IL DRAGO DI SANGUE di Quirino Pilosi. I racconti dei corsi on line. Primo Livello Adulti

IL DRAGO DI SANGUE  di Quirino Pilosi, Primo Livello Adulti

Una solitaria e fredda goccia si staccò dal soffitto, cadendo sulla sua nuca. Improvvisamente Vander si destò dal suo torpore.  Cercò di asciugarsi il collo, ma si rese conto che era legato. Era in piedi, con le braccia e le gambe divaricate. I polsi e le caviglie erano intrappolati da manette di ferro legate ad un grande anello fissato alla parete di pietra dietro di lui. I piedi erano attaccati al muro, mentre le catene che tenevano i polsi erano più lunghe, cosicché il suo corpo potesse sporgere in avanti. Si sentiva la testa pesante come se avesse preso la più grande sbornia della sua vita. Deglutì a fatica: aveva la gola asciutta.

Non capiva com’era finito lì. Ciò che ricordava era un branco di lupi neri come la notte che lo circondavano nel fitto del bosco. Il cupo ringhio degli animali pronti all’attacco, poi un improvviso dolore alla nuca, e una miriade di scintille luccicanti lampeggiare dappertutto. Riuscì a sentire il magnifico odore dell’erba prima di accasciarsi al suolo privo di sensi.

Di colpo una candela s’illuminò dinanzi a lui. La debole fiammella che rischiarava a malapena le tenebre della cella angusta, feriva i suoi occhi.

Un bambino sedeva davanti a lui, muovendo avanti e indietro le gambe che non arrivavano al pavimento. Aveva le orecchie a punta, i capelli argentei e ricci e gli occhi obliqui. Di fianco si muovevano silenziose delle sagome scure.

Vander capì che erano gli stessi lupi neri che lo avevano attaccato nel bosco.

“Finalmente ti sei svegliato”, disse il bambino con un ghigno sul volto.

Vander diede uno strattone alle catene che lo tenevano legato:

“Liberami!”.

“Se lo facessi mi attaccheresti, e i miei amici sarebbero costretti ad ucciderti”, rispose il bambino poggiando la mano sul dorso di un lupo che stava al suo fianco.

“Chi ti dice che sarò io a morire?”, replicò Vander osservando i lupi che gli giravano attorno.

“Buono Nefristo”, esclamò il bambino accarezzando il lupo, poi guardò dritto negli occhi il prigioniero: “Non sono un nemico. Ti donerò l’arma che ti renderà un eroe…”, disse, giocherellando con il piccolo amuleto che teneva in mano.

Vander notò che gli occhi del bambino seduto di fronte cambiarono intensità. La sensazione che ebbe lo turbò: quello che aveva di fronte non era un bimbo ma un piccolo vecchio dai gesti infantili.

“Come sono finito qui?”, domandò mantenendo un tono calmo. Ebbe la forza di continuare a fissare quell’essere che se ne stava davanti a lui .

“Sbagli domanda. Ciò che devi chiederti è perché sei finito qui! T’interessa saperlo?”, la voce della creatura era persuasiva.

“Tu che dici?”, Vander aveva sempre di più la sensazione di non parlare con un bambino.

“Prima le presentazioni. Il mio nome è Salfirel. Appartengo ad una razza simile alla tua. Solo che uso le arti magiche. Conosco la tua rabbia, perché è la stessa che provo anch’io. I nostri cugini elfi ci hanno esiliato, come se fossimo il male. Ma sappiamo che non è così. Temevano la nostra conoscenza della magia, capace di scatenare forze d’inimmaginabile potenza. Hanno convenuto che fosse più giusto per il mondo sterminarci. Per la colpa di uno solo di noi, abbiamo pagato tutti. Non mi sembra giusto”

Vander si trovava completamente d’accordo con Salfirel. Anche lui non aveva mai accettato il fatto di essere costretto a rinnegarsi, per una colpa che aveva commesso un suo antenato ancor prima della sua nascita. Se uno della sua razza si era convertito al lato oscuro, non significava che erano tutti malvagi.

“Quanti ne rimangono ancora?”, chiese incuriosito.

“Siamo abbastanza per rivendicare i nostri diritti”, rispose Salfirel.

“Io non voglio rivendicare niente”, aggiunse Vander.

Salfirel lo guardò perplesso: “Preferisci continuare a nasconderti per sempre? A vivere come un fuggiasco che ha commesso la più terribile delle colpe, sapendo che non è così?”.

“Non ho detto questo. Ma non voglio nemmeno combattere contro i miei simili”, Vander sentiva aumentare la tensione.

Salfirel corrugò la fronte: “Chi ha mai parlato di combattere contro gli elfi?”.

Vander sentiva la testa scoppiare come se una miriade di martelli stessero picchiando contro le sue tempie. Non sapeva fino a quando avrebbe sopportato quella conversazione senza senso. O si sbrigava a dirgli quello che voleva, o se ne poteva anche andare al diavolo.

Salfirel dovette intuire i suoi pensieri: “Ti sto offrendo la possibilità di redimere te, e tutti noi da un’ingiusta condanna”.

Vander lo guardò con un riso beffardo: “E in che modo vorresti riuscirci?”

Salfirel con un piccolo salto scese dalla sedia, e si diresse verso Vander mostrando l’amuleto che roteava intorno al suo dito: “Con questo”, disse senza mostrare alcun dubbio.

L’oggetto, grande quanto il palmo della piccola mano di Salfirel, aveva la forma di una spirale. Era completamente d’oro, macchiato qua e là da alcune chiazze scure che si muovevano lungo i piccoli anelli in balia di una forza invisibile, come sottili nuvole grigie sospinte dal vento in un cielo d’orato. I cerchi che componevano la piccola spirale, erano in realtà tante minuscole lettere appartenenti ad una lingua arcana, saldate tra loro magistralmente da sembrare, a prima vista, un unico filo d’oro. Anche la sottile ma resistente catenella alla quale era attaccato l’oggetto, era formata dalle medesime lettere, solo visibilmente più grandi. Salfirel teneva l’oggetto dinanzi a Vander, come a volersi assicurare che lo osservasse con molta attenzione. Vander ne fu inevitabilmente rapito. Sembrava carico di un antico potere.

“E’ un oggetto molto prezioso. Proviene dalle Grotte Ombrose. Imshaark in persona me ne ha fatto dono”, disse Salfirel.

Vander abbandonò a fatica la vista dall’oggetto, per fissare il volto di Salfirel. Un brivido freddo attraversò le sue membra, quando lo osservò così da vicino. Si sforzò di non cedere alla silenziosa persuasione di quell’essere intrappolato nel corpo di un bambino.

“Imshaark! Il Custode delle catene del tempo?”, un’improvvisa e fredda risata vibrò nel petto di Vander. “Nemmeno il più audace tra i guerrieri si è mai addentrato così a fondo nel cuore della terra”.

Salfirel soppesò l’oggetto con un lieve movimento del braccio: “Eppure quest’amuleto dimostra il contrario. E molto presto una catena del tempo verrà spezzata”.

Vander diede ancora uno strattone alle catene, nella speranza che cedessero. L’oggetto sembrava non interessargli più. Fissava gli occhi di Salfirel senza più timore: “Imshaark è una leggenda. Le catene del tempo sono una leggenda”, lo sfidò Vander.

“Ma smettila. Non credi nemmeno tu alle tue parole”, esclamò Salfirel con un ghigno sul volto. “Sai che non sto mentendo”, concluse con un tono tranquillo.

“E va bene. Ammettiamo che tu dica la verità”, disse Vander arrendendosi a quella conversazione, “perché un essere tanto antico e potente, avrebbe dovuto concedere un simile dono?”.

Salfirel abbassò il braccio, l’amuleto stretto nel suo pugno: “Perché ha compreso la grandiosità di quello che stiamo per compiere”, la sua voce era sempre calma e solenne, come se le sue parole fossero una dolce sinfonia in grado di addormentare i sensi. “Molto presto, ogni cosa ti sarà svelata”.

Salfirel mise l’amuleto intorno al collo di Vander, poi si allontanò di un passo. Allungando la mano sull’oggetto iniziò a pronunciare parole incomprensibili. Un attimo dopo Vander sentì un dolore terrificante trafiggergli le carni, come se qualcosa stesse cercando di entrare a forza dentro il suo petto. Nell’aria si sparse l’odore di carne bruciata. Vander si dimenava e urlava come un ossesso per il dolore insopportabile. Ora capiva a cosa servivano le catene.

Quando il dolore finalmente cessò, si sentì esausto. Fece un profondo respiro e guardò in basso verso l’amuleto. Non c’era più. Al suo posto una cicatrice di pelle viva che raffigurava esattamente la spirale dell’amuleto. Capì che si era fuso con il suo corpo.

“Che cosa mi hai fatto?” urlò, o almeno era quello che avrebbe voluto fare. Ma solo un flebile sussurro uscì dalle sue labbra. Non aveva la forza di fare nulla, nemmeno di parlare.

“Scoprilo da solo”, ghignò Salfirel tornando a sedersi sulla sedia. In quel momento sembrò di nuovo un bambino che faceva fatica a salire su una sedia troppo alta.

Vander sentiva un debole formicolio lungo tutto il corpo, come se una nuova energia si stesse diffondendo tra le sue membra, donandogli nuovo vigore.

“Come puoi vedere, ti riprenderai molto presto”, Salfirel accarezzò di nuovo la testa del lupo che gli era a fianco. I suoi occhi fissavano Vander con aria soddisfatta, come di chi ha finalmente visto realizzarsi un sogno. Rimase ad osservarlo per un po’, poi disse: “Il nostro tempo è finito. Ti farò portare dell’acqua calda, e dei vestiti puliti. Quando sarai pronto, trova il generale Naugir. Lui ti darà le risposte che cerchi”.

Salfirel smontò dalla sedia e aprì la porta per permettere ai sei lupi neri di uscire. Il sole che entrò improvvisamente nella sala, ferì gli occhi di Vander. Avrebbe voluto fare molte domande a Salfirel, ma non aveva la forza di parlare. La gola gli ardeva come fiamme incandescenti. “Che cosa c’entra il generale Naugir?” riuscì a stento a dire.

“E’ stato lui a farmi il tuo nome. Ed io, mi sono trovato pienamente d’accordo. Come ti ho detto, sei libero di andarlo a cercare. Non sei un prigioniero”, disse Salfirel con la sua solita calma, prima di uscire. Quando richiuse la porta, le catene si aprirono di scatto, come se la forza misteriosa che le teneva legate si fosse spezzata improvvisamente. Vander cadde sul pavimento, faccia a terra. Cercò di rimettersi in piedi, ma non ci riuscì. Aveva le gambe e braccia atrofizzate. Un momento dopo, la porta si spalancò di nuovo. La luce del sole inondò ancora la stanza; ad entrare furono due soldati. Portarono dei vestiti e una bacinella d’acqua. Cercarono di aiutare Vander a rialzarsi, ma li bloccò: “Ce la faccio da solo” disse. I soldati uscirono, senza aggiungere altro.

Vander si rimise a fatica in piedi; la testa gli girava forte. Si sedette per un momento sulla stessa sedia dove stava Salfirel, in attesa di riprendere completamente le forze. La candela era ancora accesa, dipingendo macabre ombre lungo le mura scarne della stanza. Lentamente la nebbia che avvolgeva la sua mente iniziò a diradarsi, e le domande si affollarono numerose. Dove si trovava? Perché era finito lì? Chi era quell’essere che aveva le sembianze di un bambino? Che cos’era l’oggetto all’interno del suo petto?  Ripercorse con il dito il segno della cicatrice, come se volesse trovare una risposta a ciò che stava accadendo, senza riuscirci. Fu sorpreso di non provare dolore, sebbene avvertisse ancora un debole formicolio.

Approfittò dell’acqua e dei vestiti puliti; dopotutto ne aveva bisogno. Quando fu pronto, uscì dalla stanza. Le due guardie di fianco alla porta, non si mossero. “Dunque è vero, non sono un prigioniero”, pensò Vander. Chiuse gli occhi respirando profondamente; i caldi raggi solari accarezzavano il suo viso, donandogli una piacevole sensazione di calore. Sentiva che le forze stavano tornando rapidamente. Si dimenticò immediatamente delle guardie per dare un’occhiata in giro.

Le innumerevoli case che costituivano la cittadella, erano addossate l’una all’altra. Una larga via, lastricata di grandi pietre piatte, sistemate magistralmente, proseguiva verso l’alto in direzione del castello che dominava la città, dove numerosi vessilli svolazzavano dalle torri più alte.

La fortezza ove si trovava, sorgeva su cinque diversi livelli, simili a lingue di pietra provenienti dalla gola delle montagne, ognuno dei quali era cinto da un muro. Alle sue spalle, ergevano il capo, fiero e orgoglioso, imponenti montagne, un susseguirsi di vette che andavano a formare la famosa catena dei Monti Grigi; sicuro riparo per la fortezza da eventuali attacchi via mare, che al di là delle montagne frangeva le rocce con rabbia, alimentato dal vento di quelle stagioni  primaverili. Vander alzò gli occhi verso l’imponente vetta che sovrastava la fortezza; sembrava un gigante di pietra, costantemente vigile, per proteggere il più delicato dei suoi oggetti.

Vander si trovava sull’ultima delle cinque mura. Il vento turbinava con un fievole sibilo. Si diresse verso la balaustra che si affacciava sul paesaggio. Una grande muraglia grigia, alta cento piedi e spessa almeno venti, cingeva la città, saldandosi alla roccia delle montagne a formare un arco impenetrabile. L’imponente parete liscia era interrotta bruscamente da una maestosa saracinesca di acciaio, con il simbolo della città, un leone ruggente con una corona a cinque punte sulla criniera, impresso nell’acciaio.

Vander capì che si trovava a Toomfast, la maestosa capitale dell’impero, da sempre orgoglio del regno degli uomini. La sua storia era impressa nei libri di tutto il continente, capace di appassionare esseri di diverse razze.

Al di là delle mura, si stendeva a perdita d’occhio una pianura, dove campi verdi e ben coltivati, cosparsi di fattorie, stalle, orti, venivano attraversati da numerosi ruscelli, che gorgogliavano giù dalle alte vette. Più verso sud, quasi al limitare delle montagne, numerosi alberi dal cupo fogliame, di varia forma e età, occupavano una parte del paesaggio. Le loro fronde ondeggiavano alla brezza del vento, come verdi giganti in preda ad una danza arcaica. In seguito, scoprì che si trattava del piccolo bosco di Arhen, un luogo vecchio quanto la terra stessa, dimora di antiche creature che oramai raramente si affacciavano nel mondo degli uomini. Non era pericoloso, eppure il suo ingresso era vietato alla maggior parte degli abitanti di Toomfast. Notò che numerose guardie posteggiavano lungo il suo perimetro. Si chiese che cosa mai contenesse quel luogo, da giustificarne un simile atteggiamento. Da qualche parte alla sua sinistra, sentiva il fragore di una cascata, che doveva alimentare il corso del fiume che serpeggiava sinuoso diverse leghe più avanti, scomparendo dietro le montagne.

Vander si sentì strattonare la camicia ripetutamente. Quando si voltò, vide una bambina molto piccola, che lo fissava. Aveva capelli scuri lunghi, un viso tondo, e due splendidi occhi nocciola. Si meravigliò di non essersi accorto del suo arrivo. Forse non si era ancora totalmente ristabilito.

“Tu sei l’elfo che hanno portato qui l’altra sera? Parlano tutti di te”, disse la bambina con tono sicuro, appoggiandosi al parapetto. I lunghi capelli scuri si agitavano come tentacoli sospinti dal vento.

“Che cosa dicono di tanto interessante?”, chiese Vander incuriosito dalla bambina.

“Tante cose. Ma anche tante sciocchezze”, disse la bambina con semplicità. “Dicono che gli elfi non si mostrano più al mondo, e quelli che vagano per queste terre, sono poco raccomandabili. Temono la tua presenza, come se il male avesse varcato le mura di questa città”.

“Forse hanno ragione”, esclamò Vander.

“Forse si sbagliano”, ribatté la bambina. Il suo era un tono tranquillo, come di chi non teme il pericolo, o forse, frutto della grande capacità di un bambino di sottovalutarlo, come sentenziò Vander.

“Tu non hai paura?”, chiese Vander con un sorriso amichevole.

La bambina scosse la testa con un sorriso, facendo segno alle spalle di Vander. Vander si voltò, e vide quattro guardie reali, che li scrutavano. Una di loro teneva un arco incordato. Indossavano un’armatura nera e bianca, e portavano elmi di pregevole fattura, con guanciali stretti contro il volto. L’emblema della città, era inciso a caratteri d’oro sul petto delle loro armature. Erano fermi cinquanta passi più in là, pronti a scattare da un momento all’altro. “Se mi farai del male, loro ne faranno a te”, disse la bambina, incrociando le braccia.

Vander fissò di nuovo la bambina, divertito dalla situazione: “Dunque è questa la tua protezione?! Mai lasciare le proprie guardie così lontane; incauto da parte tua. Ti dico una cosa”, disse Vander appoggiandosi al parapetto, “è probabile che dopo loro mi facciano del male, come dici tu. Ma prima, avrò sempre fatto del male a te. Perché rischiare?”.

“Perché volevo conoscerti. E poi solo parlando da sola con te, potevo avere le  risposte che cercavo. Dovevo rischiare per vedere se avevo ragione io, oppure quei grassi politici che frequentano il castello”, disse la bambina con una smorfia di disgusto.

“E cosa hai deciso?”, chiese incuriosito Vander.

“Non sembri cattivo”, rispose la bambina con semplicità.

A Vander non era mai capitato di trovarsi in una simile discussione. Eppure, con sorpresa, la trovò stranamente gradevole. “Non mi conosci. Come fai ad esserne sicura?”, disse per alimentare quell’inaspettata conversazione.

“Il mio istinto fallisce raramente. Tu non sei cattivo; questo lo so. E poi, mi sei simpatico. Si. Non so ancora perché, ma ho deciso che mi sei simpatico”, decretò la bambina.

“Simpatico”, ripeté Vander scandendo le sillabe con tono ironico. Questa era nuova. Vander non ricordava l’ultima volta che qualcuno gli avesse detto che era simpatico. Forse non era mai successo.

“Perché sei qui?”, domandò la bambina.

“Non lo so” rispose secco Vander, ma più che alla bambina stava rispondendo a se stesso.

“Mio padre sostiene che ci aiuterai. Sembra convinto, e io mi fido di lui”.

Vander la fissò improvvisamente: “A fare cosa?”.

“A sconfiggere l’uomo cattivo”, rispose la bambina, come se fosse la risposta più ovvia del mondo. “Secondo mio padre, sta diventando sempre più forte, ed è sempre più difficile contrastare le sue armate. Sembra che la Torre Bianca stia crollando sotto i continui attacchi di quel mostro. Secondo lui, non ci vorrà molto prima che ceda il passaggio”.

