I COLORI DI UN PIANOFORTE
di Barbara Mannucci
Primo Livello- Corso Adulti
La porta si chiuse.
Aveva colto il movimento di una figura alta entrare, sedendosi sul divano, poi solo il ruotare della maniglia. Piegò il cappotto nella seduta accanto e distese i lembi della gonna. Un altro clic dietro di sé: la porta che dava sull’ingresso, accostata con garbo dalla anziana segretaria. Nella quiete temporanea che seguì la spugna in gola si ritirò. Come una minaccia scampata.
Si era manifestata così la prima volta, la minaccia. Una sostanza spugnosa aveva cominciato a gonfiarsi tra collo e gola , le era sembrato che il respiro si bloccasse. Avevano chiamato l’ambulanza, si pensava a un infarto. Non le sembrava possibile poter sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. Tutta quella gente china su di lei le chiudeva quel filo di ossigeno che ancora alimentava i suoi polmoni. Poi due medici si erano fatti largo e tutti erano usciti dalla stanza. In quel momento lo sterno rilassò la contrattura e l’aria riprese a circolare. L’avevano cosparsa di elettrodi per un elettrocardiogramma, avevano gonfiato il nastro attorno al braccio per misurare la pressione ma a parte una lieve alterazione del battito non avevano riscontrato niente. Attacco di panico. Non ci aveva creduto, erano due parole di moda tra le sue amiche, un vezzo, come la corsa nel parco di domenica mattina o l’ora dell’aperitivo dall’analista, non le appartenevano. Le sembrava una sentenza scontata. Erano seguiti vari esami che il medico di base le aveva prescritto con scetticismo sotto sua insistenza e scuotendo la testa di fronte agli esiti.
La spugna seguiva un moto ondoso, si gonfiava e si ritirava alternandosi. Altre volte come l’alta marea si gonfiava appena e restava così, sull’orlo della sofferenza. Era diventata una presenza ingombrante e capricciosa che l’aveva spinta come un relitto sul divano basso dove adesso affondava in una posizione eccessivamente reclinata. Tra poco la porta si sarebbe aperta e avrebbe dovuto affrontare l’ora di colloquio con (o contro) un viso nuovo, falsamente rassicurante di cui aveva sentito fin troppi aneddoti. Aveva la sensazione della spugna che si stesse gonfiando, ma era solo la sua ombra proiettata dalla paura. La stanza vuota, piantonata a destra dalla segretaria della reception e a sinistra da quella porta, che avrebbe potuto aprirsi da un momento all’altro, le si chiuse addosso come un lenzuolo sulla testa.
Nella parete di fronte era appesa una riproduzione, una dozzinale tela a olio spessa come una crosta: con colori forti e tratti maldestri erano raffigurate due donne in un campo di fiori, due cipressi ombreggiavano le loro figure, sullo sfondo solo profili di colline e diversi toni di verde. Poco più in alto sopra al quadro, all’angolo tra le due pareti, da un altoparlante per la filodiffusione uscirono due note di piano scandite, come se la seconda aspettasse educatamente che l’eco della prima si esaurisse. Le donne nel quadro si mossero impercettibilmente, le loro figure bianche sembravano nuvole in un cielo immobile. Dall’altoparlante seguirono altre tre note di piano, veloci e allegre tenendosi per mano; dal quadro qualche nuvola si mosse. Nella stanza immobile si sentì per un attimo solo il suo respiro affannarsi ma la spugna era silente. Poi la musica uscì lieve ed educata come una fila di bambini da dietro il sipario di una recita, danzarono nell’aria e il quadro invase lo spazio. I fiori sbocciavano e appassivano mossi dal vento, riccioli di nuvole avvolgevano il cielo e i cipressi dondolavano tra le note. Il quadro entrò nella stanza, e lei si trovò stesa sul prato, un cuscino di note ottundeva la sua paura. Si alzò e prese a camminare, le due donne la guardarono senza espressione, come se potessero vederle attraverso. Le sembrò di essere brezza che aleggiava sul prato, trasportata da una forza involontaria prese a correre attraverso le colline. Seguiva un sentiero ritorto, la scia di fumo di un camino, e attraverso quella arrivò ad una casa di pietra. I suoi mattoni erano tratteggiati da pennellate di arancione acquarello con contorni offuscati. Una melodia insistente la spinse dentro attraverso il fumo lieve del camino. Atterrò sulle braci spente e una nuvola di grigio per un attimo le offuscò la vista. Il colore si dissolse e lei vide sé stessa seduta al tavolo. Era una bambina assorta. Stava scrivendo una poesia su una rosa che le stava appassendo di fronte, intrappolata nell’acqua di un bicchiere. Era caduto un petalo e poco dopo una lacrima dalla sua guancia di bambina. La finestra si aprì sospinta da un alito lieve che fece cadere uno dopo l’altro i petali della rosa. Le lacrime della bambina formarono un ruscello gorgogliante che scese sul pavimento allargandosi come una macchia che arrivò a lambire le braci del camino fino ai suoi piedi e risalì sfidando la gravità. Si sentì avvolgere da un calore che scioglieva la neve. Altre lacrime cominciarono a sgorgare, stavolta dai suoi occhi e fluirono formando un solo fiume come liquido amniotico. Si sentì sollevare senza peso dalla corrente dell’acqua che la riportò su su fino al camino e ne uscì fluttuando in una traiettoria ritorta come sbuffo di fumo. Riprese a volteggiare sulle colline e in lontananza i cipressi danzanti ancora l’attendevano avvolti nella musica che sempre più lieve rallentava il suo andamento. Planò con la traiettoria di un aliante sul prato dov’era posata poco prima e la corrente si ritirò come risacca. Le donne erano ancora lì, lo stesso mazzolino in mano ora volteggiava appena nel vento, un tremolio lieve lo avvolgeva e mentre le note tornavano a distinguersi come grani di un rosario assunse una nuova fissità. I colori si fissarono e tornarono duri. L’erba si appiattì immobile e tornò crostosa come una tela dozzinale. La parete risucchiò tutto a sé lasciandola a contare le ultime note che educate si ritiravano nel sipario dell’altoparlante. Solo il fiume caldo delle sue lacrime ancora era lì, a rigare la camicetta e una macchia larga, a forma di spugna sporcava il bavero della giacca.
Una risata scavalcò la porta chiusa seguita dal clic della maniglia. Ne uscì un uomo a testa bassa, la alzò solo per un cenno breve, forse un saluto. Rientrò quasi subito seguito dai passi lenti della segretaria che accostò appena.
La porta verso l’ingresso era rimasta spalancata e il profumo fresco e pulito di una finestra aperta le accarezzò una guancia. Rimise il cappotto abbottonandolo fino al bavero e abbandonò lo studio.
Si avviò a piedi verso il parco. Aveva un’ora vuota davanti a sé. A labbra chiuse, dalla gola libera emise un suono rapido, armonioso, un motivetto sentito altrove. Una delicata melodia di pianoforte.