulia dalla sua follia.
Una luce in cucina ed una voce: “Giulia sei in casa? Avevi dimenticato il notebook in auto, così te l’ho riportato. So quanto è importante per te e per il tuo lavoro.”
“Anch’io ho una testa in questo periodo! Allora per Pasqua si fa l’agnello? Giulia? Giulia? Ci sei?” -continuò la voce-
“Dove sei? Ah, sei di là, intravedo delle candele. Giulia?” nessuno rispondeva.
“Giulia?” un nuovo richiamo.
I passi avanzavano.
“Giulia!” urlò la madre.
Miriam non poteva credere ai suoi occhi, si trovò di fronte una scena orribile.
Si precipitò verso sua figlia.
“Perché? Perché Giulia!” gridò la donna irata.
“Ti fai del male? Da quanto? Da quanto tempo!” chiese urlando e piangendo, sentendosi impotente davanti a quella sgradevole sorpresa.
Giulia era accovacciata al muro, in lacrime, continuava a tagliuzzarsi. Guardò la madre con occhi disperati, le sorrise come solo chi ha perso il senno sa fare e disse:
“Mamma, non sono la figlia che pensi. Non sono perfetta, sono fallita. Non sono come te. Non amo Marco, non amo me. Chi sono?”
E continuò a tagliarsi in modo sempre più profondo.
La madre dopo un primo momento d’ira mista a paura, vedendo la figlia in quelle condizioni si calmò, e l’amore di mamma iniziò a guidarla. Si inginocchiò davanti a lei, l’abbracciò teneramente, delicatamente le tolse dalla mano la lametta. Prese dalla poltrona vicina il plaid blu e l’avvolse dolcemente stringendola in grembo.
“Ne uscirai Giulia, ne usciremo” disse Miriam.
Le certezze di chi è madre erano crollate. Il segreto di Giulia era stato scoperto. Lo scrigno era ormai aperto.
In casa, il silenzio. Sguardi intermittenti e analitici, semisorrisi in una gelida atmosfera tagliata da un raggio di sole, incanto di una speranza, quella di Giulia, nella corsa folle del demone che ormai la possedeva. Tutta la famiglia era a conoscenza del suo segreto. Lei, ormai, entrava e usciva da cliniche specialistiche, ascoltava psicologi e psichiatri rispondendo ad ogni loro test in modo perfetto. Dopo aver eseguito la procedura ritornava nel suo tormento con disinvoltura come se nulla la turbasse. Marco cercava di starle vicino, Miriam era distrutta e non sapeva più cosa fare, il muro alzato da Giulia era ormai irto.
La paziente è cosciente e lucida, non è folle, è vigile in ogni sua azione, conosce in ogni sfaccettatura il proprio autolesionismo. E’ la macchina di se stessa, ha un’autostima alta, la stessa autostima che la porta a farsi del male in modo estremamente lucido e razionale. Non è pericolosa per gli altri, ma per sé. Non c’è farmaco che possa aiutarla, le terapie funzionerebbero solo se la sua volontà si risvegliasse verso il bene e la portasse a non farsi del male. Unica possibilità è monitorare la paziente e tenerla impegnata nei momenti di crisi autolesioniste.
Questa la diagnosi degli psichiatri. Diagnosi per nulla incoraggiante per la famiglia e completamente indifferente per la donna che sembrava impassibile a qualsiasi giudizio medico. Il silenzio era la voce di Giulia, un silenzio freddo per gli altri, familiare e rassicurante per lei. Miriam andava a trovarla ogni giorno, cercava di parlarle, di farla sorridere; era inutile, nella casa tutto sembrava vuoto ed inespresso. L’unico pensiero di Giulia era, ora, Giacomo, il suo sorriso, la sua dolcezza, il suo amore non vissuto. La donna sapeva in cuor suo che doveva fare qualcosa, qualcosa per sé; non sapeva ancora cosa e soprattutto dove trovare la forza per farla. Giugno era arrivato caldo e solare, l’estate era ormai vicina. Giulia uscì di casa e decise di non andare al solito appuntamento terapeutico, ritenuto da lei inutile, solo una gran perdita di tempo che andava fatta perché rientrava nel programma stabilito. Fece un giro a piedi intorno all’alto palazzo a vetri dove abitava. Si fermò a comprare il giornale dal giornalaio in fondo la strada principale che portava alla sua casa. Si sentiva strana quel giorno, percepiva la stessa stranezza che aveva provato quando mesi prima aveva incontrato Giacomo all’aeroporto. Si guardò intorno come a cercare qualcosa, qualcuno; non c’era nessuno. Sospirò. Comprò il solito quotidiano e lesse d’impulso i titoli principali, il suo sguardo cadde sul titolo centrale: Aneurisma uccide il giovane artista Giacomo Lumezia. Non poteva credere ai suoi occhi, Giacomo, il suo Giacomo era morto. Giulia rimase di pietra nel leggere tale tragedia. Occhi sbarrati, iniziò a tremare finché di colpo, in lacrime, scappò velocemente a casa dove lesse per intero l’articolo.