Vander era più che stupito da quelle parole. Intuì chi fosse l’uomo cattivo. Si trattava di Morgon, un oscuro essere che governava sulla tratta nord delle Lande Desolate, da sempre teatro di oscuri eventi. Aveva preso il comando di quelle terre diverse generazioni addietro, ma non era mai stato tanto forte da invadere le terre dell’impero. La Torre bianca, balaustro imponente del regno, vigilava costantemente sul passaggio nord, per impedire una marcia dell’esercito via terra. Ma ora, sembrava aver accresciuto la sua forza. In che modo nessuno lo sapeva, ma nell’ultimo anno aveva attaccato la Torre Bianca per ben tre volte, cosa che non era accaduta nemmeno negli ultimi due decenni. La maggior parte della gente non era a conoscenza di questi eventi, se non per sentiti dire. Nessuno che gli dava peso più di tanto. Il re aveva un impero solido, e una forte armata, e nessuno credeva che sarebbe caduto sotto un orda di mostri.

“Tuo padre non dovrebbe parlare di guerra in presenza di una bambina”, disse Vander asciutto.

“Lo penso anch’io. È un po’ destabilizzante in effetti. Ma non è tutta colpa sua. Molte informazioni le ottengo per conto mio”, disse la bambina con un sorriso malizioso.

“Ma chi sei tu?”, chiese improvvisamente Vander.

La bambina tese il braccio con la mano spalancata: “Nadya. Piacere di fare la tua conoscenza elfo…”

“Vander”, rispose stringendo la mano di Nadya.

“Mi ha fatto piacere conoscerti Vander. Ora devo andare. Ho una lezione di storia sui trattati dei nani. Una noia mortale”.

“Aspetta”, disse Vander trattenendola per un braccio. Le guardie scattarono pronte all’attacco, ma si fermarono sotto un cenno di Nadya. “Perché i soldati sorvegliano quel bosco?”, chiese Vander indicando il punto oltre la muraglia.

Nadya si affacciò, allungandosi sulla punta dei piedi, poi fece un sospiro, e disse: “Che tu ci creda o no, nemmeno io sono ancora riuscita a scoprire il segreto di quel luogo. Ma ti posso assicurare che è sulla mia lista. E’ solo questione di tempo. Non mi è ancora permesso uscire fuori delle mura della città. Ora però, devo davvero andare, a presto”. Così dicendo si avviò verso le guardie, che immediatamente la circondarono, risalendo la strada principale che saliva verso il castello.

Vander rimase a guardare Nadya, mentre si allontanava, circondata dal manipolo di soldati. Notò con piacere che quello strano incontro lo aveva messo di buon umore.

C’era un discreto via vai, lungo le strade che si diramavano verso ogni angolo della cittadella. Vander era un uomo alto, giovane e bello. I lunghi capelli si agitavano come onde d’argento alla forza del vento. Gli occhi, scuri, e appassionati erano obliqui, segno indiscutibile della razza elfica alla quale apparteneva. L’imponente figura di Vander svettava tra la folla. Chiunque passava si accorgeva di lui, per poi distogliere lo sguardo non appena i loro occhi incrociavano quelli di Vander. Capì che Nadya aveva ragione. Una silenziosa paura affliggeva i loro volti, quando si posavano su di lui.

Si stava giusto chiedendo cosa fare per trovare il generale Naugir, quando notò un vecchio dall’aria smunta, con un piccolo bastone da passeggio, dirigersi verso di lui. Indossava abiti logori, i corti e radi capelli grigi erano spettinati. Quando si avvicinò, un paio di occhi penetranti, fissarono Vander da sopra gli occhiali a mezzaluna.

“Tu devi essere Vander?”, domandò. “Non che passi inosservato certo, ma era per essere sicuri. Quando ho saputo che eri arrivato a Toomfast, sono venuto di corsa a cercarti. Scommetto che le ultime ore sono state traumatiche. Ti do il benvenuto come si conviene”. Tese la mano a Vander, che la strinse. A quanto pareva, non tutti avevano paura di lui.

“Il mio nome è Ludorf. Mi occupo delle finanze magiche del regno”.

Vander lo guardò accigliato: “Finanze magiche?”. Chiese, non sapendo neanche lui perché. Forse, quella curiosità era frutto dello strano incontro con Nadya.

“Già”, disse Ludorf con un sospiro. “E’ un lavoro complicato al giorno d’oggi. Non si trovano più gli ingredienti di una volta. Ora si cerca innovazione negli incantesimi, meno trucchetti e più potenza nelle formule magiche. Senza rendersi conto che si sta perdendo la tradizione. Ed è sempre più complicato soddisfare le esigenze del re”.

“Di cosa ti occupi in particolare?”, chiese Vander confuso.

Ludorf lo fissò attraverso gli occhiali a mezzaluna, come sorpreso dalla sua domanda: “Sono il capo del reparto contabilità, ricerca e sviluppo degli ingredienti magici della città di Toomfast”

“AH!”. Vander non aveva ancora capito il lavoro di Ludorf, ma decise che per il momento non voleva indagare oltre. Aveva cose più urgenti al momento. “Devo trovare il generale Naugir. Lo conosci?”.

“Mio caro giovanotto, non credo ci sia anima viva, in tutto il regno degli uomini, che non lo conosca. Comunque, per rispondere alla tua domanda: si, lo conosco. Ma per farlo dobbiamo attraversare la città, quindi, se ti va, sarei bel lieto di farti compagnia lungo la strada. Scommetto che avrai molte domande, dopo gli ultimi avvenimenti. Ammesso che Nadya non ti abbia già detto tutto, è ovvio”, disse scuotendo la testa con un sorriso. “Quella bambina è la degna erede di suo padre. Un giorno sarà una regina magnifica”.

Vander fu sorpreso: “E’ la figlia del re”, non era una domanda.

“Ancora più sveglia di suo padre”, disse Ludorf, enfatizzando la frase.

Percorsero una parte della via principale, prima di svoltare verso destra, per seguire una via più stretta che tagliava tra gli edifici. Vander capì che si stavano dirigendo verso la cascata che aveva udito prima, poiché il suo fragore diveniva sempre più forte. La maggior parte delle costruzioni erano in pietra. Grigia, nera, bianca, scarlatta; le case erano di varie tonalità. La pietra che componeva le abitazioni, variava per qualità di materiale e lavorazione. Alcune erano lisce, precise nell’assemblaggio, mentre altre erano ruvide, come se fossero state costruite con poca attenzione, segno indistinguibile della solvibilità di alcune famiglie rispetto ad altre.

“Credo che tu sappia cosa mi è successo la notte scorsa”, chiese Vander nella speranza di ottenere qualche informazione.

“In parte si. Ma non sperare di parlarne adesso. Ci sono argomenti che non vanno trattati con leggerezza, mio caro elfo. E questo è uno di quelli”, disse Ludorf, in segno di ammonimento.

Vander avvertì che il buon umore scaturito dall’incontro con la piccola Nadya, stava scemando, e iniziava a spazientirsi di tutti quei segreti. Strinse forte i pugni, facendo una gran fatica per contenere la rabbia che sentiva scorrergli nelle vene. Ludorf dovette accorgersi del nervosismo di Vander, poiché si affrettò a dire: “Tra poco incontrerai il generale Naugir, e lui ti darà tutte le risposte che cerchi. Piuttosto dimmi un po’, tu come lo conosci?”, chiese Ludorf nella speranza di cambiare discorso.

“Tempo fa, mi ha ingaggiato per alcuni lavori, e da allora siamo diventati buoni amici”, rispose secco Vander senza aggiungere altro, segno che la discussione era finita.  “Quando ero nella stanza, c’era… quell’essere… Salfirel… credo fosse il suo nome. Chi è? Che cos’è?”, si corresse subito Vander.

Ludorf fu percorso come da un brivido improvviso nel sentire quel nome, e Vander ebbe quasi la sensazione che le sue labbra s’incresparono in un ghigno malevolo.

“Non parliamo di… Salfirel” disse Ludorf, come se pronunciare il suo nome gli costasse una fatica enorme. “E’ un argomento che trattiamo sempre con molto riguardo. Ma una cosa devi sapere: la tua presenza qui è una conseguenza del suo arrivo a Toomfast”.

Vander stava per chiedergli ulteriori spiegazioni, quando sbucarono da un vicolo, e uno spettacolo meraviglioso si mostrò ai loro occhi. Si trovavano ai bordi di un’ampia scalinata di marmo, larga trenta piedi, che scendeva giù per almeno cento scalini, verso un ampio giardino. Davanti a loro, a poco più di un chilometro di distanza, la splendida cascata di Colleargento eruttava dalle montagne con impeto maestoso. Cascava fragorosa da mille terrazze, per poi tuffarsi giù nella valle, scomparendo alla vista di Vander. Era uno spettacolo incredibile. Vander aveva sentito parlare della capitale del Sud, degli splendidi giardini che ne arricchivano le membra, ma non immaginava che fossero davvero così splendidi.

Ludorf fece un profondo respiro, caricando i polmoni della splendida aria che regnava in quel luogo. “Uno spettacolo magnifico”, disse, come se lo ammirasse per la prima volta.

Vander era pienamente d’accordo. Ancora una volta decise di accantonare le domande per qualche istante. Quel meraviglioso luogo, aveva acceso la sua antica passione per la natura.

Iniziarono a scendere la splendida scalinata di marmo. Ogni gradino aveva una sfumatura di diversi colori. Sembrava un arcobaleno di marmo disteso sul pavimento del mondo. La scalinata era contornata da due ali d’erba verdissima, tagliata con molta cura, dove crescevano felici varie qualità di fiori. Ad intervalli regolari, crescevano numerosi alberi di limoni e arance.

Una maestosa fontana di marmo bianco, attendeva paziente i visitatori alla fine della scalinata, gorgogliando alla luce del mattino. Nel mezzo, fiero e possente, un leone sormontato da una corona a cinque punte proferiva acqua dalle fauci spalancate. Ai suoi piedi, due splendide sirene, ne adoravano la sua antica forza e bellezza.

Tutt’intorno, un’immensa distesa d’era verdissima si spalmava lungo tutto il perimetro dell’immenso giardino. Un’incredibile varietà di fiori cresceva in ogni angolo, protetti dalle fronde di antichi alberi di olivi, ginepri, mimose, licheni, e molti altri dei quali Vander non conosceva il nome.

Si avviarono lungo uno dei numerosi sentieri di pietra che tagliavano il giardino. Ludorf, spesso si fermava per controllare alcune piante. A Vander, nonostante la fretta di ricevere informazioni, non dispiaceva questo ritardo. Capiva perfettamente la sua passione. Degli splendidi fiori rossi con i petali blu, coloravano un angolo del giardino. Ludorf si avvicinò: “Noi li chiamiamo occhi celesti. Sono i miei preferiti. I petali blu contengono una sostanza afrodisiaca. Con la giusta lavorazione, si ottiene una miscela molto potente. Un po’ sulla pelle, e farai perdere le staffe a molte donne”, disse l’uomo, mentre li accarezzava con delicatezza. Sembrava innamorato del suo lavoro. “Un tempo, la magia era una nobile arte, praticata in tutto l’Impero con un sentimento puro. Ma da quando le Lande del Nord hanno un nuovo padrone, che combatte con oscuri poteri celati nelle reliquie del mondo, tutto sta cambiando. Il modo di concepire la magia è cambiato. Non si può combattere un’orda di demoni con un incantesimo “Sorridella” giusto?! E’ un vero peccato”.

Vander s’immaginò per un attimo un esercito di demoni, nel pieno di una battaglia, improvvisamente colti da un attacco di risa, o magari da un’improvvisa voglia di gentilezza. Sorrise all’idea. “Potrebbe essere un’idea” pensò, ma non disse questo, bensì: “La magia oscura fa parte di questo mondo da sempre. Esattamente come il fiore che hai in mano. Non c’è nulla di nuovo in questo”.

Ludorf fissò Vander con sguardo grave: “Non nel nostro regno. Abbiamo conosciuto guerre, carestie, epidemie, ma nulla è paragonabile a ciò che sta accadendo oggi. Ci sono limiti nella magia, che non dovrebbero essere valicati. Mai. È un punto di non ritorno verso un destino amaro. L’esercito del re, ne sta avendo la prova”.

“A cosa ti riferisci?”, chiese Vander.

Ludorf guardò Vander con tensione, come di chi è indeciso se parlare o meno. Alla fine disse: “Mi riferisco… alle catene del tempo”.

Vander ebbe un sussulto. Anche Salfirel le aveva nominate. “Sono una leggenda”, disse Vander senza troppa convinzione però.

Ludorf abbandonò i fiori per dirigersi verso Vander. Liberò il petto di Vander, e puntò il dito contro la sua cicatrice. “Questa per te è una leggenda?”.

“Che cosa ha che fare con le catene del tempo?”, chiese Vander in preda a una forte agitazione.

“Tutto!”, disse Ludorf fissandolo negli occhi.

“Spiegati meglio”, disse Vander. Il suo tono cambiò. Adesso era  calmo, ma spaventosamente freddo.

Ludorf s’innervosì improvvisamente, come se si fosse improvvisamente reso conto di aver detto più di quanto doveva.

“Ludorf”, disse ancora Vander con un tono tagliente, senza ricevere risposta. “Ludorf”, urlò, ora stava perdendo la pazienza…

“Conosci la storia di Vudrokan, il drago di sangue?”, una voce rauca e profonda interruppe la loro conversazione.

Vander la riconobbe immediatamente. Si voltò e vide il generale Naugir dirigersi a grandi falcate verso di loro. Era un uomo di antico lignaggio; alto, robusto, il capo completamente calvo e un gran paio di baffi bianchi, che andavano a formare una spirale sulle punte. Il volto era solcato da numerose rughe, testimoni fedeli della sua esperienza. Gli occhi erano scuri e freddi come una notte d’inverno. Indossava una possente armatura, di pregevole fattura, come di chi era pronto per scendere in battaglia in qualunque momento. Una micidiale cintura puntellata di borchie era legata intorno alla vita.

“A quanto pare Ludorf, hai sempre la brutta abitudine di parlare troppo, e prima del tempo”, disse il generale, quando li raggiunse.

“Generale, io…”

“Ciò che è fatto, è fatto”, concluse la faccenda il generale. Poi i suoi occhi scuri si posarono su Vander: “Piacere di rincontrarti, giovane Vander”, disse il generale tendendo a Vander una mano.

Vander ghignò: “Non so ancora se lo è per me”, disse mentre stringeva la mano del generale. Vander notò che sotto il braccio sinistro, il generale teneva una tavola dalla forma rettangolare, completamente d’oro.

“Comprendo la tua confusione”, disse mentre una risata cavernosa vibrava nella sua gola. “Dopotutto, chi non lo sarebbe al tuo posto”.

Vander non trovava la faccenda così divertente. Tuttavia conosceva il generale da vecchia data, e lo riteneva un uomo d’onore e di solida tempra. Col tempo era giunto alla conclusione di potersi fidare di lui. Una novità assoluta per Vander, poiché fidarsi delle persone, soprattutto di quei tempi, non faceva parte del suo essere. Sapere, che in qualche modo il generale era coinvolto in quella faccenda, lo aveva stranamente tranquillizzato, sebbene il suo cuore vibrasse ancora lievi sussulti di apprensione.

“Non hai ancora risposto alla mia domanda. Conosci la storia del drago di sangue?”, chiese il generale Naugir, mentre prendevano posto sopra una panchina di marmo, nei pressi di un albero di betulla.

Vander conosceva la storia. Riguardava inevitabilmente Moldar, l’elfo che tradì il suo stesso fratello per la conquista del reame elfico. La storia narra di quando Moldar, trovatosi col suo esercito quasi sterminato, riunì tutta la sua follia, per dare vita alla più grande magia che il mondo ricordi. Dal sangue disseminato lungo il campo, fece nascere un poderoso drago, che usò come arma per sopraffare l’esercito del fratello. E vinse. Ma la sua arma si dimostrò troppo potente perfino per il suo creatore, ed egli stesso alla fine perì sotto la sua forza. Fu così che il mondo conobbe un nemico indomabile, che non aveva altri sentimenti se non quello di nutrirsi del sangue delle sue vittime. Più uccideva e più diventava forte. Una magia terribile. Alla fine la creatura fu fermata, ma non uccisa. Secondo le leggende, Imshaark fece la sua comparsa sulla terra, imprigionandola con una delle sue catene. La trascinò nelle viscere della terra, e da allora nessuno seppe più niente di quella creatura.

“Si, la conosco”, disse Vander con un filo di voce. “In seguito alla caduta di Moldar, gli elfi che si unirono dalla sua parte furono esiliati dai reami degli elfi. Una condanna che valeva per loro e per tutti i loro discendenti”, Vander strinse forte i pugni per la rabbia. “Una condanna ingiusta”.

“E’ incredibile come gli elfi serbano rancore per questioni tanto vecchie. Quella guerra però, decretò la caduta del dominio del grande reame elfico su queste terre. Un’epoca si concluse con quel tradimento. È una questione difficile da accettare. Tuttavia, condivido la tua opinione. È una condanna ingiusta”, il generale poggiò la sua pesante mano sulla spalla di Vander per fissarlo negli occhi: “Ed è per questo che tu sei qui”.

“L’ascolto”, rispose Vander ricambiando lo sguardo del generale. Lo conosceva bene, e sapeva che quando si muoveva lo faceva per un motivo.

“Vander, mi conosci, e sai che mi piace andare dritto al punto. Dunque, non mi perderò in inutili chiacchiere.

Prima di spiegarti ogni cosa però, ritengo giusto confessarti le difficoltà che ho incontrato, nell’abbracciare una simile causa. Il mio onore di uomo e di soldato, mi impediva di ragionare secondo certi criteri. Ciò nonostante, sebbene controvoglia, alla fine ho deciso di fare marcia indietro e accettare gli ordini del nostro re.

Devi sapere che Ludorf, poc’anzi, si riferiva proprio al drago di sangue. Le catene del tempo si riferiscono al drago di sangue. La tua cicatrice” disse il generale picchiando con l’indice sul petto di Vander, “è legata al drago di sangue”. Il generale, fece una pausa, come a voler dosare con attenzione le sue parole: “Ci stiamo avvicinando ad una guerra, Vander. Un tempo, il nostro re avrebbe marciato in capo al suo esercito per difendere il suo regno, la spada alta per mostrare ai nemici la lama che li avrebbe sconfitti. Ma oggi sappiamo che ciò non servirebbe a niente, contro il nostro nemico. Poiché esso, usa armi che non trafiggono le carni con l’acciaio, ma con oscuri tranelli lontani dalla nostra comprensione.  La potenza dell’Oscuro è troppa, per uomini che impugnano solo una spada. Non possiamo vincere, non senza giocare le sue stesse carte. Capisci adesso in che direzione stiamo andando? Per poter sconfiggere il male, dobbiamo usare il male stesso”.

“E volete usare il drago di sangue”, disse Vander sorpreso e spaventato al tempo stesso. “E fuori da ogni logica. Quel drago uccise il suo cavaliere, uno dei guerrieri più forti che la storia ricordi. Come si può pensare di domare quella creatura?”, Vander scattò in piedi per l’agitazione.

“Salfirel…” il generale s’interruppe un momento prima di continuare: “ritiene possa dominare la sua mente”, le parole uscirono lente e vellutate, come se anche lui facesse fatica  crederlo.

“E lei si fida di quell’essere generale?”, chiese Vander.

