Il segreto della Foresta di Mezzo
Camilla Carniello
Corso di Scrittura Online – Primo Livello Adulti
Vi narro, Signori, di un assai antico tempo,
di quando ancora non vi era l’uomo mortale.
Quattro i Grandi che vinsero la lotta fatale
E che di una nuova era diedero l’avvento.
In quattro avevano creato molte e diverse creature,
come figli a cui un giorno dare il comando,
ma crebbero esse di volta in volta mutando
e tristemente divennero infine anime oscure.
In una guerra crudele, come il figlio uccide il genitore,
la creature con odio e avidità sempre crescente,
distrussero tutto con il frutto del loro odio furente.
Fu così reso il mondo di testimonianza il portatore.
Si elevarono i Grandi Quattro, Signori di Vita e di Morte,
contro i figli ripudiati, assassini senza cuore,
instaurando una guerra di paura e terrore
e chiudendo per sempre del perdono le porte.
La lotta di Isil, Dea della Luna, si poté vedere,
al fianco di Murne, del Sonno il Signore,
e con l’aiuto di Anor, del Sole il fautore,
ed infine Calif, che del Risevglio ha il potere.
Isil e Murne, di equilibrio e giustizia i guerrieri,
placarono di Anor e Calif le ire molto più accese
e trovarono un accordo a di tutti le pretese:
i figli avrebbero relegato a grado di prigionieri.
Ma soli e distrutti dalle memorie della guerra,
I Grandi Quattro vagavano senza pace sulla terra.
Un giorno si riunirono ancora e vollero riprovare
a dare nuova speranza per poter ancora amare.
Tra le braccia di questa terra, ormai sopita,
sui quattro elementi soffiarono e ci diedero vita.
Dalla ballata
“Genesi dell’Era Umana”,
canto primo, quinta decade della II Era.
Capitolo Primo
Il vento sussurrava piano, quella notte d’estate, e le verdi chiome degli alberi accoglievano quel dolce solletico con un velato piacere. Le stelle lampeggiavano silenziose, tenendo per sé i propri segreti e il mondo stava lentamente cadendo in un sonno ben meritato, cullato dal mezzo sorriso romantico che la luna offriva. Tutto appariva tranquillo come negli arazzi più belli, quelli che raffigurano fate turchine e principesse del Nord occupate a rimirare l’orizzonte e circondate da una natura idilliaca.
Già immaginava la morbidezza del cuscino sotto la guancia Padre Solio dell’antica famiglia dei Casales, Sacerdote Inferiore dell’Ordine dell’Ovest e protettore del tempio dell’Ordine nella città di Almena. Quella mattina i suoi compiti l’avevano svegliato all’alba e l’immenso amore che nutriva per i suoi fedeli l’aveva fatto girare per tutta la periferia per la solita spartizione di benedizioni e consigli. Era stremato e il giorno seguente non sarebbe di certo stato più clemente con i suoi reumatismi; per questo diede in fretta un’ultima spolverata all’altare che solo lui poteva toccare, chiuse le finestre e si accinse a spegnere le innumerevoli candele sparse per tutta la navata del tempio. Era arrivato al lato destro e gliene mancavano ancora una mezza dozzina quando sentì tre fievoli colpi battere impazienti sul portone di legno massiccio.
Si chiese chi mai potesse essere a quell’ora tarda quando un brivido freddo e improvviso frustò la sua schiena stanca.
No, non poteva essere. Non così presto. Erano passate meno di due settimane dall’ultima volta, era troppo presto.
Dopo qualche secondo i colpi ripresero, stavolta più forti.
Come riscosso dal più terribile degli incubi Padre Solio sbatté più volte le palpebre e scrollò le spalle. Forse in fondo era solo la stanchezza a tirargli brutti scherzi e, forse, il suo istinto non faceva più il suo lavoro tanto bene. Non poteva trattarsi di quello.
Quando per la terza volta una serie di colpi risuonò all’interno del tempio, il povero sacerdote decise che non si trattava né di un incubo, né tanto meno della stanchezza. Appoggiò lo spegni candele e si affrettò ad aprire.