A pochi mesi dall’esposizione presso la galleria d’arte di Berlino (grande successo per l’artista contemporaneo dalla straordinaria sensibilità e stravaganza espressa in opere follemente realistiche) Giacomo Lumezia, colpito da aneurisma aortico addominale, si spegne prematuramente. Lascia moglie e una bambina di sei anni, Giulia. Il Lumezia stava ultimando la sua ultima opera LA GIOIA DELLA VITA IMPERFETTA, quadro conclusivo del ciclo giovanile iniziato durante il periodo universitario con la tela su piattaforma in acciaio IL VOLTO.
La donna leggeva e lo sconforto, la rabbia, il dolore e soprattutto i ricordi invasero il suo cuore, un cuore tradito da se stessa. Giacomo si era sposato e aveva chiamato sua figlia come lei. Concluse di leggere l’articolo che riportava anche la foto di un Giacomo sorridente, quello che lei aveva sempre amato. Richiuso il giornale, il cuore sussultò dello stesso sussulto che la donna aveva provato quel giorno in aeroporto e dieci anni prima.
“Era lì che stavi andando Giacomo, a Berlino” pensò Giulia.
“Eri conosciuto nel campo artistico ed io nemmeno lo immaginavo. Ma dove sono vissuta? Cosa ho fatto? Tua figlia si chiama Giulia” continuava a ripetere a se stessa.
“Giacomo, Giacomo!” urlò.
Era sconvolta e persa. Trascorse tre giorni nell’oscurità e nel silenzio. Il cellulare, il telefono fisso, il campanello di casa suonavano senza ricevere risposta. Giulia era immersa nel profondo dolore. Il buio e il vuoto erano i suoi compagni. Le lacrime ora scendevano lente, taglienti; con esse la memoria di lui e della vita che lei non aveva vissuto, saputo vivere.
Miriam e Marco avevano provato ad entrare, ma Giulia si era barricata in casa tra le proprie ombre, con il nome di Giacomo in bocca e l’amarezza di ricordi di un amore tradito da lei stessa.
Accese una candela, la tentazione di bruciarsi era ritornata più forte che mai. Sfiorò più volte con la mano destra la fiamma e disse: “Giacomo sei stato l’unico ad avere intuito il mio disagio. Sono perfettamente interessante e nella mia perfezione sono imperfetta, così mi dicevi sempre. La mia apparente perfezione. Avevi capito tutto di me e mi amavi. Ti ho amato anch’io e non ho mai smesso di amarti, pur non amandoti perché incapace di amarmi. Le nostre vite sono andate avanti, abbiamo amato altri non dimenticando mai il nostro amore non vissuto. Io non ho mai vissuto.”
Continuò il suo soliloquio guardando fissa la fiamma, sfidando la tentazione e il desiderio di punirsi, lo squallido gioco del piacere facendosi male.
Avvicinò la candela al suo bel viso e disse ancora: “Tu sei andato via per sempre e prematuramente, Signora Morte ha bisogno di rallegrarsi con il tuo sorriso, con i colori che lascerai tra nuvole sparse.”
Fissava la candela la cui luce si avvicinava sempre di più, “potrei raggiungerti” sospirò.
Le lacrime solcavano il viso provato dal grande dolore.
“Sei morto nei tuoi migliori anni” continuò “ma hai lasciato traccia di te, di ciò che eri, che sei e continuerai ad essere nei ricordi, nelle tue opere: luci e colori pullulanti di vite.”
Silenzio nella stanza, la fiamma era ormai vicinissima al ciuffo scuro di capelli che divideva la fronte alta e chiara di Giulia. La tentazione di darsi fuoco e farla finita era attraente e superiore alla forza di fermarsi, ma in quel silenzio gelido e profondo, sentì qualcosa, qualcosa che non era abituata più ad ascoltare, il suo respiro. Lo stesso che ella ascoltò quel giorno in aeroporto, nell’abbraccio di Giacomo. Il respiro di vita l’aveva richiamata. Allontanò con mano tremante la candela dal viso, con un faticoso soffio la spense. Accese la luce, prese le forbici dalla cucina e si tagliò i capelli.