“No. Ma non abbiamo alternative. Se non faremo niente, le nostre terre verranno invase dal Nemico, e non avremo comunque scampo. Non condivido questa scelta, ma ritengo di dover rischiare”. Il tono del generale Naugir, era fermo e incisivo, come di chi non ammetteva più discussioni sulla faccenda. Fissava Vander con sguardo impenetrabile, poi lentamente la tensione tra i due scemò rapidamente.

“Che cosa c’entro io, con questa storia?”, Vander sentiva di dover rompere quel silenzio insopportabile.

“Questo dipende da te”, disse il generale posando sulla panchina di marmo la tavola d’oro.

Vander si avvicinò di un passo alla panchina. Un vecchio istinto indagatore condusse la sua mano verso quella tavola, ma quando le sue dita sfiorarono la superficie liscia del freddo oro, una piccola scossa attraversò la sua mano. Vander la ritrasse immediatamente. “Che cos’è?”, disse.

“E’ la risposta alle tue domande”, rispose il generale Naugir, estraendo un pugnale. “Dammi la tua mano” disse. “Fidati di me”, aggiunse di fronte alla sua esitazione.

Vander protese riluttante la sua mano verso il generale, ed egli fece un piccolo taglio sulla punta del dito di Vander.

Una piccola goccia di sangue cadde sulla tavola. Inizialmente non accadde nulla, poi lentamente la goccia si diradò, fino a formare numerose linee rosse, che s’intrecciavano fra loro lungo tutta la superficie della tavola d’oro, a formare delle frasi. Alla fine, sulla tavola si formò la seguente scritta:

Io Vander Nobilorn, membro del reame degli elfi silvani della terra di Lhannor, nonché diretto discendente del re Lavaron,

accetto

in base alla legge n337/d/1227, approvata dal consiglio reale della città di Toomfast, il giorno 12 gennaio dell’anno 2422,

la candidatura a ricoprire il posto di unico e solo cavaliere del drago di sangue.

Firma

Vander, che non riusciva a credere a ciò che aveva letto, alzò lo sguardo ad incrociare quello del generale: “Questo non ha senso”.

“Forse no; ma chi può dirlo”, disse il generale Naugir, come preso da una nuova carica di energia. “Alla fine, ho accettato la decisione del re, ma non senza le mie condizioni. Salfirel aveva libero arbitrio, ma io avrei scelto il nome del cavaliere. E io”, disse il generale Naugir afferrando con forza il braccio di Vander, “ho scelto te. All’inizio si è dimostrato riluttante, ma poi ha accettato la mia condizione. Così, per assicurarmi che tutto avvenisse come stabilito, ho chiesto a Ludorf di creare questa tavola”.

Ludorf, chiamato in causa, si avvicinò febbricitante, come un artista impaziente che non vede l’ora di mostrare al mondo la sua ultima creazione. “Contiene una formula molto antica”, disse sfiorando delicatamente la superficie della tavola. “Dovete sapere che pochi al giorno d’oggi riescono a crearne una che abbia la stessa efficacia. Anche questa è una magia che si sta perdendo, purtroppo. Comunque, quello che serve a te sapere oggi, è che questa tavola rappresenta il legame tra te e il drago di sangue. È una procedura troppo antica e complicata da spiegare, ma dal momento in cui firmerai questa tavola, sarai legato indissolubilmente a quella creatura. Tu sarai il solo e unico che accetterà come cavaliere”. Ludorf sembrava molto soddisfatto della breve e semplice spiegazione.

“Questa è stata la mia unica richiesta. Che fossi solo ed unicamente tu, il suo cavaliere”, concluse il generale.

“Perché proprio io?”.

“Perché a differenza di quanto pensano in molti, hai un cuore forte e sincero. Confidiamo nel fatto che se quella creatura venisse legata ad un cuore buono, possa essere meno pericolosa. Tuttavia”, il tono del generale divenne cupo, “è solo una tenue speranza. Non c’è nessuna garanzia. Mi rendo conto del grande pericolo che ti sto mettendo davanti, ma sento che solo tu puoi farcela”.

“Perché non lei?”, chiese Vander.

“No… assolutamente. Il mio animo è colmo di rabbia. Non sarei mai in grado di portare a termine questo compito”.

“E se si sbaglia? Se non fossi all’altezza? Anch’io sono pieni di risentimenti, generale”, obiettò Vander.

“Ma il tuo cuore non ha conosciuto la corruzione del male. Vander, sei il solo che io conosca che può aiutarmi in questa guerra. Se non avrò te al mio fianco, non saprò di chi fidarmi”.

Vander fu sorpreso da quelle parole. Conosceva il generale da molto tempo, eppure solo adesso scopriva che provava per lui un grande rispetto. In qualche modo, ne fu onorato.

Vander guardò la tavola d’oro, con le frasi rosse incise col suo sangue. “Salfirel, diceva che mi stava dando la possibilità di redimere sia me, che tutta la mia razza. Dunque è questo che intendeva? Usare lo stesso drago che sterminò migliaia di elfi, per difendere il mondo dalla minaccia dell’Oscuro Signore. Sembra una pazzia”.

“Forse il mondo ha bisogno di una pazzia, mio giovane amico”, disse Ludorf con tono mite.

“Mi chiedo se ne sarei capace”, disse Vander guardando il generale, con occhi colmi di apprensione, il respiro lento e ritmato. Il generale ricambiava il suo sguardo, con due occhi vivi e penetranti: “Io dico di si. Non ti rendi conto della tua forza, Vander. Ma presto capirai che avevo ragione”.

“E se mi rifiutassi?”.

Il generale distese il viso in un accenno di sorriso: “Vander, non sei obbligato ad accettare. Il tuo corpo espellerà l’amuleto, e tu, tornerai alla vita da rinnegato. In ogni caso, non devi decidere adesso”. Detto questo, il generale si allontanò lasciando Vander ai suoi pensieri.

Vander, dal canto suo fissava la tavola, in balia dei dubbi che affliggevano il suo cuore in quel momento. Ora aveva finalmente chiaro cosa stava accadendo, e si rese conto che il mondo stava per conoscere grandi avvenimenti. Se chiese se davvero ne volesse far parte. Fu sorpreso di conoscere già la risposta.

“Generale” disse Vander, alzando la testa dalla tavola. Fissava il generale Naugir, il volto disteso in un ghigno: “Non so cosa accadrà, ma ha ragione. Sono l’unico che può riuscirci”. Vander tornò a fissare la tavola d’oro, e premendo sulla ferita aperta, fece colare sulla tavola alcune gocce di sangue. Con il dito ancora sanguinante, impresse il suo nome sulla tavola. Quando finì di scrivere l’ultima lettera di sangue, un fuoco rosso avvolse il suo nome , e la scritta penetrò nella tavola, come se uno scultore invisibile stesse martellando il suo nome in quell’istante. Un attimo dopo la tavola si lesionò in più parti, per poi sgretolarsi in minuscoli granelli di polvere dorata.

Vander tornò a guardare il generale, che nel frattempo si era avvicinato di nuovo: “Che cosa accadrà adesso?”, con sorpresa scoprì di non avere paura.

“Avrà inizio una nuova era, per il mondo intero”, disse il generale, con un tono solenne.

“Ehi Fred, a chi pensi che toccherà stavolta?”, gracchiò un uomo, mentre staccava un coscia di pollo per addentarla voracemente.

“Spero che sia il tuo turno, così rimarrà un po’ di cibo per tutti gli altri”, rispose Fred, seduto al tavolo di fronte. Prese una bottiglia di vino e ne trasse una lunga sorsata.

“E’ ancora presto. Io sono stato convocato solo l’altra sera. Non credo che arriverà il mio turno prima di domani mattina”, rispose l’uomo.

“Visto che sai tutte queste cose, perché non spieghi anche a me come mai il re si è fatto tanto generoso con i suoi soldati”, disse Fred.

“Lo sanno tutti che è per la faccenda del drago di sangue”, disse l’uomo con noncuranza. “Ci vogliono forti e pieni di energia”.

“Questo è risaputo. Ma poi? Che cosa sappiamo in realtà di questa storia?”, disse Fred, avvicinandosi al bordo del tavolo per colmare la distanza dal suo amico: “Ti sei mai chiesto in che modo avverrà?”.

“Non lo so. Ma dicono che sia molto doloroso. Comunque sia vecchio scemo, credo che lo scopriremo presto”, l’uomo tornò ad ingozzarsi con la sua coscia di pollo, e a rivolgersi ad altri compagni.

Vander distolse l’attenzione dai due uomini, quando iniziarono a deridersi a vicenda. Fissava il suo piatto pieno zeppo di patate arrosto. Si trovava in una sala della città di Toomfast, dove centinaia di uomini mangiavano e bevevano in allegria. Occupavano ogni singolo posto dei numerosi tavoli disposti perfettamente in linea per impiegare ogni singolo anfratto della stanza. Era un ambiente molto largo, il pavimento e le pareti erano di pietra, e delle numerose fiaccole appese ai muri illuminavano la stanza. Dei deboli raggi di luce penetravano dalle inferriate rasenti al soffitto.

L’atmosfera era gioviale, i tavoli assortiti di ogni delizia; cacciagione arrosto, lunghi filoni di pane appena sfornato, vassoi pieni di numerose varietà di formaggi; patate, funghi cucinati nelle maniere più varie; numerose torte di mele, lamponi, ciliegie, arricchivano ulteriormente le tavolate. Le pietanze erano varie e numerose, degne di un banchetto reale.

Eppure, quell’atmosfera apparentemente festosa, le tavole grondanti di cibo, non erano altro che ingranaggi silenziosi, per un’articolata strategia di guerra. Questo, Vander lo sapeva. Durante le sette ore che si trovava lì, non aveva fatto altro che ripensare agli ultimi due anni vissuti a Toomfast. Perché questo, era il tempo trascorso da quando firmò la tavola d’oro.

Da quel giorno, Vander divenne membro ufficiale dell’esercito di Toomfast. Smise di compiere missioni come mercenario, per seguire un vero addestramento militare. Le sue incredibili abilità in combattimento, lo portarono nel giro di un anno a conseguire numerosi successi sui campi di battaglia. Una fama che non aveva cercato, ma che arrivò inevitabilmente, scatenando l’invidia di molti militari che da prima di lui l’avevano inseguita, senza mai raggiungerla.

Ma come il generale Naugir gli aveva confidato, il suo ruolo nell’esercito di Toomfast, aveva un peso differente da chiunque altro. Sapeva che egli era legato al drago di sangue, e del suo futuro destino da cavaliere del drago, ma non gli era mai stato rivelato come ciò sarebbe accaduto. Ma da quando era in quella stanza, sapeva che quel momento era finalmente vicino.

I suoi pensieri, furono interrotti dal rumore dei pesanti chiavistelli che scorrevano nelle guide. La possente serratura fece un sonoro schiocco e la porta di legno massiccio si aprì… di nuovo. Il primo ad entrare fu il generale Naugir. Dietro di lui, altri dieci soldati entrarono nella stanza, disponendosi ai lati del generale.

Naugir si appoggiò al piccolo balcone troneggiando sull’intera sala. Come diretto da un unico comando, il chiasso della sala cessò di colpo. Tutti conoscevano il motivo della sua presenza, e tutti attendevano una sua parola. Il generale Naugir, fissava attentamente i tavoli dei suoi uomini.

“Cinque posti si sono liberati. Chi di voi si offre per occuparne il posto?”, disse il generale con il suo solito vigore.

Dal fondo della sala una bottiglia di vino si alzò, seguita da una voce rauca: “Tobran è pronto mio signore”, disse un uomo corpulento. Attraversò l’immensa sala, per nulla intimorito dalla dura prova che sapeva attenderlo. Delle pacche d’incoraggiamento e applausi si levarono al suo passaggio, che ricambiava bevendo grandi sorsate di vino e alzando la bottiglia in segno di saluto.

Quando arrivò al cospetto del generale Naugir, lo guardò fisso in volto. Bevve un ultimo sorso di vino, e lanciò la bottiglia a terra: “Ho bevuto abbastanza per compiere il mio dovere, signore”, disse mentre dei rivoli di vino solcavano la sua ispida barba rossa. Si asciugò il viso con il dorso della mano.

Il generale Naugir ricambiò il suo sguardo, con un ghigno di soddisfazione sul volto. Era orgoglioso della tempra dimostrata dal suo soldato. Poi i suoi occhi si posarono di nuovo sulla sala. “Chi altro?” urlò ancora. Nella sala echeggiò il suo intenso tono di voce.

Altri due uomini risposero al comando di Naugir, ma senza la spavalderia di Tobran.  Si disposero di fianco a Tobran, che non mancò di farsi una sonora risata, dando pacche d’incoraggiamento ai due soldati.

“Nessun altro?”, urlò ancora Naugir.

Questa volta nessun soldato rispose al suo comando. Gli occhi scuri del generale, solcarono attentamente la sala. Come sempre lasciava a loro il compito di decidere. Se un soldato si sentiva di offrirsi volontario era giusto dargli la precedenza, ma quando non accadeva spettava a lui stabilire a chi sarebbe toccato. I suoi occhi vagavano sicuri su ogni soldato. Era un duro compito che Naugir aveva deciso di accettare, poiché in virtù della sua enorme esperienza in campo militare, sapeva riconoscere chi aveva le potenzialità per resistere alla prova meglio di un altro.

Alla fine i suoi occhi trovarono il suo obiettivo: “Sergente, terza fila, il secondo da destra”, disse e immediatamente tre soldati scesero le scale per immergersi nella sala.

Il soldato chiamato in causa fece resistenza. Accadeva che un soldato non si sentisse pronto. In realtà nessuno di loro conosceva con precisione in cosa consisteva il compito che erano stati chiamati a svolgere, ma in quanto soldati non si potevano rifiutare. Ciò che sapevano, era che doveva trattarsi di una prova terribile, che metteva a dura prova la resistenza di una persona fino allo sfinimento. Non era mancato chi ci aveva rimesso addirittura le penne.

“Non sono ancora pronto. Chiamate qualcun altro. La prossima volta… la prossima verrò io”, continuava a implorare l’uomo, ma i soldati lo trascinarono a forza vicino agli altri tre, intimandogli di fare silenzio. Il generale Naugir fissava il soldato con occhi impenetrabili, che non tradivano il disprezzo che provava per un soldato così codardo. Tobran, il volto paonazzo dal troppo vino, non mancò di dargli delle sonore pacche d’incoraggiamento, come era suo solito ormai, spinto da un’euforia che sembrava concepire soltanto lui.

Ora ne mancava solo uno. Il generale Naugir squadrò di nuovo la sala. Questa volta però, ad alzarsi fu Vander. I lunghi capelli argentei gli cadevano ribelli lungo le spalle, coprendo le sue orecchie a punta. Il volto solcato da una barba di pochi giorni. Indossava abiti logori, ma emanava un’aura tranquilla, rassicurante. Percorreva con calma e sicurezza i tavoli, incurante dei volti che lo fissavano. Sapeva che in mezzo a loro c’era chi lo stava ringraziando in silenzio per essersi alzato, chi invidiava il suo coraggio, chi invece sperava vivamente che fosse giunto il tramonto della sua gloria battagliera. Si fermò dinanzi al generale, che lo fissava dall’alto in basso.

“Sei sicuro? Non è ancora giunto il momento”, disse il generale Naugir, con un tono che non tradiva alcuna emozione.

“Quanto sangue deve essere ancora versato, prima che finisca?”, il tono di Vander, era altresì sicuro e deciso.

Il generale distese le labbra in un ghigno: “Poco ormai. Il cerimoniale è quasi pronto”.

“Allora sarò io il quinto”, esclamò Vander.

“Come preferisci”, concluse il generale. Prima di uscire, lasciò ai soldati il compito di scortare gli uomini fuori della sala. Li disposero nel corridoio in fila, e li legarono con delle pesanti catene.

“Ci siamo offerti volontari, a cosa servono le catene?”, chiese uno di loro.

Il soldato ghignò: “Per quando vi pentirete della vostra scelta. E vorrete solo scappare”.

“Non c’è volta in cui Tobran si sia pentito di una scelta, mano moscia”, disse Tobran puntando un dito feroce contro il soldato. Il tintinnio delle catene echeggiò nel corridoio freddo e silenzioso.

Quando tutti furono legati, si avviarono verso l’uscita, alla scoperta del loro destino. Tobran conduceva il gruppo al ritmo stonato delle sue canzoni e della sua stramba andatura, incoraggiando tutti ad affrontare il loro fato senza timori.

Quando la porta di legno si richiuse, come se niente fosse, tutti gli altri ripresero il loro banchetto, alimentato dal miglior cibo e vino che il regno potesse offrire, felici che non fosse toccato a loro. Perché in quel tempo, in quella stanza, solo per brindare e mangiare allegramente ci voleva un grande coraggio.

***

Un boato assordante di urla e stridore di metallo contro metallo fece rizzare i peli della nuca di Galfred, mentre stava passando una fune intorno al collo della sua capra. Si voltò con un enorme peso sul cuore verso la direzione del frastuono, come a voler penetrare il folto degli alberi con la forza della mente, per vedere da dove provenisse tutto quel chiasso. Delle pesanti nuvole scure che si addensavano all’orizzonte, appesantirono ulteriormente il suo cuore.

Il giorno precedente, durante il pascolo, un tuono aveva spaventato il suo gregge, facendo scappare gli animali. Alcune capre si erano allontanate troppo, costringendo Galfred e il suo fedele amico Larcon, ad un’escursione per recuperarle. Dopo aver sistemato le capre trovate nei dintorni, insieme all’immancabile cane Rash, si erano imbarcati in piena sera per cercare le restanti prima che finissero preda di qualche lupo.

Non si resero conto di quanto si fossero allontanati, fino a che non trovarono un cumulo di corpi bruciati, dove gli ultimi esili fili di fumo donavano all’ambiente un tanfo acre e nauseabondo. Non si capiva bene se appartenessero ad uomini, ad animali o chissà quale bestia, ma quella vista bastò a fargli decidere di tornarsene a casa, abbandonando al loro destino quelle stupide capre. Ma Rash aveva abbaiato forte, segno che erano nelle vicinanze. Con un profondo sforzo di volontà, decisero di proseguire ancora per un po’.

Galfred era un uomo tarchiato, sulla quarantina, e una scura barba gli copriva il volto paffuto. Due piccoli occhi grigi facevano capolino ai lati del naso a tartufo. Larcon invece era alto, smunto e una livrea di capelli lunghi e ispidi gli donava un aspetto selvaggio. Un poderoso naso ornava i lineamenti appuntiti del volto. Aveva un’andatura curva tanto che, delle volte, dava l’impressione di essere un avvoltoio che scrutava il terreno. A differenza di Galfred, possedeva un’indole per il mistero e l’avventura.

Erano arrivati sul limitare di un’antica foresta a est delle sue terre. Lo spirito avventuriero di Larcon, lo esaltava non poco all’idea di addentrarsi nelle viscere di quei boschi. Galfred invece, era di tutt’altro avviso. Ogni passo era un’imprecazione contro quegli stupidi animali, e contro se stesso per essersi spinto fin laggiù. Se non aveva perso la bussola, quella doveva essere la foresta di “Cepposecco”, e non una volta aveva assistito, nella calda sala di una locanda, alle storie che si narravano di quei luoghi. Non era tanto pericolosa la foresta in sé, sentiva dire di continuo, ma ciò che vi si nascondeva dopo. Gli sembrava di udire ancora le parole del vecchio Manrol come se fosse ad un palmo dal suo naso: “Quella foresta è un campanello d’allarme per i viandanti sfortunati. Rappresenta il confine tra il mondo degli uomini e quello dell’oscurità. Chi la attraversa, è perduto”, diceva il vecchio accentuando la frase con un sonoro gesto di tagliarsi la gola. Ripensava a quei momenti, e a tutte le volte che ripeteva a se stesso che mai avrebbe osato spingersi fin laggiù. Lanciò ancora un’imprecazione.