Una figura incappucciata scivolò nella penombra tremolante, quasi tentando di rendersi il più invisibile possibile.
Era minuta, tremante e sconvolta. Quando una mano piccola ed esile scivolò fuori dalle pieghe scure e fece cadere indietro il cappuccio, un viso distorto dal dolore spuntò fuori, incorniciato da onde di capelli ramati e spettinati. Gli occhi della ragazza, azzurri e gonfi di lacrime già cadute e di altre pronte per fuoriuscire, saettarono da una parte all’altra, percorrendo tutta la superficie visibile della costruzione, come per accertarsi che non ci fosse nessun altro.
– Talia! Cosa ci fai qui?- esclamò Padre Solio, ignorando il brutto presentimento che gli aveva attanagliato le viscere.
La giovane incatenò i suoi occhi in quelli del sacerdote, lasciando parlare il turbinio di disperazione che vi si agitava dentro.
– Ancora… Non è possibile, dimmi che non è vero! Sono passate solo due settimane!- sussurrò l’uomo.
Talia non ebbe più la forza di guardarlo in faccia e il dolore che la squarciava da dentro iniziò a scuoterla in un pianto senza fine.
Padre Solio si avvicinò e la sorresse circondandola con le sue braccia. Scossa dai singhiozzi la ragazza fu solo in grado di dire:
– Aiutami Padre, aiutami… E’ successo ancora. Io…ho ucciso ancora.
Capitolo Secondo
La Terra del Nord non era certo famosa come territorio caldo e ospitale. Anzi, sembrava che il calore fosse quanto di più lontano possibile dal clima e dall’ospitalità degli abitanti. La temperatura e il carattere della gente andavano di pari passo da secoli ormai e il ghiaccio era diventato, almeno nei mesi più rigidi, una costante di entrambi.
Questo era il pregiudizio più diffuso nelle restanti Tre Terre che componevano il Mondo Conosciuto; in realtà, si sa, le voci sono sempre ben lontane dalla verità e il popolo nordico era pacifico e di buon cuore come tutti gli altri e lo diventava ancor di più in compagnia di vecchi amici e di un paio di boccali di quella birra che solo lì erano in grado di fare tanto buona.
La mattina colse il giovane Roen, terzogenito di Beidor appartenente alla dinastia dei Norwindal e re della Terra del Nord, ancora addormentato ai piedi del suo grande letto a baldacchino.
Indossava i calzoni scuri di tela pesante e la camicia di seta, verde come quegli occhi celati dalle palpebre abbassate, che aveva indosso la sera precedente. Il sonno lo aveva investito come un cavallo in corsa solo un paio d’ore prima, quando in compagnia di un manipolo di compagni aveva fatto la fortuna dell’oste che aveva la sua bottega subito fuori dalle mura del palazzo.
– Roen, maledizione svegliati! – esclamò un giovane alto e allampanato irrompendo nella camera, – E’ la volta buona che il maestro ti spedisce a pulire le stalle.-
Con un mugolio indistinto Roen si girò a pancia in giù, strisciò fino al cuscino e ci nascose sotto la testa. Un lancinante mal di testa gli perforava le tempie.
L’amico, Herald di Terin, totalmente incurante di quella reazione, un rituale che si ripeteva da quando Roen aveva acquistato abbastanza senno da distinguere acqua da acquavite, spalancò le tende e le finestre, lasciando entrare l’aria frizzante dell’estate nordica.
– Herald farò mettere una taglia sulla tua testa… – biascicò il principe mettendosi a sedere e cercando di fare mente locale. Non ricordava gran parte della nottata precedente.
– Quando lo farai ricordati che la tua di testa è attaccata al collo solo grazie a me. – gli rispose quell’altro mentre gli lanciava un cambio pulito. Avrebbe preferito scaraventargli addosso un’ascia al posto dei panni morbidi. – Il maestro è furioso per il tuo ritardo e tuo padre lo imiterà a breve se non ti muovi.-
Roen si alzò a fatica e nonostante ogni muscolo gli urlasse maledizioni cominciò a sfilarsi i vestiti sgualciti con cui aveva dormito. Si avviò nel grande bagno adiacente ai suoi alloggi con un mezzo sorriso da monello mentre qualche ricordo di gesta senza senso cominciava a riaffiorare.