Si sentì morire anche lei, ma in quel momento si sentì rinascere. Qualcosa era cambiato. Una forza sconosciuta, sopita da troppo tempo, si era risvegliata. Giulia sapeva che sarebbe stata dura, ma sapeva soprattutto che doveva ritrovarsi e capire chi era. L’autolesionismo compagno da sempre non era più necessario. Era consapevole che le crisi maledette l’attendevano a braccia aperte, ma era pronta. Il suo castello di cristallo era crollato e lei tra i frammenti infranti non si tagliava più. La morte le aveva insegnato.
“Giacomo, hai abbandonato il tuo corpo, la materia di qui. Sei nella stanza accanto. La tua vita è andata avanti ed anche nel trapasso sei avanti. Il nostro legame non si è mai spezzato, il nostro amore è sempre andato oltre. Quanto ho imparato da te, caro Giacomo. Mi hai insegnato l’amore, un amore che non avevo mai compreso prima, l’amore che non avevo mai dato a me stessa, l’amore della mia non perfezione. E’ ora di morire per rinascere. Mi hai fatto sentire, di nuovo, il mio respiro, la mia vita ancora in grembo. Non ho più sentieri da seguire se non i miei da trovare. E’ ora di affrontare, è ora di andare” disse.
Un biglietto alla madre (ti voglio bene).
Prese dall’armadio qualche indumento che infilò disordinatamente nel primo zaino che trovò e si allontanò dalla città, nel silenzio della notte.
Trascorsero le ore, il sole stava ormai sorgendo, il paesaggio era cambiato, non era più grigio e all’orizzonte si intravedeva il mare. Il respiro di Giulia diventava sempre più profondo e più calmo. Le campagne intorno erano silenziosamente avvolte dal delicato cinguettìo degli uccellini appena risvegliati. Gli occhi di Giulia iniziavano a colmarsi di una nuova luce. Finalmente era arrivata. La pace della terra l’accolse. Sorrise davanti alla porta dell’antica casa della nonna materna, una vecchia pagghiara piccola e accogliente, nel profondo tacco d’Italia. In casa si sentiva l’odore tipico del chiuso. Giulia era distrutta dal lungo viaggio e si assopì sul letto spoglio. Dormì tutto il giorno e avrebbe dormito ancora se non fosse stato per dei rumori che la svegliarono il mattino seguente. I contadini della campagna vicina si erano messi già a lavoro. Si alzò, si guardò allo specchio e rimase impressionata dai propri occhi nascosti da fosse profonde, devastate dal dolore della sua perdita. Aprì le ante delle finestre e fu subito accecata dal già cocente sole di giugno. Accese il cellulare e si trovò 10 messaggi e chiamate della famiglia, preoccupata per lei.
Rispose solo alla madre con un semplice sms: sono dove tu conosci i nostri segreti, sto bene, ma ho bisogno di solitudine. Ti prego, non cercarmi. So che lo farai, perché sei mia madre e conosci di me anche il rovescio che non hai voluto vedere. Il nostro legame è viscerale, so che saprai aspettare e rispettare, tenendo a bada e nel silenzio il dolore che ti ho causato. Perdonami. Ti voglio bene.
Non fece riferimento a Giacomo, tanto meno ebbe un pensiero per Marco. Sapeva in cuor suo che il suo ragazzo l’amava, ma era consapevole della propria fragilità, una fragilità di una nuova forza tutta da scoprire. Aveva bisogno di capire e di capirsi, di trovare se stessa, sapeva che doveva fare un passo per volta come fa il bimbo che impara a camminare. Se doveva cadere di nuovo, doveva cadere da sola.
Passarono le ore e le lacrime iniziarono a colmare i sacchi degli occhi divenuti sempre più piccoli; con esse si riaffacciarono i tormenti. Il desiderio di ricominciare a ferirsi iniziò a prendere forma, i suoi fantasmi erano ritornati. Trovò in cucina dei cerini sigillati, dovevano essere di qualche contadino che ogni tanto apriva la casa per far entrare nuova aria e luce. Con essi trovò delle candele e in cucina, a portata di mano, c’erano coltelli e altri utensili appuntiti, perfino il caturo utilizzato dalla nonna per fare i maritati freschi. Giulia si guardò intorno, tra la luce del sole riconobbe le sue ombre. Il desiderio di farsi del male non era sparito, le sue paure, le sue ansie prendevano sempre più forma tra i ricordi di Giacomo che non c’era più e della vita che non aveva vissuto.
“Devo reagire” pensò.