“Vedila così. Vedremo se tutte quelle panzane che dicono su questo luogo sono vere”, lo incoraggiò Larcon. Aveva un cuore più sereno, e nell’animo più coraggio. O forse era semplicemente un incosciente senza cervello, come sentenziò Galfred.

Finalmente legò l’ultimo nodo delle sue capre, e si guardò intorno: “Dove diavolo si sarà cacciato quel vecchio scemo di Lar”, pensò, imprecando ancora silenziosamente. Non osava urlare per chiamarlo, ma non riusciva nemmeno a stare fermo in quella piccola radura ad aspettare il suo arrivo. Larcon si era allontanato pochi minuti prima, insieme a Rash in cerca dell’ultima capra. Il cane si era messo ad abbaiare improvvisamente, fiutando l’animale, e pochi istanti dopo Larcon era sparito tra gli alberi, rassicurando l’amico che sarebbe tornato presto. Un improvviso timore s’impadronì di lui: “E se gli fosse successo qualcosa? E se non tornerà?”. Sentì che riusciva a contenere a stento la paura, come se una forza invisibile all’interno del suo corpo si stesse gonfiando a dismisura per esplodere da un momento all’altro. Doveva essere tardo pomeriggio, ma le pesanti nubi non permettevano ai raggi del sole di penetrare, donando all’ambiente una semioscurità che rendeva il paesaggio più tetro di quanto fosse in realtà. In lontananza, l’eco dei tamburi insieme ad altri sordi rumori di varia natura, si diffondevano tra gli alberi come un sussurro malefico.

La sua capra iniziò a mordere la manica della sua maglia, e questo servì almeno per un momento a distoglierlo dai suoi pensieri.

Una mezz’ora più tardi, Larcon sbucò dagli alberi; in braccio un piccolo capretto e Rash che abbaiava e scodinzolava soddisfatto per il lavoro concluso. Galfred fu felice di costatare che il suo vecchio amico stesse bene, e che tutti i suoi timori erano solo frutto della sua fantasia.

“Credo che ci sia un esercito appostato nei paraggi”, disse Larcon entusiasta. Diversamente da Larcon, aveva un sorriso radioso.

“Qualunque cosa sia, non m’interessa. Dammi questo piccolo scocciatore e andiamocene da questo stramaledetto posto”, disse Galfred, prendendo il piccolo capretto e legandolo agli altri animali.

“Questo piccolo birbante si è spaventato a morte, quando ha sentito quei boati, e mi ha fatto sudare sette camice per acchiapparlo”, disse Larcon, spazzolando la testa del capretto.

Galfred capiva benissimo l’animale: “Chi non si spaventerebbe a udire un simile frastuono”, pensò, ma sapeva già la risposta. Larcon lo guardava con uno sguardo che preoccupò terribilmente Galfred.

“Galfred, potrebbe essere l’unica occasione di vedere un esercito in movimento. Deve essere uno spettacolo eccezionale”.

Galfred lo guardò torvo: “Hai idea di dove siamo? Conosci cosa si racconta di queste terre? Degli esseri che girano da queste parti? Orchi, spettri, bestie feroci. Io non voglio averci nulla a che fare”.

In quel momento un nuovo boato, accompagnato da un forte rombo di tamburi echeggiò lugubre nell’aria. Per poco le capre non scapparono di nuovo. Rash iniziò ad abbaiare forte, scrutandosi intorno come in cerca di qualcosa.

“Larcon stammi a sentire bene. Io non rimarrò un secondo di più in queste terre maledette. A casa ho una moglie e dei figli che mi aspettano, e non voglio finire nella pancia di qualche strano essere. Lega il cane e andiamocene, se vuoi venire con me. Altrimenti parto da solo. Non ho voglia di assecondare le tue stupidaggini”.

Larcon, con spirito di rassegnazione, prese una catena per legare Rash. Ma non fu facile, poiché il cane continuava ad agitarsi e ad abbaiare verso un punto non definito.

“Buono piccolo, buono”, cercò di rassicuralo Larcon, ma non c’era niente da fare. Sembrava irrequieto, come se qualcosa lo agitasse tanto da non fargli pensare ad altro.

Mentre cercava di assicurare la corda intorno al collo del cane, per evitare che si strozzasse, Rash, si divincolò graffiando con la zampa la mano del  padrone quel tanto che bastava per fargli allentare la presa e fuggire via verso il suo obiettivo. La catena ancora attaccata al collare, lasciava un solco nel terreno.

“Rash, vieni qua”, urlò Larcon, mentre un rivolo di sangue gli colava lungo le dita della mano. Usò uno straccio per tamponare la ferita. “Io vado a recuperarlo, non lo lascerò da solo in questa foresta. Tu parti, e non ci aspettare”, disse, e senza attendere risposta, iniziò a correre dietro a Rash scomparendo di nuovo nel fitto della vegetazione.

Galfred imprecò per la piega che avevano preso gli eventi.

***

Il carro che trasportava i cinque uomini incatenati si fermò bruscamente. Scesero curiosi di conoscere la loro destinazione. Si trovavano in un’ampia vallata circondata da un’immensa catena montuosa che si estendeva per chilometri lungo il versante ovest, mentre ad est era protetta dall’ansa del fiume Tranig, il più importante dell’impero. Il cielo era plumbeo. Un solitario raggio di sole cercava timidamente di farsi spazio tra le pesanti nubi, per poi arrendersi alla mole dei nembi. Sopra un’immensa propaggine, dominava la vallata un’enorme costruzione in pietra nera. Le mura colossali, erano lunghe diverse centinaia di metri, e alte almeno trenta. Quattro torri svettavano agli angoli delle mura. Dei sinistri orifiamma neri come la notte più scura penzolavano lungo tutto il perimetro del cornicione, danzando irrequieti alla brezza del vento. Ricoprivano tutta la parte superiore delle mura, lasciando scoperta l’altra metà. Vi era un enorme portone principale con sopra uno stendardo dove una possente testa di drago rosso come il sangue, dipinta su uno sfondo nero, scrutava con indomita cattiveria chiunque osasse varcarlo.

I cinque prigionieri, scortati da altrettanti soldati si avviarono verso il portone attraverso un sentiero che serpeggiava tra le numerose tende disposte intorno alla fortezza. La valle era affollata da numerosi guerrieri che sembravano prepararsi ad un’imminente battaglia. Vide un nano scagliare la sua ascia con incredibile precisione verso un palo di legno posto a decine di metri di distanza; altri uomini curavano le proprie armi con instancabile attenzione, altri ancora si esercitavano a migliorare le proprie tecniche di combattimento. C’era anche chi si dilettava in gustosi manicaretti. Forse, il loro compito era quello di vegliare su quella fortezza, pensò Vander. Percorrendo la strada che portava al cancello, notò che tutti avevano il corpo dilaniato da cicatrici uniformi. Solcavano i loro corpi in maniera troppo lineare per essere dei cimeli di antiche battaglie. Sembrava più che fossero state inflitte volutamente. In quel momento vi dovevano essere almeno trecento soldati, tutti con le stesse cicatrici d’uguale misura e lunghezza. Un nano che stava affilando la sua ascia, alzò il capo verso i cinque uomini, mentre gli passavano accanto. “Vuole sapere chi è stato tanto stolto da arrivare fino a questo punto”, pensò Vander, o magari erano solo attratti dalla sua figura. Da più di un anno, da quando quel rituale aveva avuto inizio, si erano visti uomini, e nani, ma mai un elfo si era avvicinato ad un simile rito. Ma per Vander quel discorso non valeva. Lui non apparteneva al suo popolo da molto tempo ormai.

Quando furono in procinto del portone la testa del drago li scrutò con molta attenzione. Vander notò che era un’immagine inquietante. I profondi occhi gialli ricambiavano il suo sguardo con una determinatezza che lo colpì. I dettagli delle sue squame, ornate ai bordi da piccole gocce rapprese dovute alla cicatrizzazione del sangue, i particolari con cui ogni singolo aspetto di quel viso serpentino erano stati raffigurati, erano straordinari. Sentì un moto di soggezione nei confronti di quella figura, come se a guardarlo fosse il drago in “sangue e ossa”. Si complimentò con l’ignara mano che aveva tratteggiato quei lineamenti perfetti, ammesso che quella, fosse opera di un uomo. Conferivano alla splendida creatura tutta la potenza che le leggende raccontavano sul suo conto.

Sentì le catene che lo trascinavano all’interno della fortezza, e suo malgrado dovette distogliere lo sguardo da quella splendida immagine.

Il possente portone si chiuse alle sue spalle con un sonoro schiocco. Attraversarono uno stretto corridoio di pietra, per sbucare in una sala dove c’erano numerosi tavoli. Si sedettero su una lunga panca di legno e aspettarono. Successivamente furono separati. Vide due suoi compagni che tremavano silenziosamente, in attesa del loro momento. Tobran invece serbava sempre il suo spirito di coraggio, entusiasta del momento che stava per affrontare. Come molti, voleva esserci in quel momento, partecipare agli eventi da protagonista, per poter raccontare un giorno, se il destino glielo avrebbe permesso, che il suo indomito cuore di guerriero non si era inchinato al volere della paura. In quale modo nessuno poteva dirlo esattamente, ma di qualunque cosa si trattasse, erano sicuri che sarebbe stato qualcosa di terribile.

***

Le pesanti nubi grigie stavano lentamente coprendo la foresta, immergendola in un’atmosfera tetra e lugubre. Era giorno, e da qualche parte il sole brillava in tutta la sua splendida luce, ma Larcon in quel momento non vedeva altro che le chiome degli enormi alberi che si univano tra loro, come le mani di un’enorme gigante che si raccoglievano in preghiera. Ancora più in alto, le scuri nubi vigilavano minacciose. Era bravo a seguire le tracce, perciò riusciva a stare dietro a Rash. Ma doveva trovarlo presto. Si stava inoltrando troppo nel cuore della foresta, e rischiava di perdersi e di vagare per sempre in quel posto infausto. Un lungo brivido gli attraversò la schiena all’idea.

Il pesante urlo di guerra echeggiò di nuovo nell’aria. Stavolta sembrava più forte, anche se per fortuna o sfortuna, doveva ancora deciderlo, distava ancora alcune leghe, a meno che il suo udito non gli facesse un brutto scherzo. Oramai non contava più il tempo. Era sicuramente più di un’ora che aveva abbandonato Galfred per inseguire Rash. Al pensiero del suo amico gli venne un groppo allo stomaco. Si chiese se era restato ad aspettarlo, oppure se avesse preso la via del ritorno abbandonandolo al suo destino. Iniziò a credere che dopotutto, non fosse stata una grande idea. Forse aveva agito impulsivamente, come suo solito, senza pensare alle conseguenze. Ma adorava Rash, per lui era più che un cane da compagnia. Era un amico fedele, uno di famiglia, con il quale aveva condiviso tanto nei sette anni che avevano vissuto assieme.

Quando i tamburi non suonavano, si accorse che un silenzio innaturale dominava quei luoghi angusti. L’aria permeava solo dei rumori del suo procedere, che svanivano nel cuore della boscaglia come un’onda che si perdeva lentamente nel mare.

I suoi pensieri furono interrotti da un suono familiare. Sentì alcuni rantoli, che era sicuro appartenessero a Rash. Era stanco, ma iniziò a cercare con rinnovato vigore, chiamandolo a gran voce. Sentì un debole latrato rispondere alle sue chiamate. Lo trovò accucciato a ridosso di un tronco, dove la catena del guinzaglio si era incastrata ad un ramo. Lo liberò, e Rash ringraziò il suo padrone, saltandogli addosso per leccargli la faccia.

“Torniamo a casa adesso”, disse Larcon mentre accarezzava forte Rash, felicissimo di averlo ritrovato.

Un boato di straordinaria potenza permeò di nuovo l’aria del suo macabro suono. Questa volta, sembrava spaventosamente vicino. E un antico, insano istinto di curiosità, si riaccese nel cuore di Larcon.

“Oramai sono arrivato fin qui. Tanto vale proseguire ancora un po’” pensò, e stavolta tenendo ben saldo il guinzaglio di Rash, proseguì nel cuore della foresta, come richiamato da una forza oscura e ipnotica. Spirali di nebbia iniziarono ad arrampicarsi lungo le falde dei colli. Le fronde degli alberi danzavano sospinti da un leggero venticello. Seguiva un piccolo sentiero erboso che serpeggiava tra gli alberi, che si andavano distanziando tra loro. Una stella solitaria fece capolino tra la coltre di nubi, per poi scomparire di nuovo. I rumori divennero sempre più forti. Il sentiero lo portò presso la sommità di un colle, che si ergeva sulla grande vallata. Era circondata al lato est dai boschi, mentre ad ovest si apriva uno strapiombo dove alberi maestosi si erano tagliati con forza il loro posto. Un grande fiume tagliava il paesaggio a metà, come  a voler separare due mondi. Più in là si ergeva maestosa una montagna nera come la notte, che sbucava dal terreno come un pugnale affilato puntato verso il cielo. Il suo cuore divenne di ghiaccio. Quella era la montagna di Urthan, un oscuro e antico relitto dimora degli esseri che servivano le forze oscure. Aveva sentito mille volte parlare di quelle terre, e mai nella sua vita aveva creduto che si sarebbe spinto fin laggiù.

A pochi chilometri di distanza da lui, un manipolo di soldati –o forse mostri, non riusciva a distinguere nell’oscurità- si era accampato per la notte. Sembrava che fossero in corso dei festeggiamenti. Il rombo dei tamburi ora echeggiava chiaro e forte nell’aria tetra di quelle pianure. Numerose fiaccole erano accese per diverse leghe, e Larcon capì che il numero era considerevole, ma non riusciva a quantificarlo. Poi vide dei fuochi che comparivano improvvisamente nell’oscurità, come richiamati da un antico potere, per poi spegnersi diversi metri più avanti, esibendosi in una spettacolare scia di luce. Questo avveniva ad intermittenza lungo tutto il perimetro del campo. Due fiamme incrociarono la loro strada per crearne una ancora più grande. Poi notò i lineamenti di grosse sagome che si muovevano in prossimità dei fuochi. Larcon aguzzò gli occhi, per cercare di perforare l’oscurità. Poi, una scia di fuoco gli mostrò la risposta. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, lo avrebbe scambiato per un essere millenario immortalato per sempre in una posa di stupore, meraviglia, paura e gioia.

“Draghi! Quelli sono Draghi”. Ce n’erano almeno cinque. Gli ci volle un po’, ma quando mise da parte l’entusiasmo della scoperta, i suoi pensieri tornarono prepotentemente.

Era chiaro che era un esercito pronto per una battaglia. Ma per andare dove? Eppure non aveva mai avvertito sentori di una possibile guerra. O magari era un attacco a sorpresa per un’invasione? Chi poteva dirlo. Si chiese se avesse il dovere di avvertire l’esercito del re per quella scoperta.

I suoi pensieri furono interrotti dal cupo ringhio di Rash. Digrignava i denti, e puntava il suo sguardo ad ovest. Iniziò ad abbaiare più forte, e ad agitarsi come la volta precedente. Larcon impugnò la fune con maggiore forza, tentando di calmarlo. Poi udì un improvviso rumore di zoccoli. Spaventosamente vicino. Ebbe come la sensazione che il suo cuore avesse improvvisamente smesso di battere. Lo zoccolio di cavalli al galoppo risuonò nella sua testa più forte del rombo dei tamburi. Istintivamente si ritrasse dietro un albero, sperando di non essere stato troppo lento. Il fragore degli zoccoli sembrava avvicinarsi con rapidità disumana.  “Chiunque cavalcasse una strada tanto tortuosa con una simile velocità, non doveva essere di questo mondo”, pensò. Aspettò, la fronte imperlata di sudore.

Con uno strepitio assordante, decine di creature magnifiche, che Larcon aveva sentito nominare solo nelle leggende, sfrecciarono lungo il sentiero a pochi metri dal suo naso. Erano magnifiche. Metà cavallo, e metà uomini. Rash abbaiò forte al loro passaggio. Larcon cercò di tranquillizzarlo, per impedire che li notassero, ma troppo tardi. L’ultima creatura del gruppo arrestò improvvisamente la sua corsa, e si voltò verso di loro.

Larcon rimase impietrito, incapace persino di scappare, quando iniziò a risalire con velocità maestosa il pendio che li separava. I poderosi muscoli si gonfiavano per lo sforzo della salita. Larcon cadde riverso a terra, mentre cercava di indietreggiare al suo arrivo. Quando il centauro arrivò in cima, svettava in tutta la bellezza selvaggia e possente mole su Larcon disteso a terra, e Rash che abbaiava forte senza timore. Era un esemplare magnifico. Alto più di due metri, i lunghi capelli argentei che ricadevano copiosi lungo la schiena dritta e possente. Il busto nudo mostrava i massicci muscoli della creatura. Delle profonde venature che sembravano voler uscire fuori dalla pelle a forza, gli ornavano gli occhi vitrei e freddi.

Il centauro fissò Larcon intensamente. Poi il suo sguardo si posò su Rash, che smise improvvisamente di abbaiare come ipnotizzato dal piglio magnetico della creatura. I suoi occhi fissavano quelli del centauro come se una forza antica e misteriosa avesse stretto un legame impossibile da contrastare. Sembrava che fosse in atto una conversazione silenziosa. Larcon era troppo spaventato per capire cosa stava succedendo. Improvvisamente però, Rash digrignò i denti e si posizionò tra lui e Larcon.

Il centauro sbottò in un ghigno malvagio, mostrando una schiera di denti aguzzi. I suoi occhi di ghiaccio, si spostarono lentamente verso Larcon. Rash ringhiò ancora più forte.

“Vrael”, una voce tuonò come un lampo a ciel sereno. Fredda e tagliente.

Il possente centauro si voltò improvvisamente verso la strada maestra. Larcon guardò in basso, e vide un altro centauro fermo sulla strada che fissava dalla loro parte. Non poteva dirlo con certezza, ma sembrava più imponente. Aveva una capigliatura scura. Sembrò avvenire un’altra conversazione silente. Vrael sbatté gli zoccoli a terra, in preda a delle imprecazioni in una lingua arcana che Larcon non comprendeva. Il centauro s’impennò sulle zampe posteriori prima di scendere velocemente il pendio, e riprendere il loro cammino. Le due creature scomparirono inghiottiti dalla curva del sentiero, diretti ad est.

Larcon fece un gran sospiro e si distese completamente a terra: “Non mi crederanno mai”, pensò.