Un quarto d’ora dopo stavano percorrendo il corridoio dell’ala ovest e, passata la sala degli arazzi in cui erano esposti ritratti dei membri delle varie dinastie del passato, giunsero finalmente nella sala d’armi dove un più che incollerito Morn, eccellentissimo maestro di combattimento, stava aspettando da più di un ora.
– ROEN, FIGLIO DI BEIDOR! Dove diavolo eri finito? Non hai il minimo rispetto per i pochi doveri che ti spettano come figlio della Corona?! Sei un irresponsabile e ingrato, sia gloria a tuo padre, Sua Maestà, per la pazienza che porta… Come ti permetti?! – inveì l’uomo contro il principe.
A quel saluto, e alla fremente ramanzina che seguì, Roen si limitò a rispondere con arrogante sfacciataggine: – Buongiorno a lei, maestro.-
Da quando il giovane si era reso conto di essere il terzogenito della famiglia reale, cosa che lo esonerava dall’ereditare la corona e il governo della Terra del Nord a dall’intraprendere una spiacevole e noiosa carriera religiosa, aveva scelto di godersi quel che la vita aveva deciso di donargli: una ricchezza spropositata, pochi doveri e responsabilità che puntualmente ignorava e un infinito numero di opportunità per divertirsi con chi, come e dove voleva.
Re Beidor aveva lasciato correre inizialmente, dando la colpa a sé stesso per non aver potuto essere sempre presente nella vita del figlio e al destino, per avergli portato via la moglie molti anni addietro. Quando però il principino non aveva dato alcun segno di voler cambiare stile di vita, nemmeno con la maggiore età e l’arrivo di nuovi incarichi, il sovrano aveva consumato sempre più la sua pazienza, giudicando il comportamento di Roen assolutamente inadatto ad un membro della famiglia reale e del tutto inammissibile entro i confini del suo regno. Ogni proposito di redarguirlo risultava però inutile e l’unico in grado di salvarlo in extremis dalle ripercussioni delle sue stesse azioni era l’amico e compagno Herald di Terin, di qualche anno più vecchio e, forse per questo, più maturo.
L’allenamento con le spade a lama smussata iniziò e il maestro Morn non risparmiò i due giovani; sorrideva beato, ora che poteva far loro eseguire gli esercizi più difficili e urlar loro dietro quanto fossero imperfetti, lenti e assonnati. Con l’arrivo della stagione calda potevano approfittare del bel tempo e allenarsi all’aria aperta, nel vasto cortile interno alle mura. Ben consapevole di essere sotto gli occhi dei domestici e di chiunque bazzicasse l’affollatissima corte, Morn ne approfittava per riprendere i due allievi più del dovuto. La certezza del continuo viavai di servi e funzionari per i porticati che davano sull’interno del castello che solo buttando l’occhio in basso avrebbero potuto vederli, dava al maestro l’opportunità di prendersi una piccola vendetta per il poco rispetto che gli avevano dimostrato. Ora l’avrebbero sentito, era lui che comandava in quelle due ore mattutine.
– La lotta è un intrico mortale di scatti felini, movimenti audaci e ragionamenti freddi e calcolati. Ricordate: l’attenzione e la prontezza sono elementi fondamentali. Non si combatte dormendo, ragazzi! Sareste già belli che morti ora… – ripeteva in continuazione. Anche se appariva come un uomo rozzo e burbero, bisognava dargli atto del fatto che Roen non perdeva occasione per fargli perdere le staffe e questo giustificava il suo atteggiamento severo nei suoi confronti.
Ad ogni modo, nonostante la fatica e il mal di testa causato dalla sbornia, Roen amava allenarsi. Sentiva i muscoli guizzare sotto la casacca di flanella, era cosciente di ogni spostamento del suo avversario, in questo caso Herald, e si cimentava con destrezza in ogni mossa.
Era un po’ come ballare: un passo a destra, uno indietro e affondo. Una piroetta con la spada sollevata e una parata. Inclinare la schiena leggermente a destra e affondo di nuovo.