Iniziò a muoversi in casa, a lavare il pavimento, i vetri, a fare e disfare il letto più volte con le lenzuola bianche di cotone, ancora profumate di naftalina. Si muoveva velocemente, cercando di distogliere il pensiero dal piacere di lesionarsi. Spostava ogni oggetto che trovava in casa per poi rimetterlo dove l’aveva trovato. Creava confusione per trovare in lei l’ordine. Ripeteva gli stessi movimenti più volte, ma tutto questo iniziò a non bastare. Trovò, nel piccolo bagno, dei vecchi rasoi arrugginiti; li fissò, ne prese uno in mano e ne estrasse la lametta. La tentazione aumentava.
“Deve essere del nonno che ha vissuto con la nonna l’ultimo periodo della vita in serenità. Deve essere suo” pensò.
Tale pensiero la fece momentaneamente rinsavire. Ripose la lametta sul lavandino e attraversata la piccola camera da letto, rapidamente si diresse in cucina.
Si sedette sulla sedia, si aggrappò con forza al grande tavolo di legno dove la famiglia spesso si riuniva in felici banchetti. Sembrava stesse abbracciando qualcuno, qualcosa, se stessa. Si lasciò andare nelle sue emozioni, nei suoi tormenti, facendosi attraversare totalmente. Affrontò la sua prima crisi di astinenza. I medici l’avevano avvertita e le avevano spiegato che quando avrebbe smesso di assumere la dose masochista, avrebbe iniziato ad interrompere le dinamiche e la danza del folletto sarebbe iniziata. Così fu. Passarono i giorni e le crisi aumentavano. Giulia non riusciva ancora ad uscire di casa. Tutto sembrava non cambiare, la danza del folletto si ripeteva ogni giorno. Le crisi continuavano a persistere e Giulia persisteva con esse in una lotta che sembrava non finire mai. La notte e il giorno erano ormai uguali per lei, finché la mattina del 21 giugno, la donna fu risvegliata da suoni diversamente melodici: campane eoliche. Il suono era talmente delicato e profondo che la portò ad uscire finalmente di casa, come a voler seguire quella lontana melodia che le stava già donando un po’ di tregua in quella lotta continua ed infinita. Il sole era accecante, l’estate era ormai protagonista. Camminò per un’ora, senza meta, cercando di comprendere da dove provenisse quel suono. La brezza marina le accarezzò dolcemente il volto. Si ritrovò davanti a un mare calmo, cristallino, acquietato da un blu sfumato. Non c’era nessuno intorno. Giulia si sedette, affondò le mani nella calda sabbia e pianse tutto il suo dolore. Un gabbiano in volo rasoterra tagliò lo sguardo della donna, mentre il leggero venticello le asciugava le lacrime. La natura le parlava e il coraggio di ritrovare la vita iniziò a farsi strada nel suo ventre. Da lontano, il ritorno di un’eco, il suono di campane eoliche ritornò a farsi sentire accompagnato da voci bianche di bimbi in festa. Giulia riprese il cammino e si ritrovò, non molto lontano dalla spiaggia, nel paesino dell’antica torre. Il paese festeggiava l’estate e l’inizio della stagione balneare. Le case erano allietate da fiocchi colorati, campane eoliche di varie dimensioni. Giulia osservava sbalordita la vita e i suoi colori mentre si perdeva tra la gente di un mercato sovrappopolato da voci che si accavallavano e da bambini che giocavano.
Una donna di età avanzata le si avvicinò e disse: “Signorina, sta bene? La vedo persa.”
“Sono persa” rispose Giulia, senza nemmeno guardarla in faccia.
“Ma io l’ho vista! Lei abita nella campagna vicino la mia, è arrivata qualche settimana fa ormai. Ma nessuno l’ha vista in giro. Ha visto che bello oggi? La bella caciara che c’è?” Giulia ascoltava ma continuava a fissare i colori del luogo e il pullulare di vite, come se si stesse nutrendo. Era avvolta da un incanto.
“ Ormai è estate” continuò la donna, mentre Giulia continuava a non rispondere.
“La campana eolica riporta armonia nei cuori e nelle menti, così si dice. Essa guarisce profonde ferite” aggiunse.