Ma Rash, invece non sembrava voler perdere tempo. Si voltò verso il suo padrone, e lo stimolò ad alzarsi in tutti i modi. Poi iniziò a tirare la fune che Larcon teneva ancora stretta in mano. Evidentemente Rash, in seguito al contatto telepatico con il centauro, aveva assaporato le oscure sensazioni che brulicavano nel suo animo severo, e comprendeva cose che Larcon ignorava. Cose che lo spaventavano inesorabilmente, e gli intimavano di allontanarsi il più presto possibile da quei luoghi e di non farvi mai più ritorno.

***

Vander attendeva il suo “turno” seduto sulla panca di legno. Indossava solo un paio di pantaloncini. Sul petto era visibile la cicatrice a spirale, raffigurante lo strano amuleto marchiato a fuoco sulla sua pelle. Tutti gli altri erano già oltre la porta di ferro massiccio. Una guardia entrò, per portarlo verso il suo destino. Arrivò in una stanza enorme, completamente vuota. Sul fondo della stanza, un’ampia scalinata precedeva una grande porta di legno. Mentre si avviava lungo il corridoio, i suoi occhi si posarono su un bambino che se stava da solo in un angolo dell’enorme salone. Era circondato da sei maestosi lupi neri. Sembrava assorto nei suoi pensieri, ma un occhio più attento avrebbe notato che era nel mezzo di una conversazione con i lupi che lo circondavano. Quel bambino, o almeno questo era ciò che sembrava, si chiamava Salfirel. Vander si ricordava perfettamente di lui, anche se il loro incontro risaliva ad almeno due anni prima. I suoi pensieri vagarono in un giorno lontano, in una cella angusta e tetra. Da quel momento, cambiarono molte cose. Conobbe il suo legame con il drago di sangue, che un giorno sarebbe rinato per combattere le forze oscure, e comprese quale sarebbe stato il suo ruolo in quella vicenda. Sebbene, in realtà non gli fu dato possibilità di scelta, alla fine concluse che era il destino che avrebbe preferito in ogni caso. Quella “scelta”, se è così che la si voleva chiamare, lo aveva portato fin lì.

Quando Vander passò, Salfirel alzò gli occhi verso di lui. Si scambiarono solo un’intesa che non tradiva nessun sentimento. Poi Vander concentrò la sua attenzione sull’imponente portone davanti a se. Solo quella barriera di legno lo separava dai suoi dubbi.

Salì gli enormi gradini, la fredda pietra sotto i suoi piedi nudi. Le ante si spalancarono con un pesante cigolio dei cardini, mostrando a Vander uno spettacolo terrificante.

Delle file ordinate di alberi rinsecchiti, perfettamente distribuiti in modo da utilizzare ogni singolo angolo della fortezza, custodivano i corpi di centinaia di persone. Vi era un ordine sovrumano nel modo in cui erano stati distribuiti. Tutto sembrava al loro posto. I corpi degli uomini, erano cinti da profonde liane che sbucavano dagli alberi, come tanti frutti appesi alle loro piante in attesa di essere raccolti.

Vander alzò gli occhi al cielo e vide che le nubi aleggiavano cupe e minacciose sopra le loro teste. Era la giusta atmosfera per coronare quello spettacolo. Persino il sole si rifiuta di vedere un simile scempio, e mandava le nubi avanti affinché gli coprissero quel ripugnante spettacolo. Il terreno era ricoperto da un pavimento di pietra intarsiato da piccole finiture che s’intersecavano per tutto il campo. Una sostanza liquida rossa, scorreva lungo i piccoli canali, come una marea di minuscoli ruscelli che s’intrecciano per confluire insieme in un grande lago di sangue posto in fondo allo spiazzo. Il paesaggio era collinare. Si tuffava dinanzi a lui in una piccola valle, per poi risalire poco più avanti, e continuare così per diverse centinaia di metri, dove un’immensa piantagione di corpi umani si stendeva per tutta la valle. Il paesaggio era stato modellato da abili ingegneri, affinché tutto il sangue confluisse in un grande cunicolo, che aveva il compito di trasportarlo giù, nei piani sotterranei.

“Se fuori fanno questo, chissà cosa ci sarà li sotto”, pensò Vander con un moto di disgusto.

Si chiese quale folle mente aveva potuto concepire tutto questo. Non sapeva darsi una risposta.

Fu guidato attraverso degli stretti sentieri che servivano ai soldati per spostarsi tra i corpi. Ogni albero, alto circa due metri, era completamente secco e la corteccia nera come se fosse stato carbonizzato, teneva stretto un uomo, come lunghe dita scheletriche che avvinghiavano il loro bambino per tenerselo stretto.

Notò con orrore che i loro corpi erano dilaniati da tagli dove sgorgavano rivoli di sangue, che venivano assorbiti dalle liane intorno ai loro corpi, ed espulsi dalle radici nei solchi di pietra, per poi scomparire, più giù nella gola di una grata sul pavimento. Ora capì perché tutti i corpi dei soldati fuori erano pieni di tagli. Si chiese per quanto tempo un uomo poteva stare in quelle condizioni? Per quanto tempo poteva resistere a quella continua fuoriuscita di sangue, prima di cedere? Ora comprendeva perché avevano avuto tutto quel cibo il giorno prima di essere chiamati e il perché del vino. Il cibo serviva a mettere in forze il soldato, mentre il vino ad inebriargli il cervello a tal punto da accettare un simile destino, volontariamente.

Vide Tobran in lontananza, lo sguardo meno austero del solito. Persino per lui, tutto questo era troppo. Vander credeva che qualunque cosa si aspettasse, questa lo avesse spiazzato alla grande. Ma si sforzava di mantenere un tono fiero e deciso. Proprio in quell’istante un coltello gli recise la pelle sulla gamba destra, e un improvviso rivolo di sangue, sgorgò dal corpo di Tobran. Dalla sua bocca spalancata eruttò un terribile grido che echeggiò nel silenzio di quel luogo. Anche lui aveva iniziato a dare il suo contributo alla rinascita del drago di sangue.

Finalmente arrivò nel punto in cui doveva occupare il posto del suo predecessore. Salì su un rialzo di pietra, mentre la guardia andò con un bastone a solleticare la corteccia dell’albero. Come risvegliato da un profondo torpore, il tronco vibrò, e lentamente le liane iniziarono a solleticare il corpo di Vander, fino a che non strinsero completamente il suo corpo. Non sentì forza in quell’abbraccio, bensì un inaspettato senso di comodità, come se l’albero fosse consapevole di stringere un oggetto prezioso e delicato al tempo stesso. I suoi piedi si distaccarono di qualche centimetro dalla pietra, ed ora era sospeso nell’aria, nelle strette e sicure mani della pianta. Il soldato estrasse un pugnale da una fodera bianca, e con la punta tracciò una linea lungo la coscia destra com’era successo a Tobran. Inizialmente non provò nulla, poi un improvviso dolore gli rimbombò nella coscia fin dentro le orecchie. Non gridò, ma contro la sua volontà, un sussurro di dolore echeggiò nell’aria, unendosi al lamento di altri corpi che venivano recisi in  quel momento.

Si chiese se in fondo ne valesse la pena. Il suo scopo ultimo però, era più importante del suo dolore. Serrò la mascella, e fece vagare la sua mente lontano da quei luoghi, in momenti e tempi dove il dolore non poteva arrivare.

***

Larcon aveva corso per tutta la notte. Non era mai stato un tipo particolarmente atletico, ma lo spavento di qualche ora prima, aveva pompato nel suo corpo tanta energia da non fargli sentire la fatica. Doveva allontanarsi da quei luoghi maledetti, e aveva giurato a se stesso che mai più nella sua vita si sarebbe spinto oltre i confini di quella stramaledetta foresta. Ora il sole stava facendo capolino dietro le montagne, illuminando il languido e sconfinato paesaggio familiare delle sue terre. Iniziò a sentirsi finalmente al sicuro. Per una qualche strana ragione, credeva che quei mostri, dovunque stessero andando non erano diretti in quella direzione. Si accasciò al suolo, sfinito dalla fatica del viaggio. Anche Rash sembrava stanco, e si distese sull’erba ancora umida del primo mattino. I magnetici occhi di quella creatura turbinavano ancora davanti ai suoi, e il possente tamburo gli tuonava nella mente come se qualcuno lo stese suonando alle sue spalle. Non poté fare a meno di voltarsi, colto da un’improvvisa paura di essere stato inseguito dai centauri. Fece un sospiro, quando si rese conto che la sua mente stanca gli faceva dei brutti scherzi. Accarezzò Rash, che insolitamente non era allegro come sempre. “Evidentemente, quell’incontro aveva spaventato anche lui”, pensò Larcon, mentre lo accarezzava preoccupato. Rash tremava come se avesse freddo, ma non era freddo. Qualcosa nell’animo lo tormentava, come se dovesse sopportare un peso più grande di lui. Rispose alle carezze del suo padrone con un timido brontolio. Larcon era seduto a ridosso di un albero di pino. Un’improvvisa folata di vento, trasportò un odore di carne arrosto. Si chiese chi mai poteva cucinare a quell’ora del mattino. Si accorse di avere molta fame, non mangiava dal giorno precedente, ma era troppo stanco per fare qualunque cosa, persino di capire da dove provenisse. Voleva solo dormire. Si sforzò di restare sveglio. Si chiese se Galfred fosse già arrivato a casa. Non si pentì di non avergli dato ascolto, ma per poco non ci rimetteva le penne. Un pensiero lo sollevò; se fosse riuscito ad arrivare a casa, se si fosse fatto un bel bagno caldo, se avesse fatto un sonoro pranzo come non ne faceva da tempo, aveva una storia incredibile da raccontare. Nessuno al villaggio, ne era sicuro, poteva competere per esperienze fatte, alla sua.

Fece un gran sospiro e si alzò con rinnovato vigore, ma si bloccò improvvisamente, quando udì un possente rumore di zoccoli in lontananza. “Ci hanno inseguiti” pensò paralizzato dalla paura. Non sapeva cosa fare. In lontananza vide delle figure avvicinarsi rapidamente. “Questa volta è davvero la fine” pensò mentre slegava il collare di Rash affinché almeno lui potesse mettersi in salvo. I cavalli, o quello che erano si avvicinavano rapidamente. Sapeva di non avere scampo, anche se avesse tentato la fuga, lo avrebbero scorto di sicuro. Rimase fermo dov’era, ad attendere il loro arrivo. Il cuore gli martellava nel petto furiosamente.

Aguzzò la vista e fu sollevato nel vedere che si trattava di un gruppo di cavalieri. Erano dodici, e galoppavano a gran velocità verso sud, come spinti da una grande fretta. Quando videro Larcon, arrestarono la loro corsa, dipingendo un grande cerchio nel terreno per circondare l’uomo. Larcon rimase folgorato dalla bellezza di quei destrieri, e dal portamento dei loro cavalieri. Sembravano degli dei, immersi nella divisa nera e rossa, scesi sulla terra per vegliare sulla debole razza umana. Tre archi tesi pronti a scagliare le loro frecce erano puntati su Larcon. Non conosceva l’emblema raffigurato sulle loro divise.

“Chi sei, che ci fai qui da solo?”. A parlare fu il capitano dei soldati, con una divisa grigia ma di uguale pregio. Due profondi occhi scuri scrutavano Larcon da sotto l’elmo.

“Il mio nome è Larcon, signore. Sto tornado a casa. Sono di Darmyn. La notte scorsa mi sono avventurato in queste terre infauste per recuperare il mio cane Rash che era scappato. Ed ora sono sulla via di ritorno”, Larcon si stupì con se stesso del sangue freddo dimostrato nel non dare troppe informazioni, per evitare inutili domande. Dopotutto se erano nemici, non voleva dare informazioni su Galfred.

Il capitano lo squadrò dall’alto del suo destriero, con sguardo interrogativo: “Sono terre pericolose per viaggiare da soli”.

“Oh lo so, signore. Dopo l’esperienza della notte scorsa, non ci metterò più piede”.

“Quale esperienza?”, domandò il capitano con tono sospettoso.

“Dannazione”, pensò Larcon. Al diavolo il suo sangue freddo. Ora non aveva scelta, se non gli raccontava la verità avrebbero capito che mentiva, se invece glielo diceva, ed erano amici dei centauri, era finito. “Comunque sia, sono in dodici, e io sono solo. Se vogliono uccidermi lo faranno comunque”, sentenziò alla fine Larcon.

Così gli raccontò l’intera storia, da quando si era avventurato nel bosco in cerca di Rash, della vista dell’esercito e dei draghi, e dell’incontro con in centauri. Modificò solo alcune parti, come ad esempio, disse di aver trovato morto il capretto che era andato a cercare.

Il capitano ascoltò con attenzione il racconto di Larcon, poi ordinò ai suoi uomini di abbassare gli archi. “La tua è una storia interessante straniero. Devo credere alle tue parole?”.

Rash abbaiò forte a quella domanda, come se avesse compreso appieno la conversazione e si fosse offeso a quelle insinuazioni. Mostrò i denti aguzzi al capitano, che lo guardò con stentorea attenzione. Si appoggiò con i gomiti sulla sella del suo destriero, con gli occhi fissi su Rash, come a voler conoscere risposte nascoste. Larcon notò per la prima volta questo strano atteggiamento, poiché nella foresta la sera precedente, era troppo impressionato dal centauro per accorgersi di quello che accadeva. Il capitano si scostò sulla sella istintivamente, come mosso da un improvviso spavento, e il cavallo fece diversi passi all’indietro per poi riavvicinarsi al cerchio.

“Capitano, che succede?”, gli chiese un soldato. Gli archi di nuovo tesi, pronti a scattare.

Il capitano destò la sua attenzione dal cane. “Sei libero di tornare a casa straniero. Se ci tieni alla tua vita, sta lontano da questi luoghi in futuro”, disse, poi ordinò di rimettersi in marcia, e i cavalieri si allontanarono al galoppo, come sospinti da una rinnovata urgenza, figlia dell’incontro con lo straniero. Larcon li vide allontanarsi, e dubbioso se ritenersi fortunato o meno di come si era concluso l’incontro, decise di riprendere immediatamente la via di casa.

Quando stava per andarsene però, un nuovo sbuffo di vento trasportò nell’aria, quell’odore di carne arrosto. Di nuovo si chiese chi mai poteva cuocere della carne all’alba. Ma il pensiero immediatamente successivo, fu che l’avrebbe assaggiata volentieri. “Chiunque stia cucinando, deve essere nei paraggi”, pensò. Spinto dalla sua curiosità, e anche dalla fame, che oramai attaccava le sue membra con inaudita ferocia, lo spinsero a cercare la direzione di quell’odore. Dopotutto il viaggio verso casa, sarebbe durato ancora molto, e non sarebbe arrivato prima di sera. E lui non mangiava da quasi due giorni. Avrebbe messo volentieri qualcosa sotto i denti. Improvvisamente, a non più di cento piedi di distanza, vide del fumo salire dalle fronde degli alberi. Rash abbaiò, alla sua vista. Costeggiò il limitare della foresta, dirigendosi a passi lenti verso la fonte di quel succulento odore. Più si avvicinava e più l’odore di carne diventava forte. Arrivò nel punto desiderato, ma ora si rese conto di dover proseguire nel bosco per alcune centinaia di passi. Afferrò stretto il guinzaglio di Rash, e s’inoltrò di nuovo tra gli alberi. L’aria era satura del profumo dell’erba. Larcon riusciva a camminare perfettamente sul terreno privo di sottobosco. In quel punto, gli alberi crescevano distanti tra loro, dando a Larcon una visione chiara dei dintorni. Notò che, sebbene si fosse appena inoltrato nella vegetazione, sopra di lui già si stendeva una cupola di foglie sostenute da giganti tronchi nodosi. Dopo pochi minuti, sbucò nei pressi di una radura, dove il verde tappeto formava un vasto spiazzo, circondato dalle fronde degli alberi. Nel centro, ardeva un piccolo fuoco. Sopra di esso, legato con cura ad un bastone di legno appoggiato su due tronchi laterali, un animale era stato messo a cottura. La carne, stava acquistando lentamente un dolce colore d’orato, cosparsa da piccole gocce di grasso che colava dolcemente dal corpo dell’animale, diffondendo nell’aria un odore appetitoso. Aveva un’aria squisita. A Larcon venne l’acquolina in bocca, a tal punto da desiderare di andare e mangiarsi quell’animale anche mezzo crudo. Si avvicinò lentamente al fuoco, chiedendosi dove fosse la persona che lo avesse acceso. La risposta, non si fece attendere.

“Fossi in te, ci penserei molte volte prima di avvicinarmi a quell’arrosto. Può essere pericoloso”, disse una voce profonda, alle sue spalle. Larcon si voltò istintivamente e vide un vecchio che lo fissava. Aveva una tunica blu con un cappuccio, una corta barba scura gli copriva il volto, e due occhi saggi lo scrutavano attentamente. Impugnava un bastone ornato di strani simboli. “Mentre stai cocendo un tacchino del bosco di Arhen, devi tenere gli occhi bene aperti, poiché hanno l’abitudine di non morire fino a quando la carne non è ben cotta”, disse il vecchio avvicinandosi al fuoco, per controllarne la cottura. “Di punto in bianco, ti possono saltare addosso e pizzicarti a ripetizione. Ma se sopravvivi alla cottura, ti posso assicurare che la carne è buonissima. Ho sentito che una volta un uomo, ne stava cucinando uno, e per la fretta di mangiarlo non si assicurò di averlo cotto per bene, così una volta ingoiato, i pezzi di carne iniziarono a ballare dentro il suo stomaco all’impazzata. Ha passato un brutto quarto d’ora”, disse il vecchio mentre aggiustava con bastoncino il fuoco per controllare la fiamma.

“Mi stai prendendo in giro?”, chiese Larcon incredulo.

Il vecchio si voltò verso Larcon; due occhi penetranti lo fissavano da sotto le folte ciglia. Le sue labbra, lentamente, si distesero in un ghigno: “Dipende”.

“Dipende?”, ripeté meccanicamente Larcon.

“Già. Dipende”, disse il vecchio. Se ne stava con le gambe incrociate davanti al fuoco, rovistando nella tasca interna della sua tunica. Alla fine estrasse una pipa. “Se pensi che ti stia prendendo in giro, allora no, non ti sto prendendo in giro. Se invece pensi che non mi stia prendendo gioco di te, allora si, ti sto prendendo in giro. Dipende” concluse, mentre un leggero sbuffo di fumo usciva dalla sua pipa.

Larcon represse a stento una risata. “Questo tizio è davvero suonato” pensò tra sé. Fissava il vecchio con aria stralunata; iniziò a chiedersi se tutta quella storia fosse un sogno, o il frutto di qualche astuta stregoneria.

“Allora, pensi di sederti o vuoi startene in piedi come un allocco per tutto il giorno?”, disse il vecchio, fissando di nuovo Larcon.

“Non lo so, e se questo coso mi salta addosso?”, disse ironicamente Larcon.

“Se osa muoversi, gli do una sonora botta in testa e lo secco una volta per tutte. Questo tacchino sarà la nostra colazione, che gli piaccia oppure no”, disse il vecchio, sbuffando una nuvola di fumo.

In seguito Larcon, quando ripensò a quello strano incontro, non ricordò come mai, dopo le recenti disavventure, avesse dato retta ad uno sconosciuto, con una dubbia sanità mentale, nel pieno del bosco. Ovviamente, in fondo conosceva la risposta; “la sua maledetta curiosità”, come la definiva lui.