Il clangore del metallo su metallo risuonava in tutta la stanza rimbombando, scandendo gli attimi e scacciando i pensieri.
Herald, a dispetto della sua statura elevata e dei suoi arti troppo lunghi, era agile e veloce, si sentiva a suo agio nel combattimento con le spade, anche se preferiva il tiro con l’arco e la balestra. Tuttavia la rapidità e la flessuosità di Roen erano praticamente impareggiabili e l’amico stentava a credere che fosse davvero in grado di muoversi in quel modo dopo appena un paio d’ore di riposo e una bevuta colossale alle spalle.
Quando suo padre lo mandò a chiamare Roen era nella sala degli arazzi. Herald lo aveva lasciato una manciata di minuti prima, dicendo di dover andare a dare un’occhiata a certi conti di famiglia. Lui era un tipo affidabile, pensò il principe. Herald era il tipo di ragazzo che ogni padre sogna di avere. Quasi seguendo un filo logico iniziò a pensare a sé stesso. Era tutto l’opposto. Si divertiva, faceva baldoria con chiunque avesse un po’ di tempo da offrirgli e non dava alcun peso ai compiti che gli venivano affidati. Eppure non erano né tanti, né difficili. Lui stesso si interrogava sulle ragioni del suo comportamento. Quando si chiedeva il “perché?” si rispondeva automaticamente con un “perché no?”. Non si sentiva un principe e non voleva esserlo. Sarebbe sempre stato felice di non essere al posto del fratello maggiore, la guida di un intero popolo non era il suo destino e, se lo fosse stato, avrebbe provveduto in fretta a cambiarlo. D’altra parte era altrettanto felice di non dover diventare un Sacerdote Maggiore dell’Ordine del Nord, come l’altro suo fratello maggiore, il secondogenito.
La sua spiccata abilità nell’arte del combattimento aveva convinto suo padre ad indirizzarlo verso la carriera militare, che gli lasciava ampio spazio di scelta e, soprattutto, tempo per capire meglio sé stesso.
Roen stava pensando a tutto questo mentre rimirava i quadri e gli arazzi dei suoi antenati e delle dinastie che avevano preceduto la sua. Tra tutti c’era il ritratto di una fanciulla molto bella, dai lineamenti dolci e regolari. Capelli scuri e occhi neri, fissava l’osservatore dritto in faccia, senza ritegno, quasi lo volesse sfidare. Il mento girato verso l’alto e le spalle dritte lasciavano intendere l’alta concezione che aveva di sé stessa che l’artista era stato in grado di riportare perfettamente sulla tela. La targhetta sotto la cornice recitava quel che Roen sapeva a memoria: Donna Sirinna Maelia Terza, figlia di Vorden della dinastia Fier, Anno 780 della I era. Era il quadro preferito del ragazzo, perché la giovane raffigurata sembrava tanto dettagliata da poter prendere vita e saltar fuori a testimoniare un passato che il giovane non avrebbe mai conosciuto se non dai canti dei menestrelli.
Il principe era ancora assorto nei suoi pensieri quando un inserviente bussò educatamente e gli riferì che suo padre desiderava riceverlo nella Sala del Trono. Con il suo mezzo sorriso impertinente, Roen si avviò per i lunghi e sontuosi corridoi Sala del Trono voleva dire solo una cosa: guai in vista.
Capitolo Terzo
Talia camminava lungo la parete con la grande vetrata che dava sul limitare della Foresta di Mezzo. Non era una camminata nervosa, la sua, era piuttosto lenta, come se fosse stata costretta a rallentare sotto il peso di mille riflessioni. Ed infatti la testa della ragazza era presa da una miriade di pensieri diversi, ma in quel garbuglio poco chiaro una cosa stava prendendo forma, si stava affermando e stava prendendo peso. Era come se un pensiero stesse ingrassando e stesse diventando pian piano più pesante degli altri, tanto da adagiarsi giù, sui piedi di Talia, facendoli rallentare e dando loro quella lenta cadenza.