Tali parole distolsero la ragazza che si voltò e incrociò lo sguardo dolce e luminoso nel viso rugoso dell’anziana signora, che gentilmente la portò a casa sua e le preparò una buona colazione: pane caldo appena sfornato, burro, marmellata di fichi fatta in casa, latte e un ottimo caffè. Per la prima volta Giulia si sentì a suo agio, in famiglia. La casa di Carmela, questo era il nome della vecchia signora, non era molto lontana da quella di lei. Giulia si sorprese perché non si apriva mai con nessuno, poco anche con sua madre, ma parlare a Carmela era come parlare a se stessa. Le raccontò la sua storia, la sua vita. La canuta signora l’ascoltò attentamente senza giudicare; anche lei era sola, aveva perso il marito ormai da una decina di anni. Viveva con la pensione di lui, nella semplicità, facendo della propria esperienza di vita e delle proprie sofferenze la via maestra per vivere in pace quello che le restava da vivere. Con l’aiuto dei suoi figlie e nipoti, coltivava prodotti biologici che le permettevano di nutrirsi, di pagare le tasse e di sopravvivere nella terra che l’aveva partorita e dove lei sarebbe ritornata dopo la morte. Le due donne parlarono a lungo e i loro colloqui iniziarono a divenire quotidiani e lieti. Oltre alle chiacchiere, Giulia iniziò ad aiutare Carmela in campagna; lì riscoprì la terra, le zolle rosse, le proprie radici, le origini della famiglia, l’amore verso se stessa. Decise di mettere mano anche al piccolo pezzo di terra dei nonni vicino la sua casa, abbandonato e apparentemente privo di vita. Iniziò a zappare, a rimuovere la terra, a toccarla, a seminarla.
Zappava con forza, specie le zolle più aride. In quella forza iniziò a buttare fuori la sua rabbia, il suo rancore, il suo autolesionismo. Si stancava sempre di più. Zappava anche con il sole rovente, sfidando la paura di sfidarsi.
Ad ogni crisi che aveva, lei zappava e seminava ascoltando i suoni, gli odori di una natura che le parlava. Iniziò a riconciliarsi con Madre Terra, iniziò a ritrovarsi, a trovare il coraggio, la volontà di affrontare, di cambiare. Mise tutta se stessa in ogni seme donato alla terra, sciogliendo il ricordo, il dolore, l’abbandono, la sua non vita per una nuova vita.
Le crisi diminuirono e con esse anche il desiderio di farsi del male.
La campagna e il mare le parlavano ogni giorno. Nuova aria nelle narici.
Il ricordo di Giacomo era in lei, ma con esso c’era anche l’accettazione della morte compagna naturale della vita.
“Mamma, domani sono a Milano, starò una settimana, il tempo di chiudere alcune cose sospese. Ti racconterò al mio rientro. Non sono ancora guarita, le ombre a volte sono in agguato, ma ora ho scoperto la mia luce. Non è mai stata colpa tua. Ero, sono io. Ti voglio bene mamma” scrisse Giulia in un sms.
Si guardò allo specchio, per la prima volta si vide bella.
L’estate era ormai trascorsa, l’aria settembrina sfumava i forti colori della terra del sud, la rinascita di Giulia era iniziata.
Grazie per le vostre parole e per il vostro supporto. No, non ho ancora pubblicato con un editore, penso ci sia ancora tanto da fare e da imparare. Si vedrà…
Poichè la scrittura è sempre stata in me, ho deciso di misurarmi e mettermi alla prova con questo percorso che mi sta permettendo di scoprire la mia prosa.
Ho scelto Moony poichè oltre ad essere una scrittrice affinata e sublime è prima di tutto una persona dotata di una grande sensibilità ed umanità, elemento raro da trovare ai giorni nostri.
Per quanto concerne Pezzi, sì, è mio, il primo livello 🙂 Grazie ancora per i commenti.
Giulia: racconto d’autore, da leggere tutto d’un fiato…Intreccio che cattura, in un’imprevedibile susseguirsi di emozioni: dal macabro agghiacciante che toglie il respiro al sereno bucolico che riporta speranza. Si delinea uno stile di prosa, in continuità con “Pezzi” (sei sempre tu, vero?). Brava! Mi piacerebbe sapere se hai già pubblicato con qualche editore…
Mi ha colpita, emozionata, la storia di Giulia … la costruzione della sua storia, narrata con fluidità, è compiuta e parla di una personalità complessa, lineare nell\’apparenza, molto sofferta nella realtà interiore. Dopo aver sfiorato l\’autodistruzione, Giulia trova la forza di rinascere attraverso un percorso da lei scelto con coraggio, che la porta fuori dal suo ambiente e in un contesto solare, a contatto con natura, persone, occupazioni che le fanno apprezzare aspetti a lei sconosciuti della vita, riscoprendo una diversa, più vera fiducia in se stessa.
Belle le descrizioni degli ambienti, molto efficaci, si sentono vivi , palpitanti, ci si ritrova immerse in essi.
Efficace la prosa che accompagna una vicenda logica, coerente, che basta leggere una sola volta perchè ti rimanga dentro . Brava, scrivi ancora per favore !!!!