Si sedette di fianco al vecchio, restando in ogni caso ad una distanza di sicurezza. La fame era tanta, e decise che non se ne sarebbe andato, senza prima aver mangiato. Rash si accucciò sulle gambe di Larcon. Gli occhi fissi sul tacchino. Notò che non tremava come prima. Questo rassicurò un poco Larcon. Se il suo cane era tranquillo, lo era anche lui. Il vecchio fissò per un momento Rash, poi tornò al suo arrosto, arricchendolo con delle spezie aromatiche.

“Non mi sembra di aver compreso il vostro nome…”,chiese Larcon.

“Mavrog. È così che mi chiamano in queste terre”, rispose il vecchio, poi guardò Larcon e disse: “Io invece, conosco il tuo, Larcon Biriador. Lo conosco da quando tu e il tuo amico, l’altra notte avete varcato i confini di questa foresta. A proposito, t’interesserà sapere cosa gli è successo?”.

“Perché, che gli è successo?”, chiese agitato Larcon.

Mavrog fece spallucce: “Oh, assolutamente niente. È tornato a casa insieme ai suoi animali. Pensavo che volessi saperlo”.

Larcon fu felice di sapere che Galfred stava bene. Per quanto le parole del vecchio fossero attendibili, ovvio. Ed era proprio questo il punto. Poteva fidarsi di quell’uomo? O forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi e andarsene finché era in tempo.

Rash si alzò improvvisamente dalle sue gambe e si diresse verso Mavrog. Il vecchio era intento e tenere d’occhio il tacchino, quando Rash si avvicinò col muso, cercando la sua attenzione. Mavrog gli accarezzò dolcemente la testa. Larcon avrebbe voluto richiamare Rash vicino a sé, eppure per una qualche strana ragione non lo fece.

“Lo so, piccolo. Lo so”, mormorò Mavrog mentre accarezzava dolcemente Rash. Poi improvvisamente, le mani del vecchio si tesero come lunghi artigli ad un palmo dalla sua sulla testa. Il lineamenti del volto di Mavrog, si allungarono lievemente, gli occhi non più calmi e soavi, bensì arcigni e sgranati, come concentrati in un’antica lotta. Larcon assistette a quella scena inerte, incapace di dire o fare qualcosa. Poi le mani del vecchio si rilassarono di nuovo, e il suo volto tornò sereno come prima.

Anche Rash sembrava di nuovo tranquillo. Smise di tremare, e tornò sereno e felice come sempre. Era come se un pesante fardello si fosse improvvisamente tolto dalla sua anima.

Tutto questo accade nel giro di pochi istanti.

“Che cosa hai fatto?”, chiese Larcon preoccupato.

“Un favore a Rash. E lui ha ricambiato il favore mostrandomi come si sono svolti gli eventi. Devi ritenerti fortunato di essere ancora vivo. Non molti possono dire di aver incontrato i centauri Nabrryr ed essere sopravvissuti”.

“Come lo sai?”, chiese di nuovo Larcon frastornato.

“Mi sembra di avertelo appena detto. A quanto sembra, il tuo cervello se la prende piuttosto comoda”, ribatté asciutto Mavrog.

Larcon fissò Rash, tornato sulle sue gambe. Qualunque cosa fosse accaduta, era chiaro che Rash, adesso era sereno. “Tu sai cosa sono? I centauri intendo?”.

“Chiunque abbia un minimo di buon senso conosce quei mostri, e sta alla larga dai luoghi che frequentano. Ma a quanto vedo, la natura ha fatto le cose un po’ alla leggera con te”.

Larcon decise di ignorare il commento del vecchio. “Che cosa puoi dirmi su di loro?”.

“Quel nome, tradotto nella lingua corrente, significa spettri di sabbia. Hanno poteri mistici molto forti, e sono dotati di una grande capacità ipnotica. Il povero Rash ne sa qualcosa. Sono avversari pericolosi, fuori della portata di un uomo. Se mai avessi la sfortuna di incrociare di nuovo la loro strada, l’unico consiglio che posso darti, é di cantare una canzone allegra, ma solo nei tuoi pensieri. Non osare farlo ad alta voce. Non importa cosa canti, l’importante è che ti rievochi pensieri felici. Questo impedirà loro di penetrare nella tua mente. Ma alla prima occasione, scappa il più lontano possibile”.

Mavrog diede ancora un’occhiata al tacchino, alla fine decretò: “Finalmente la colazione è pronta; o forse nel tuo caso si dovrebbe parlare di pranzo, o cena, o magari tutte e due le cose”, disse allontanando la carne dal fuoco. Ne staccò un pezzo e lo porse a Rash, poi a Larcon, e infine ne prese uno per se. Larcon aveva una gran fame, e lasciò da parte ogni dubbio per addentare una coscia dell’animale. Il vecchio aveva proprio ragione. Quella carne era squisita. Anche Rash sembrava entusiasta del pranzo.

L’arrosto finì velocemente, divorato da Larcon e da Rash. Mavrog si limitò ad un pezzo del petto dell’animale, che nemmeno finì. Lanciò il resto del suo tacchino a Rash, poi riprese la pipa, soffiò qualche rivolo di fumo e fissò il fuoco come perso in ricordi lontani. “Ora che hai ricaricato le tue membra, ti narrerò una storia sorprendente, una storia che parla di un drago”, disse Mavrog.

“Le storie di draghi non sorprendono più al giorno d’oggi”, esclamò freddamente Larcon.

“Questa ti piacerà. Narra di un drago di sangue, e del suo cavaliere. Ma la cosa più interessante, è che appartiene ai nostri tempi, molto più di quanto immagini”.

“Un drago di sangue…” ripeté tra sé Larcon. Il vecchio aveva ragione. Per quanto Larcon era a conoscenza di molte vecchie leggende, questa non l’aveva ancora sentita. Accarezzò il pelo di Rash, e decise di ascoltare ciò che aveva da raccontare.

“Prima di iniziare però, ti avviso che è una storia che pochi conoscono; solo qui e oggi tu potrai udirla. Ma bada bene, non starò a spiegarti come e perché conosco certi avvenimenti. Ci saranno molte domande che reclameranno una riposta, senza mai riceverne. Non perché non possa, ma perché non ne ho nessuna voglia, stamattina. Se dovessi raccontarti l’intera storia, staremo qui fino all’anno venturo, e non saremo che all’inizio. Quindi tieni a freno la tua ingordigia di informazioni, e non fare domande inutili. Intesi?”.

“Intesi. Basta che ti muovi”, voleva dire Larcon, ma ciò che disse fu: “Intesi”.

Il vecchio distese un braccio, il dito indice, lungo e scheletrico, puntato verso est. Larcon seguì la direzione del suo indice.

“Quelle che vedi all’orizzonte, sono le antiche vette di Maal-Misar, o “Vette Sacre” come vengono chiamate nel linguaggio corrente. La mia storia inizia da lì.

Una notte di mezza estate di non più di un anno addietro, una compagnia formata da cinque membri, capitanata da un mezz’elfo di nome Salfirel, si addentrò nelle oscure profondità di quei monti. Scesero fin nelle sue viscere, dove pochi uomini avevano osato addentrarsi, sapendo di portare il peso di una grande missione. Da quando varcarono la soglia della prima grotta, ci vollero cinque giorni di cammino nell’oscurità, prima di arrivare a Minas-Tarmul, il luogo dove erano diretti. Inutile dire che il viaggio fu difficile e in parte pericoloso, ma il loro coraggio venne premiato dalla vista dell’enorme portone del tempio, alto più di cento piedi, che svettava dinanzi ai loro occhi in tutta la sua imponenza. Esso è la dimora di Imshaark, uno degli esseri più antichi che il mondo ancora ricordi. Poco di lui si sa nelle terre degli uomini, poiché il suo compito non ha nulla a che vedere con i problemi degli esseri umani. I suoi sudditi, le cui sembianze non sono mai state descritte in nessuna storia, sono amanti della terra, e non conoscono altra luce se non quella emanata dalle lanterne di cristallo che illuminano a giorno l’intera costruzione.

Il capitano della compagnia, appoggiò tre volte il suo bastone sull’enorme portone di pietra. Si spalancò, silente come una foglia che cade da un ramo per poggiarsi sull’erba. Le guardie, scortarono la compagnia attraverso sentieri di pietra e cunicoli che scavavano a forza la loro strada tra le imponenti muraglie. Le strade dell’intero tempio, erano illuminati da alti lampioni dove lucevano luminosi cristalli color oro. Una piccola oasi di luce nel deserto dell’oscurità. Dopo un lungo cammino, arrivarono nei pressi di un nuovo portone, di uguale fattura ma meno imponente del precedente; quando si spalancò, rivelò alla compagnia un’ampia scalinata di marmo grigio, che scendeva giù nel cuore della terra. Ad illuminare il cammino, vi erano due solchi di fuoco ai bordi della scalinata. Tutt’intorno il buio li avvolgeva in una stretta minacciosa, nascondendo agli occhi della compagnia costruzioni, precipizi, o la fredda pietra della montagna. La compagnia scese per diverso tempo, sempre più in basso, respirando l’alito gelido che saliva dalle viscere della terra. Di tanto in tanto, la scalinata curvava, per poi continuare dritta. Occasionalmente, un manipolo di guardie, appostate su uno spiazzo ai bordi della scalinata, scrutava con occhi attenti le fitte tenebre. Non si voltavano nemmeno verso i visitatori quando gli passavano accanto, come se non gli importasse altro che il mare di oscurità dinanzi a loro. Dopo aver sceso per un tempo incalcolabile, videro dei fuochi baluginare più in basso. Da lì sembrava un’isola di fuoco sospesa nel vuoto.

Ancora un’enorme portone, intarsiato di rune antiche e simboli arcaici, si stagliava dinanzi alla Compagnia. Quando si aprì, mostrò loro una sala immensa. Delle colonne enormi svettavano verso l’alto sorreggendo l’enorme soffitto a cupola, talmente alto da riuscire a stento a vederlo. Il rumore dei loro passi echeggiò nella sala, percorrendo lo splendido pavimento di pietra nero con scanalature argentee. La compagnia si dirigeva verso i sette gradini in fondo alla sala, dove svettava imponente un enorme trono di pietra, anch’esso nero, tanto da sembrare un’eruzione del pavimento stesso. La sala era deserta, ma la compagnia sapeva che nell’oscurità, occhi vigili e attenti ne controllavano il lento procedere. Quando furono vicino al primo gradino, si fermarono. Il trono era vuoto. Il mezz’elfo che capitanava il gruppo, salì i gradini per fermarsi sul penultimo. Fissava il trono vuoto, come un bambino fermo di fronte ad un gigante di pietra. Lo fissava immobile, poi improvvisamente lanciò un grido che echeggiò sinistro nell’immensa sala sotterranea. Un attimo dopo, un vortice di nebbia scura, iniziò a vorticare in prossimità del trono, formando via via una grande ombra, che raffigurava una pallida imitazione di un corpo umano; solo immensamente più grande.  Sebbene fosse evanescente, pareva incarnare i secoli; un antico potere sembrava sprigionarsi dalla sua figura, come una manifestazione concreta dei tempi remoti. Due occhi vuoti, come pozze di tenebra, fissavano il mezz’elfo, dall’alto del trono di pietra. Ma Salfirel non sembrava per nulla intimorito.

In seguito ad una lunga e difficile trattativa, che non sarà mai rivelata, Imshaark donò al mezz’elfo, un oggetto molto prezioso; esso era il simbolo di una speranza per il mondo intero. Si trattava di un amuleto molto potente, in grado di domare una creatura leggendaria, che non solcava i nostri cieli dai tempi dei tempi. Il suo nome è Vudrokan, e si tratta del leggendario drago di sangue. Esso non è un drago qualunque. Per aspetto e stazza potrebbe sembrarlo, ma è un’arma talmente potente da far impallidire un esercito dell’oscuro signore. La sua forza micidiale, deriva dall’arcano incantesimo che bisogna conoscere per liberarlo dalle catene del tempo; è una procedura che molti hanno rinnegato, poiché ritenuta oltraggiosa per la persona umana, ma necessaria per conferirle la sua antica forza. Fu una creatura creata attraverso il sangue di migliaia di corpi, ed è così che dovrà essere richiamata. È l’unica procedura possibile, per conferirle la sua antica forza.

Ora, la cosa più interessante di questa storia, e che a poche miglia da qui, in un luogo recondito del reame di Toomfast, si stanno svolgendo i preparativi per richiamare quell’antica creatura. A breve, tutto il mondo sentirà di nuovo parlare di Vudrokan, il drago di sangue”. Il vecchio, creò una densa nuvola di fumo, poi disse: “Questo è tutto”.

Se Larcon non avesse vissuto le sue ultime avventure, avrebbe già deriso Mavrog per le scemenze che andava blaterando. Ma qualcosa gli diceva che non erano affatto stupidaggini. “Perché mai si dovrebbe richiamare questo drago di sangue?”.

“Perché il mondo ne ha bisogno. La guerra sta arrivando; gli oscuri meccanismi del Nemico si sono messi in moto. Bisogna prepararsi ad affrontare tempi difficili. La maggior parte delle persone dell’Impero, credono che stiamo vivendo un’epoca felice, che durerà per sempre, ma non sarà così per molto. La Torre Bianca, si sta dimostrando insufficiente contro le armate del Nemico; poiché esso ha sperimentato angoli della magia oscura, che gli hanno rivelato poteri al di là di ogni immaginazione. Il re è un grande sovrano, saggio e giusto, ma ha di fronte un nemico troppo potente”.

“Mi è difficile crederlo. Dovunque non si fa che elogiare il re per come tiene a bada le forze dell’ombra”.

“Che cosa pensavi? Che l’Impero fomentasse la paura tra il suo popolo ancor prima del tempo? Il fatto che il re di questi tempi sia alla Torre Bianca a guidare personalmente le sue truppe, dovrebbe farti capire molte cose. Ciò che hai visto l’altra notte, è la prova che il re sta perdendo il controllo sulle sue terre”.

“Se deve essere un segreto, perché lo stai dicendo a me?”, chiese Larcon sospettoso.

Mavrog, spense la pipa e la ripose nella tasca della sua tunica. Fissò Larcon con sguardo penetrante, poi disse: “Perché quando il drago di sangue solcherà di nuovo i cieli, tu avrai il tuo ruolo da giocare in questa faccenda”.

Larcon scoppiò a ridere: “Io… ma per favore. Le mie braccia sono fatte per coltivare la terra, non per maneggiare una spada”.

“Può darsi”, rispose Mavrog. “E chissà che non sia questa, la tua arma più affilata”. Mavrog non diede modo a Larcon di rispondere, poiché si alzò di scatto discendo: “Ora è tempo di andare. Il tuo viaggio verso casa è ancora lungo, e farai bene a incamminarti se vorrai arrivare prima di sera”. Mavrog stava buttando della terra sul fuoco per spegnerlo.

“Non puoi andartene così. Dopo ciò che mi hai appena detto”, disse Larcon indispettito da quel suo improvviso atteggiamento.

“Come ti ho avvertito, ci sono domande che non troveranno risposta. Almeno, non oggi”.

“Aspetta, una almeno me la devi concedere”, insistette Larcon.

Mavrog lo fissò per un istante, poi disse: “E sia. Ma che non sia più di una”.

“Quando hai parlato di Vudrokan, hai detto che il drago rinascerà dal sangue umano. Ebbene, io ti chiedo che cosa spingerebbe un uomo a concedere il suo sangue per risvegliare il drago?”.

“Molte cose. Il dovere militare che lo obbliga ad eseguire gli ordini. La consapevolezza di contribuire ad una grande causa, cercando di donare al re l’arma per fronteggiare il nemico. Senza contare che c’è un premio finale”.

“Un premio?”, chiese incuriosito Larcon.

“Corre voce che uno, tra coloro che avrà donato il suo sangue volontariamente, diverrà il suo cavaliere. Quell’uomo entrerà nella leggenda. Molti cavalieri dei draghi esistono al giorno d’oggi, ma quanti possono dire di aver cavalcato un drago di Sangue? È un po’ come vincere alla lotteria. Personalmente, credo siano solo dicerie. Un’astuta strategia per incoraggiare più soldati possibili a donare il proprio sangue. C’è qualcosa che mi dice, che il drago di sangue ha già il suo cavaliere, e quando risorgerà lo andrà a cercare”.

Così dicendo, Mavrog raccolse il suo bastone, e assicurandosi che il fuoco fosse completamente spento disse: “Ti auguro una buona giornata”. Senza aspettare risposta, si diresse fischiettando verso gli alberi, scomparendo nel fitto della vegetazione.

Larcon restò a guardarlo, fino a che non udì più alcun rumore. Si chiese se era davvero il caso di prendere sul serio le parole di quel vecchio. Decise che ci avrebbe pensato in un altro momento. Accarezzò Rash, e insieme s’incamminarono verso casa. Se non altro, aveva fatto un buon pasto.

Per quel giorno, e per chissà quanto tempo, concluse, ne aveva abbastanza delle avventure.

***

Il generale Naugir strinse forte i pugni, tanto che le nocche diventarono bianche. Fissava l’uomo dinanzi a lui, con una forte preoccupazione in volto. “Ne sei proprio sicuro, Volgar?”.

“Amico mio, conosci fin troppo bene le mie capacità per farmi una simile domanda”. L’uomo aveva un tono calmo e sicuro. Fissava il generale con due penetranti occhi scuri. Una barba curata gli copriva il mento. Indossava un’armatura grigia e nera, di pregevole fattura. Si trovavano in una stanza della torre che sovrastava la fortezza. Era una sala scarna. Gli unici arredi erano un tavolo di pietra al centro della sala, e otto sedie disposte intorno. Volgar ne occupava una. Naugir invece, era in piedi vicino alla finestra. Si voltò per affacciarsi all’esterno. Riusciva a vedere una parte dell’accampamento dei soldati. All’orizzonte, incombevano minacciose delle pesanti nuvole grigie. Era in arrivo un temporale. Chissà di quale natura. Nella stanza, oltre a loro vi erano altri due soldati, uno dei quali era un sergente. Un uomo fidato del generale Naugir.

Nella notte dodici soldati avevano varcato il portone della fortezza, per chiedere un incontro urgente con Naugir. Il generale li stava aspettando. Era stato proprio lui ad affidarsi a loro per conoscere gli spostamenti del suo nemico. Mai aveva immaginato però, che gli portassero una simile notizia. Volgar gli aveva raccontato dell’incontro con lo strano viandante, ma Naugir fu sorpreso che la vera notizia l’avesse appresa dalla mente di un cane. Conosceva le qualità telepatiche del suo vecchio amico, e si fidava di lui. Per questo non dubitava della sua parola.

“Quanto tempo abbiamo?”, chiese il generale Naugir, con un  tono che no tradiva la sua ansia.

“Da quello che ho scorto, intendono attaccare molto presto. Credo tra stasera o domani”, il capitano si avvicinò al generale. “Vogliono fermare l’operazione. Ma non è tutto. Un esercito di Goblin si e mosso dalla nera montagna, con tutta probabilità diretto verso La Torre Bianca. Credo vogliano attaccare il re alle spalle, mentre è impegnato a respingere un altro attacco”.

“La situazione è molto più grave di quanto credessi. Quanti sono? Pensi che possiamo intercettarli con una milizia?”.

“Sono troppo numerosi. Ma non è questo il pericolo maggiore”, disse Volgar.

Il generale si voltò verso Volgar, gli occhi carichi di tensione. “Che c’è ancora?”, esclamò allarmato..

“Draghi, Naugir. Almeno cinque”

“DRAGHI. Come fanno dei Goblin a governare dei draghi?”.

“Non lo so. Il re può respingere qualche Goblin succhiasangue. Ma con i draghi è tutta un’altra storia”.

Naugir sbatté i pugni sul davanzale della finestra: “Questa non ci voleva. Sergente”.

“Si, generale?”.

“Manda un messaggero ad avvertire il re della nuova minaccia. Poi raduna gli stregoni. Daremo inizio al rito oggi stesso”.

“Ma… non siamo ancora pronti generale”, obiettò il sergente.

“Non le ho chiesto se siamo pronti, sergente. Il tempo non è più dalla nostra parte. Esegui i miei ordini. Immediatamente”.

Naugir aspettò che il sergente uscisse dalla stanza, insieme all’altro soldato, prima di rivolgersi a Volgar. “Tu cosa farai, amico mio. Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile”.

“Naugir, mi conosci da troppo tempo per non capire quanto io non approvi ciò che sta accadendo tra queste mura. È una cosa che va al di là della concezione umana. Ma se vuoi che rimanga, devo sapere tutto quello che sta succedendo”.

“Sai che fu una decisione presa dal re. E sinceramente non mi sento di biasimarlo. In questo momento sta difendendo la Torre Bianca con tutto l’esercito che gli rimane. Se cadrà non ci sarà più scampo. Quello contro cui stiamo combattendo richiede un’arma adeguata alla sua potenza. Non c’è più il tempo di pensare a cosa è giusto o sbagliato. Ma a cosa è meglio fare per sopravvivere”.

“Anche se il prezzo è così alto da pagare?”.

“Gli abbiamo dato l’occasione di offrirsi volontari per questa prova. Io stesso versai la prima goccia”, disse alzandosi la manica per mostrare l’avambraccio pieno di tagli ormai cicatrizzati. Sembrava che la sua pelle fosse formata da tante piccole righe. “Non puoi chiedere un sacrificio senza prima sacrificarti”, concluse il generale.

Il capitano si allontanò dalla finestra. Girò intorno al tavolo, picchiettando col pugno sulla fredda pietra. “Un drago che risorge dal sangue umano. Devo ammettere che l’idea è geniale, per quanto sadica. Difficile pensare che l’abbia concepita una mente umana. Dunque è così che il re vuole difendere il suo popolo?”. Nel tono di Volgar c’era molto sarcasmo.

“Come ti ho detto, all’inizio ci siamo posti l’obbligo di accettare l’aiuto solo di coloro che si offrissero volontari per questo compito. In questo modo, ritenevamo anche che il drago sarebbe stato più facile da domare”.

“Teoria interessante. Ma poi cos’è successo?”.

“Sfortunatamente i volontari erano troppo pochi, e poiché le tecniche studiate portavano solo alla massima donazione di sangue che un uomo potesse concedere, senza che corresse gravi rischi, ci siamo resi conto che andavamo a rilento. Così siamo stati costretti ad imporre ai nostri soldati il loro contributo”.

“Dunque siete tornati al punto di partenza. Il drago rinascerà dal sangue tirato con la forza”.

“Che cosa potevamo fare? L’oscuro potere stava acquistando troppa forza, mentre sprecavamo tempo a difendere le nostre terre con la spada” .

“Così siete diventati voi i mostri”.

“Abbiamo aperto le porte ad una speranza”.

“Con il sangue dei tuoi uomini”.

“C’è anche il mio sangue, per diamine”, disse Naugir sbattendo forte i pugni sul tavolo, gli occhi colmi di un’ira repressa. “Se sei qui per farmi la predica puoi tornartene da dove sei venuto”.

Il capitano gli allargò un sorriso sghembo per tutta risposta. “Da quando tempo non combatti, vecchio scemo?”.

Il generale Naugir mosse le labbra in ghigno.

“Prego per l’anima di quel povero diavolo che incrocerà la tua spada”, disse il capitano girando intorno al tavolo. “Come ti ho detto, non condivido la scelta del nostro re, è una prova disumana quella che avete sottoposto ai vostri soldati, ma non abbandonerò un vecchio amico nel momento del bisogno. Volevo capire fin quando credevi in questa missione. Quando metto in pericolo i miei uomini, devo sapere se ne vale davvero la pena”.

Il generale si eresse in tutta la sua statura imperiosa. Fissava Volgar con uno sguardo fiero.

“Affila la spada, generale. Tra poco ci sarà da divertirsi. E poi questa… non  me la voglio proprio perdere”, disse con un ghigno.

Il generale Naugir venne informato che i preparativi erano finalmente pronti. Scese nei sotterranei insieme al capitano Volgar.

“Tutti i soldati sono in allerta. Se attaccheranno, non ci coglieranno di sorpresa”, disse il generale, mentre scendevano le scale.

Quando arrivarono nella sala sotterranea, il capitano Volgar si trovò di fronte uno spettacolo surreale.

Un’immensa sala di pietra, larga centinaia di metri, ospitava un’enorme voragine che si propagava nelle viscere della terra, occupando con prepotenza il centro della sala. Il capitano ebbe modo di notare che il sangue che veniva sottratto dai corpi dei soldati, confluiva nel pozzo, come un ruscello che precipita da un’alta rupe per tuffarsi nel lago sottostante. Delle profonde tacche erano state segnate all’interno del pozzo, come per indicare il livello del suo contenuto. Il capitano si sporse, e vide una profonda melma rosso cupo, che arrivava quasi al bordo. Ancora due tacche e avrebbe raggiunto il limite massimo. Nonostante fosse un uomo di battaglia, abituato alla vista del sangue, riuscì a stento a trattenere un conato di vomito. Non aveva mai visto una cosa simile, né nella sua più fulgida immaginazione, aveva mai concepito un simile scempio. Due archi univano i lati del cerchio. Si intersecavano al centro dove in una grande brocca baluginava un fuoco verde.  La sala era gremita di gente. Vi erano decine di maghi e stregoni dalle lunghe barbe, che si scambiavano le ultime indicazioni. Era evidente che nell’aria ci fosse una forte trepidazione per l’attesa oramai giunta agli esiti finali. Ancora poco, e avrebbero saputo se tutti i sacrifici di quei soldati sarebbero serviti  a qualcosa.

Una figura più piccola, se ne stava in un angolo, dove la luce delle torce appese lungo le pareti di pietra non riusciva ad arrivare. Notò che sei lupi neri, gli stavano accanto, come attente sentinelle pronte a scattare al minimo pericolo. Il capitano si chiese chi fosse, e come mai un bambino era presente in un luogo simile. Si chiese che cosa avrebbe pensato il popolo, se avessero saputo che il loro re, l’eroe che si vantava di difendere la patria contro i poteri dell’oscura minaccia, torturasse in segreto i suoi soldati, mungendo il loro sangue per poter evocare un’antica creatura rinchiusa da secoli in un luogo arcano, lontano dalle comprensioni della mente umana.

Il suono acuto di un tamburo echeggiò nella sala, infrangendo di colpo i suoi pensieri. Il rumore risuonò come un antico richiamo proveniente da un luogo recondito della realtà. Era il segnale. Il rito stava iniziando.

Sei uomini si disposero lungo il perimetro del cerchio. Impugnavano dei lunghi bastoni di diverse tonalità. Ognuno era adornato di strani simboli. Come mossi da una stessa mano, i sei stregoni batterono contemporaneamente il bastone sul pavimento, e il tamburo cessò il suo suono.

Il bambino che se ne stava tranquillo in un angolo celato della sala, si avvicinò all’enorme pozzo. Indossava una tunica rossa sopra i suoi vestiti. Non doveva essere alto più di un metro e cinquanta. Quando si avvicinò, il capitano lo osservò meglio. Notò che aveva le orecchie a punta, e una capigliatura riccia e argentata. Gli occhi verdi, non lasciavano per un attimo il pozzo di sangue. Sembrava incredibilmente concentrato.

Poi capì. Sarebbe stato lui ad eseguire il rito, o qualunque dannata cosa stessero per fare. Ma come poteva. Era solo un bambino. Non doveva avere più di dieci anni. Ancora una volta, quella situazione lo spiazzò. Affidare un compito di simile portata nelle mani di un bambino, gli sembrava una cosa stupida e insensata, nonché perversa.

“Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Il suo aspetto tradisce la sua età. Non conosco nessun altro che vorrei al suo posto in questo momento”, disse un uomo al suo fianco, probabilmente un alchimista. Evidentemente il suo sguardo tradiva le sue emozioni.

Decise di darsi un contegno e di concentrarsi sul rito.

Il bambino, o così sembrava, s’incamminò sull’asse che partiva dal bordo del pozzo per dirigersi verso l’enorme brocca al centro della voragine. Sotto di lui, un lago di sangue. Era una scena indescrivibile. Quando arrivò all’enorme brocca dove ardeva vivida una fiamma verde, il bambino allargò le braccia, chinò la testa all’indietro, e con gli occhi chiusi iniziò a pronunciare delle parole incomprensibili. Gli stregoni rispondevano a loro volta. Con una sincronia eccezionale, gli stregoni impugnarono decisi i loro bastoni, per puntarli tutti verso la vampa verde. Quando tutti e sei i bastoni ardevano alla punta della stessa fiamma, li immersero nel sangue. Un istante dopo iniziò a bollire, come se fosse un enorme pentola posta sopra una grande fiamma sotterranea. Il bambino alzò lievemente il tono di voce nel pronunciare i suoi arcani incantesimi. Per la prima volta il capitano udì la sua voce. Gli si rizzarono i peli della nuca nel sentire un timbro tanto rauco e profondo uscire dalle labbra di quello che sembrava essere un fanciullo. Poi, improvvisamente il bambino tacque. Aprì gli occhi, e diede un poderoso calcio alla brocca, facendola precipitare nel pozzo di sangue, che la inghiottì come una bocca famelica che non aspettava altro se non il suo spuntino.

Improvvisamente avvertì un suono sordo provenire dai piani superiori. Sembrava un’esplosione. Un’intesa silenziosa con i suoi uomini fece scattare due soldati fuori della stanza per andare a vedere cosa stava accadendo.

Quello era il secondo giorno per Vander. Non sapeva esattamente quanto sangue avesse versato, ma il suo corpo oramai era pieno di piccoli tagli. Sembrava un uomo dalla carnagione rossa. Pensò che persino un orco, se lo avesse visto in quello stato sarebbe fuggito via senza nemmeno provare a combattere. Il cielo era sempre più scuro. Le nubi s’infittivano sempre di più, tanto che non riusciva più a distinguere se fosse giorno o notte. Numerosi soldati erano appostati lungo tutto il perimetro, mentre altri girovagano tra i corpi appesi, come un contadino fa il giro del suo orto per vedere che tutti i frutti stessero crescendo bene. Di tanto in tanto un soldato recideva con un taglio la carne di un mal capitato. Un timido eco delle urla viaggiava nell’aria, per poi spegnersi in lontananza. Guardò verso Tobran, quattro file più in là. Il suo corpo era sporto in avanti, la testa china. Non riusciva a vedere il suo volto, ma immaginò che stesse dormendo. Era un uomo nato per la battaglia. Di sicuro era uno dei pochi a resistere a quella strenua situazione, ma poteva immaginare la sua delusione. Quando il generale Naugir convocava i soldati ancora ignari degli eventi, si esibiva in un discorso magistrale, mirato ad invogliarli ad aderire al compito convinti che avrebbero contribuito ad una causa grande quanto il mondo intero. Forse si aspettava di combattere qualche drago, o un manipolo di Goblin a mani nude. Non certo di restarsene appeso come un salame, ad aspettare che un albero succhiasangue lo privasse lentamente di tutte le sue energie. Distolse i suoi pensieri da Tobran, e notò alcuni soldati sul fondo, che non riconobbe. Avevano delle armature nere, con degli ornamenti rossi, dello stesso colore dei loro mantelli. Non sapeva dire a quale casato appartenessero, ma erano più imponenti degli altri soldati. Aleggiava una silenziosa inquietudine. Come se qualcosa li mettesse in allerta. Capì immediatamente il perché.

La quiete di quel luogo sepolcrale, venne interrotta da un’improvvisa esplosione provocando un’apertura nello spesso muro di pietra. Ombre di una sostanza irregolare, si riversavano improvvisamente all’interno della fortezza, come un flusso d’acqua fuoriesce da una crepa nel condotto. Sembrava sabbia, ma non ne poteva essere sicuro da quella distanza. Poi gli esseri iniziarono a prendere lentamente forma, i lineamenti dei loro corpi da cavalli si componevano agli occhi dei soldati. I maestosi centauri si mostrarono in tutta la loro ferocia. I soldati si trovarono a fronteggiare una minaccia sconosciuta.

Il capo centauro, affrontò il primo soldato, lo disarmò e lo stordì con una sonora botta in testa. Non erano lì per uccidere. “Ricordate. Frenate i vostri istinti di morte. Liberate i corpi e null’altro. Non versiamo altro sangue”, sentì il bisogno di rammentarlo anche ai suoi compagni.

Vrael gli rispose con un sonoro disgusto sul volto, ma eseguì gli ordini del suo comandante. Si diresse verso le scale che portavano ai sotterranei.

Nonostante la distanza, Vander ebbe un sussulto. Riconobbe immediatamente gli aggressori. Erano Nabrryr, o spettri di sabbia come venivano chiamati nella lingua comune. Si trattava di una razza molto antica e potente. Avevano la grande facoltà di tramutare il loro corpo in sabbia, questo gli permetteva di passare inosservati, quando ne richiedeva l’esigenza. Ma a quanto pareva, potevano utilizzare quella magia solo per spostarsi, o sfuggire ad un attacco. Poiché per combattere, dovevano riprendere la loro forma originale.

I centauri tagliarono velocemente i tronchi d’alberi che tenevano legati i corpi, e li scaraventavano fuori della cerchia di pietra, cosicché nessuna goccia di sangue potesse più alimentare quell’insana avidità. Avevano una forza poderosa, e nessun soldato riusciva a contrastarli in combattimento. Nessuno si era accorto all’esterno della lotta che si stava consumando dentro la fortezza. Quelle mura erano state progettate per far si che all’esterno non arrivasse nulla dello strazio, e delle urla che avvenivano all’interno. Ironia della sorte, per la stessa ragione rischiavano di perdere il conflitto. Nessuno sarebbe arrivato in loro soccorso, perché nessuno li avrebbe sentiti. Nemmeno se tutti i cadaveri viventi che stavano in quel buco urlassero all’improvviso con tutto il fiato che ancora gli rimaneva in corpo.

Vander assisteva immobile a quello spettacolo straordinario e devastante al tempo stesso. Conosceva la battaglia. Aveva affrontato nemici di straordinaria forza, ma doveva ammettere che vedere un centauro combattere era uno spettacolo impressionante. I possenti muscoli del corpo si gonfiavano per lo sforzo, mentre sollevavano alberi interi per scagliargli metri più in là.

Un improvvisa vitalità riemerse dalle sue viscere assopite, e cercò invano di liberarsi. Più si avvicinavano e più il suo cuore batteva all’impazzata. Conosceva gli spettri sabbia, e ancor più la loro ferocia sanguinaria. Non erano venuti per fermare quell’abominio, ma per fermare l’evocazione del drago, ne era sicuro. Una volta compiuto il loro dovere, li avrebbero sterminati comunque. Se l’oscuro potere aveva dalla sua parte esseri di una simile portata, forse iniziò a condividere l’idea dei suoi generali, forse le sofferenze di tutti quegli uomini erano necessari, perché solo con un drago sanguinario dalla loro parte potevano avere una speranza di vittoria. Si chiese come si era potuto arrivare a quel punto.

Vander cercava ancora invano di liberarsi, ma i centauri menavano falcate a destra e a manca, staccando i corpi dagli alberi come un macellaio taglia la carne per metterla in un angolo, in attesa di essere ultimata. Per giunta Vander era un elfo, la loro razza nemica per eccellenza. Se con gli altri avessero aspettato di portare a termine la missione, con lui avrebbero trovato una soluzione migliore. Più sbrigativa. Vander digrignò i denti per lo sforzo. “Non è così che deve finire” pensò, ma i centauri erano sempre più vicini.

Nello spiazzo, vi era una confusione infernale. Il tintinnio delle spade che cozzavano l’una contro l’altra, fece risvegliare Tobran dal suo torpore. Sembrava che fosse arrivato lì in quel momento. Un famelico desiderio di combattere s’impadronì del suo corpo. Si agitava furiosamente per cercare di liberarsi, ma anche lui non vi riuscì.

Dalle scale che portavano ai sotterranei, due soldati comparirono sul campo di battaglia, le spade sguainate per bloccare l’ingresso ai centauri. Immediatamente corsero a dare man forte ad altri soldati già impegnati nell’arduo compito. Nonostante gli sforzi il centauro dalla capigliatura argentea, sconfisse il suo avversario, e si tuffò lungo la scalinata scomparendo alla sua vista. Gli altri cinque centauri, stavano ancora combattendo contro i soldati.

Vander abbandonò quello scontro, per concentrarsi su quello che accadeva dinanzi a lui. Altrettanti centauri si stavano avvicinando rapidamente.

….

Il rito era in pieno svolgimento, ma il capitano in quel momento aveva il cuore in tumulto. C’era qualcosa che non andava. Il suo istinto glielo diceva, e il suo istinto non lo aveva mai tradito. Per giunta, nessun soldato tornava per riferire. Lasciò il bambino che stava versando una goccia del suo sangue nella voragine “Come se non ce ne fosse abbastanza” pensò, e si diresse con passo spedito verso l’uscita. Mancavano pochi metri alle scale quando un rumore di zoccoli lo bloccò. Il tamburo cessò il suono, segno che alle sue spalle stava succedendo qualcosa di importante, le voci dei presenti si fecero concitate, ma il capitano era concentrato sui rumori provenienti delle scale. Era come se un cavallo stesse scendendo lentamente, un gradino alla volta, come a voler assaporare ogni singolo passo di quella discesa.

Poi, dallo spigolo delle scale, apparve una figura maestosa, fiera, in tutta la sua potenza. Davanti a lui si stagliava un magnifico centauro dalla chioma argentea. Aveva una spada sguainata, la cui lama era avvolta in un liquido rosso, che colava sul pavimento durante la lenta ma micidiale discesa. Non riusciva a scorgerne il volto, poiché i capelli gli coprivano parte del viso. Quando vide il capitano che lo stava osservando si fermò. Alzò la testa, il suo ghigno malvagio ornava i suoi lineamenti sfociando in uno sguardo agghiacciante. Il centauro pulì la lama della spada con la lingua, assaporando il sapore del sangue misto all’acciaio, nelle sue più esili sfumature.

“Puoi decidere di non morire oggi. Non sei tu il mio obiettivo”, disse la creatura con un tono di voce freddo e pungente.

“Dimmi il tuo nome, così saprò cosa incidere sulla tua tomba. Se mai ne avrai una”, disse il capitano con il tono di voce che non tradiva il suo crescente nervosismo.

Il centauro fece un ghigno malefico. Era evidente che non aspettava altro che quella risposta. Aveva promesso di non uccidere, ma se qualcuno glielo chiedeva in quel modo, come fare a rifiutarsi?

Fece roteare la spada in cerchio, e iniziò a scendere gli ultimi tre gradini che lo separavano dal suo avversario. Con un veloce fendente si avvicinò al capitano, che con pronti riflessi parò il colpo. Era violentissimo, tant’è che Volgar temette che il braccio si potesse spezzare per l’urto. Fece scivolare la lama sulla spada del centauro, e si liberò della presa. I due giravano in tondo, per studiarsi. Il capitano capì subito che quello era uno scontro impari. La creatura, di una bellezza terrificante, stava giocando con lui come un predatore gioca con la sua preda, sicura di averla in pugno. A pochi metri da loro, ma sembrava in un’altra epoca, in un altro continente, il rito si stava concludendo, e qualcosa d’importante stava accadendo, ma il capitano non poteva voltarsi per vedere cosa. Il sibilo di una freccia attirò la sua attenzione, ma a pochi passi dal centauro cambiò improvvisamente direzione come se una volontà innaturale le avesse impartito un ordine diverso. In soccorso del capitano arrivarono altri tre soldati. Iniziò un veloce e violento scontro. Il centauro sembrava tener testa tranquillamente a tutti. La velocità con cui si difendeva e contrattaccava era sorprendete. Era un poderoso guerriero. Come mai il capitano ne aveva affrontati. Come se non bastasse utilizzava la magia. Non una volta schivò un affondo di Volgar con velocità disumana lasciando una scia di sabbia nell’aria. Il centauro afferrò un soldato per il collo, lo alzò con la sola mano sinistra ad un metro da terra, e gli conficcò la spada nel petto. Poi lo lasciò cadere a terra privo di vita. Ne uccise un altro con un veloce fendente, dopo che aveva parato un suo colpo. Un altro morì per via di un potente fulmine blu e argento che fuoriuscì dal palmo della sua mano.

“Siamo di nuovo noi due”, disse il centauro con un ghigno malvagio.

Era chiaro il suo scopo. Aveva ucciso di proposito tutti i suoi soldati, per dimostrargli che era un guerriero formidabile, e che non sarebbe morto per mano di uno stolto. “Gentile da parte sua”, pensò Volgar.

In quel momento arrivarono altri sei centauri. Dovevano impedire che il rito fosse portato a termine. Si diressero verso il pozzo, ignorando completamente Vrael e il suo antagonista.

Come comandati da una volontà innaturale, i soldati si disposero in posizione difensiva, le armi sguainate pronte a respingere le creature.

“Difendete il ragazzo elfo. A qualunque costo”. Un urlo di guerra echeggiò nell’intera sala, sovrastando qualunque altro suono. Era la voce del generale Naugir. I sei lupi neri si disposero intorno al ragazzo, pronti a scattare.

I sei centauri si tuffarono verso la voragine dove decine di soldati li attendevano con le spade sguainate. Era una scena spettacolare. I centauri cercavano in ogni modo di perforare la difesa impeccabile impostata dal generale Naugir, senza successo. Aveva una grande esperienza di guerra, e lo stava dimostrando in pieno. Lui si occupò di proteggere personalmente il bambino. Era un compito delicato, e non si fidava di nessuno, se non di se stesso. Se avessero superato anche lui, dovevano vedersela con i lupi. Quando un centauro riuscì a crearsi un varco tra le fila di soldati, trovò il generale ad aspettarlo. Con un sorriso sconvolgente e un’ira maestosa, sfoderò la sua ascia e si tuffò di gran carriera verso il nemico. L’acciaio cozzò contro l’acciaio e una miriade di scintille si propagarono tutt’intorno. La forza del centauro era strepitosa, ma il generale non era da meno. Riusciva a tenere tranquillamente testa alla creatura che lo sovrastava in stazza e altezza. Il duello fu violento. Sembrava che due esseri titanici si stessero affrontando nelle viscere della terra. Il quel miscuglio di duelli, spade, corpi che cadevano, il rito procedeva come se niente fosse. Era una scena surreale. I soldati di Naugir avevano il preciso compito di impedire che il rito fosse interrotto, e sembravano riuscirci. Con un poderoso affondo il centauro riuscì a disarmare il generale, facendo volare la sua ascia diversi metri più in là. Poi si erse in tutta la sua altezza, troneggiando sul generale, un ghigno malefico stampato in volto. Sapeva di aver vinto lo scontro. Naugir, allargò le braccia in segno di resa, e indietreggiò come a volersi allontanare il più possibile dalla furia di quella creatura. Quando il centauro fece per avvicinarsi per scagliare il colpo finale, il volto del generale Naugir si distorse in un sorriso malefico. Con un movimento velocissimo, si slacciò la cintura borchiata, che divenne improvvisamente una frusta. La fece sibilare nell’aria come un serpente, per poi attaccare la creatura con tutta la sua ira. La frusta dentata avvolse il centauro nella stretta feroce, dilaniando il suo corpo di atroci ferite. Lo disarmò con una rapidità sorprendente, e gli squarciò la gola con un ultimo affondo. Un urlo rauco di vittoria fuoriuscì dalla gola del generale. Poi andò a riprendere la sua ascia, e si rimise a pochi passi dal bambino. Attendeva impaziente che un altro centauro oltrepassasse il muro dei suoi soldati.

Dal lato opposto, un’altra battaglia solitaria si stava consumando. Mentre il capitano attaccava, il centauro schivava i suoi colpi con una velocità impressionate. Il suo corpo si tramutava in una vaga forma sabbiosa della sua figura, per poi ricomparire più in là in forma fisica. Era un potere arcano che sapeva di non poter fronteggiare. Se quello era il nemico che avrebbe decretato la sua morte, decise che avrebbe combattuto con onore. Si lanciò all’attacco della creatura, sfoderando le abili qualità di guerriero, che però sembravano apparentemente inutili. Tuttavia il centauro non riusciva a penetrare facilmente la difesa di Volgar. Lo stava facendo stancare volontariamente, per poi approfittare del primo attimo di distrazione. Volgar diede una leggera occhiata alle sue spalle. La battaglia infuriava violentemente. Il centauro si avvicinò con una velocità micidiale al capitano, con una mossa velocissima lo disarmò e poi fece penetrare la lama della spada nel suo petto.

“Il mio nome è Vrael. Principe di Nurg”, sussurrò il centauro nelle orecchie del capitano, poi estrasse la spada dal petto e gli recise la testa con un colpo secco.

In quello stesso istante, un poderoso ruggito tuonò all’interno della sala, e fece destare Vrael dai corpi dilaniati ai suoi piedi. Alzò la testa, per fotografare giusto il momento in cui una terrificante testa di drago rossa, seguita dal suo possente corpo fuoriusciva dalla voragine al centro della sala. Per la prima volta nella sua vita, il centauro rimase impietrito. Il drago precipitò sul terreno incapace di volare, schizzando sangue dappertutto. Era un essere straordinario. Le squame erano di un rosso vivido, la stazza era possente, seppur nella media per un drago. Ma non era la grandezza la sua arma. Vrael lo sapeva bene. Quella era una creatura leggendaria, creata con una magia occulta oramai proibita e cancellata per sempre dalle memorie, con il sacrificio di migliaia di persone che donavano il loro sangue per far crescere il suo potere. Cosa era un po’ di dolore, se in cambio il tuo esercito poteva disporre di un’arma simile, pensò Vrael. I suoi compagni scesero nei sotterranei per ammirare quello spettacolo incredibile.

Un domatore di draghi cercò di legare la creatura con una catena. Quando ci riuscì però, la catena si ghiacciò improvvisamente con una tale rapidità che l’uomo non riuscì a staccare le mani prima che si ghiacciassero. In un secondo l’uomo scomparì tra le fauci possenti del drago.

“Che facciamo Vrael?”, chiese un centauro.

“Dov’è Zarnog?”, rispose Vrael.

“E’ con gli altri per liberare i corpi”.

I combattimenti nella sala sotterranea si erano improvvisamente fermati. Tutti ammiravano lo splendido drago rosso, le cui membra erano formate unicamente di sangue. I centauri indietreggiarono intimoriti da quella creatura, sapevano di non avere scampo in un duello con il drago.

L’iride gialla del drago si volse verso i centauri. Per qualche recondita ragione, li aveva scrutati. Si voltò, scaricando la sua indomabile ferocia in un ruggito assordante. Poi il drago cercò di alzarsi, ma non vi riuscì, e cadde di novo a terra.

Varel sorrise con rinnovata fiducia. “A quante pare, hanno accelerato un po’ gli eventi. Non era pronto per essere richiamato. Thorne, chiama Zarnog e raduna gli altri. Dobbiamo uccidere questa bestia prima che si riprenda”.

Un centauro saettò da dove era sceso.

Vrael si avvicinò lentamente al drago, i suoi compagni centauri al seguito.

Anche il generale Naugir si avvicinò al drago.

“Generale, non si avvicini, è ancora incontrollabile. Potrebbe attaccarla”, disse un domatore di draghi.

Il generale lanciò uno sguardo alla creatura, con un ghigno. “Non lo farà. Parte del mio sangue scorre nel suo corpo”, poi tornò a guardare i centauri. Un grido feroce di battaglia echeggiò nella sala, mentre si lanciava all’attacco delle creature.

Mentre gli altri erano impegnati nella lotta, Salfirel, il bambino elfo, si avvicinò al drago. Aveva un amuleto in mano. Come incantato dal piccolo elfo, il drago si calmò, e si accucciò davanti al bambino. Salfirel gli carezzò il muso come un padrone accarezza il suo cane, e poi poggiò l’amuleto sulla fronte del drago. Pronunciò un incantesimo nella sua lingua, e l’amuleto penetrò nel cranio del drago, che ruggì di dolore, mentre l’oggetto prendeva il suo posto con forza nella fronte del drago. Si dimenava, agitando pericolosamente la coda. Anche Salfirel dovette prestare attenzione a schivare alcuni fendenti. Poi, quando il dolore cessò, sembrò che il drago avesse subito una trasformazione. Il suo animo indomabile, sembrava sereno, come se fosse consapevole di quello che accadeva intorno a lui. Guardò il piccolo elfo.

“Ben arrivato Vudrokan. Il tuo cavaliere ti aspetta”, disse Salfirel in una lingua sconosciuta.

Il drago si voltò verso il luogo dello scontro. Conosceva i suoi nemici. Si eresse in tutta la sua maestosa statura. Spalancò le ali possenti, sventolando nella stanza delle folate di vento turbinati. Le ammirò soddisfatto. Funzionavano alla perfezione. Un ruggito poderoso echeggiò nella stanza. Sembrava un avvertimento per i suoi nemici. Finalmente si accorsero di lui. Avanzò sulle quattro zampe lungo la stanza. Le sue possenti iridi scrutavano i presenti. Ora i soldati, ora i centauri. Si fissarono sul generale Naugir per un momento. Lo guardò con uno sguardo soave, che Naugir ricambiò. Un centauro osò attaccare Naugir mentre era di spalle. Ma il drago ringhiò ferocemente, e scagliò contro l’essere una fiammata rossa che lo incenerì all’istante. Vrael rimase sconvolto dalla facilità con cui aveva ucciso il centauro.

Un altro centauro si fece avanti minaccioso. “Quello era mio fratello. Ti ucciderò per quello che hai fatto”. La creatura era imponente, eppure sembrava minuscolo di fronte al drago. Vudrokan lo ignorò, e si diresse verso il canale di sangue che scorreva dai piani superiori. Annusò il sangue che confluiva ancora nel pozzo.

Il centauro, irritato dal comportamento del drago, si scagliò contro. Vudrokan gli sferrò un colpo con la coda che però mancò il centauro, poiché era stato più svelto, tramutando il suo corpo in sabbia. Così si voltò verso la creatura.

“Sei solo un ammasso di poltiglia rossa”, ghignò il centauro.

Il drago ruggì violentemente due volte facendo vibrare le mura, poi con una velocità sorprendente si scagliò contro il centauro afferrandolo tra le sue fauci, e spezzandogli il corpo in due parti, lasciandole cadere sul pavimento con un sonoro tonfo.

Gli occhi del centauro erano ancora aperti per lo stupore di quell’attacco.

Vrael decretò la riturata. Sapeva di non poter vincere contro quell’essere. Così fuggì prima che il drago decidesse di attaccare anche loro.

Vudrokan, guardò il soffitto. Il suo corpo venne scosso da un potente fremito, poi un boato assordante eruttò dalla sua gola. Una parte del soffitto crollò a terra. Il drago spalancò le ali, e con un poderoso sforzo sulle gambe posteriori spiccò un salto verso l’alto.

Il centauro si era accorto di Vander. Lo aveva scorto, mentre stava staccando un albero due file più avanti. La sua chioma argentea e le orecchie a punta erano inconfondibili. Il vecchio rancore che provavano per gli elfi, memore di antichi conflitti, lo portò a puntare dritto verso di lui, dimenticandosi di tutto il resto. Vander cercò ancora di liberarsi dalla presa dell’albero, per un ultimo disperato tentativo. Non voleva morire. Per giunta infilzato da un animale da soma infuriato, mentre se ne stava appeso ad un albero come un salame. Un ruggito echeggiò cupo da una parte indefinita nel sottosuolo. La terra vibrò, e poi una voragine larga diverse metri si aprì appena dietro al centauro, che fu inghiottito dal terreno mentre cedeva. Poi emerse la figura di un possente drago rosso come il sangue. Aveva una mole impressionate. Si voltò intorno spaesato, poi le sue enormi iridi gialle si posarono su Vander. Con un balzo superò la voragine, per atterrare davanti a lui. Afferrò l’albero che lo teneva legato, e lo sradicò con un feroce morso. Le liane che stringevano il corpo di Vander, si allentarono all’istante. Vander cadde al suolo in ginocchio. Gli girava un po’ la testa, per la gran quantità di sangue che aveva perduto. Con uno sforzo, si alzò. Quello era il suo momento.

“Finalmente sei arrivato. Stavo iniziando a perdere le speranze”, disse con un ghigno.

Il drago rispose con un poderoso ruggito. Poi si chinò per permettere a Vander di salire sulla sua groppa.

“Meglio tardi che mai” disse poggiando i piedi sulla coscia per arrampicarsi sul dorso. Era debole, e il suo corpo era pieno di sangue, ma questo non poteva aspettare. Doveva salire sul drago e spiccare il volo. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.

Il drago eruttò dalle mura della fortezza, come un’improvvisa freccia rossa lanciata nei cieli per dare inizio ad una nuova era. Volarono sopra le centinaia di facce meravigliate dei soldati intorno alla fortezza. Ma lo stupore e la meraviglia durarono un attimo, perchè, quando Vudrokan ruggì, una miriade di voci tonanti di gioia risposero.

Vander era pulito e in forze. Stava percorrendo con le dita la forma che Vudrokan aveva sulla fronte, simile alla sua cicatrice sul petto. Una sella di pregevole fattura era stata montata sul dorso del drago, per facilitare la sua cavalcata. Salfirel, gli stava davanti. Un vento gelido soffiava dalla torre più alta della fortezza.

“Vola a nord. Più veloce che puoi. Verso la Torre Bianca. Il re ti sta aspettando. Mostra al mondo intero l’arma che contrasterà le forze oscure. Qui ha inizio il tuo cammino verso una nuova vita. Sii un guerriero saggio, e di cuore sincero e troverai la tua strada. Ma ricorda sempre; questo drago è il frutto del sacrificio di tante persone, che hanno donato il loro sangue per contribuire a questa causa. Onora il loro sacrificio. Quando ti calerai in battaglia, avrai la forza di mille soldati al tuo fianco. Ma ci saranno molte salite da percorrere, molti inganni da superare. La forza che abbiamo scatenato su questa terra, appartiene ad una magia molto potente e antica. Un giorno reclamerà il suo prezzo. Quel giorno dovremo essere pronti”.

Ancora una volta Vander ebbe la sensazione di parlare con un essere centenario, chiedendosi quante cose ancora non conosceva di quella storia, ma sapeva che non avrebbe conosciuto la risposta in quel momento.

“Vorrei ringraziarti, ma non so ancora se è quello che devo fare”. Vander salì sul dorso di Vudrokan. Si affacciò al bordo della torre. Sotto di lui centinaia di persone stavano aspettando la sua partenza. Il drago ruggì al mondo, e il mondo gli rispose con un sonoro boato che echeggiò nell’aria come un grido feroce di guerra per i suoi nemici. Poi il drago si lanciò in picchiata dalla cima della torre, per riprendere quota a pochi metri dal suolo. Volteggiò una volta sopra i soldati, e poi si allontanò versò le montagne a nord, per volare verso il suo destino.

***

Larcon stava seduto con i piedi sull’asse di legno davanti alla locanda principale del paese. Molti compaesani stavano intorno a lui, per ascoltare le sue avventure degli ultimi giorni. Stava raccontando la sua versione della storia, ovviamente con particolari che solo lui conosceva.

“Ve lo assicuro. La testa era di un drago, e il corpo di cavallo”.

“Un drago sopra un cavallo?”.

“No vecchio scemo. Era metà drago e metà cavallo”.

“Dunque, era un drago tagliato a metà, e cavallo tagliato a metà. Forse volevano risparmiare sul prezzo?”, disse un uomo paffuto, e un coro di risa echeggiò nell’aria.

Larcon era troppo preso dal suo racconto per capire che lo stavano prendendo in giro. “Poi mi ha afferrato al collo, e allora in quel momento gli ho sferrato un cazzotto nell’occhio. Solo in quel momento ha lasciato, ed è scappato via”.

Larcon stava davvero esagerando nella descrizione degli eventi. Così alla fine nessuno crebbe veramente alla sua storia. Solo il suo vecchio amico Galfred credeva che c’era un fondo, molto velato, di verità nei suoi racconti.

Un ruggito cupo e lontano vibrò nell’aria.

“Che cavolo è stato?”, disse un uomo precipitandosi in strada; gli occhi fissi verso il cielo.

Tutti quanti si affacciarono per vedere di quale animale si trattasse. Una sagoma in lontananza, piccola e scura solcava i cieli.

“Guardate là?”.

“Che cos’è?”.

”Hei Lar, vieni a vedere. Forse il drago-cavallo è venuto a reclamare vendetta”. Ancora una sonora risata echeggiò tra gli uomini.

“Non credo. Sarà un uccello enorme come il tuo naso Laars”, disse Larcon fissando l’orizzonte. Il suo cuore divenne di pietra.

“Ehi che ti prende Lar, sembra che tu abbia visto un fantasma”, disse un uomo.

“Forse è così”, disse Larcon. Immediatamente le parole di Mavrog gli tornarono in mente. “Quando il drago di sangue solcherà di nuovo i cieli, tu avrai il tuo ruolo da giocare in questa faccenda”. Ma che ruolo poteva mai avere lui, ammesso che quello fosse il drago di sangue, in una storia dove re, stregoni, esseri millenari e draghi avevano la loro parte da recitare. Scosse la testa, sorridendo tra se. No, quel vecchio aveva preso un abbaglio.

Tornò a sedersi sul porticato, insieme ai suoi compaesani,

“Allora, dove eravamo rimasti…”

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