Non voleva tornare ad Almena, questo stava pensando. Nonostante il suo viaggio fosse iniziato proprio con uno stratagemma che le permettesse di tornare a vivere in tranquillità nell’unico posto che riconosceva, Talia si era resa conto che ciò che voleva non era la placidità di Almena. La cittadina di pianura le era estranea tanto quanto tutto quello che le era successo fino a quel momento. Tornare lì semplicemente perché era l’unico luogo che le sembrasse familiare le appariva ora non come una rassicurazione, quanto piuttosto come una terribile tortura.
Le parole del Sommo Sacerdote Maruk, però, le risuonavano nelle orecchie e contribuivano a quel ronzio di pensieri da cui non riusciva a liberarsi. Lei, una trovatella senza passato e senza radici, era in realtà una prescelta. Le uccisioni non erano ciò che sembravano. Non era un’assassina, ma la mano degli Grandi Quattro che avrebbe ripulito il Mondo Conosciuto dalla terribile minaccia degli Oscuri.
Stava intensamente ripensando agli occhi di ghiaccio del Grande Sacerdote e alle sue parole rivelatrici, quando Roen entrò nella stanza. Si fermò, le sorrise e avvicinandosi mormorò:
– Troppe novità in una volta, vero?
La ragazza scosse la testa:
– Non è la novità in sé. Penso di essermi abituata alle cose che mi sfuggono di mano – mormorò con un sorriso mesto, – E’ che continua a non avere senso… –
Allo sguardo interrogativo del ragazzo, proseguì:
– Dai, Roen, ci credi davvero? Io la prescelta? Non può essere. E anche se fosse, questo non spiega perché non ricordo nulla della mia infanzia, della mia adolescenza. Perché non so chi sono, né da dove vengo? Qualcosa che spieghi quest’orrendo buco nero deve esserci e non è quello che mi sono sentita dire.-
-Come fai ad esserne così sicura? – tentò di rassicurarla lui, – Il Sommo Sacerdote non è certo uno sprovveduto, non parla solo per dar aria alla bocca, Talia. –
La ragazza ebbe un moto di frustrazione, diede le spalle a Roen e incrociò le braccia. Il cielo si stava lentamente scurendo, un altro giorno era giunto al termine. Sul vetro lucidissimo, si riflettevano ora le sagome dei due ragazzi, sempre più definite sullo sfondo scuro dell’orizzonte che si prospettava loro davanti. La grande foresta appariva sempre più fitta e sempre più oscura, la degna dimora delle leggende che la abitavano.
– Niente per me ha mai avuto un senso. Mi sono svegliata un giorno e mi trovavo ad Almena. Mi hanno dato un nome, una casa e qualcosa da fare. Ma non ho mai saputo perché facessi quello che facevo, non ho mai saputo perché mi trovassi lì. Non mi sono mai sentita a mio agio… – la ragazza si interruppe, con la voce che tremava e il respiro bloccato in gola. – Mi sento così meschina a dirlo, ma da quando tutto questo ha avuto inizio. Le uccisioni, le trance, ci vedo dietro un legame con chi realmente sono, con il luogo da cui provengo. Dire che sono una prescelta incaricata di salvare gli uomini dagli Oscuri che riescono ad evadere dalla Foresta di Mezzo, questo spiega il perché faccio quello che faccio, ma non spiega niente del prima, del come ci sono arrivata, del chi sono. Manca qualcosa… Ancora non so cosa, ma c’è un pezzo mancante in tutto questo. –
L’arrivo di Padre Solio interruppe il discorso. Il sacerdote era accompagnato; i due sacerdoti maggiori, uno con la tunica arancione dell’Ordine dell’Est, uno con la tunica blu dell’Ordine dell’Ovest, scortavano padre Solio con un portamento regale e austero. Le loro espressioni gravose scrutarono la sala e si soffermarono entrambe sul viso crucciato di Talia.
– Siamo pronti? – chiese il sacerdote inferiore.
I due ragazzi annuirono impercettibilmente.
– Non dubitate mai del potere della Sacra Tetrade. – intervenne il sacerdote dalla tunica blu, – Grande è il loro amore per noi e imperscrutabili le loro decisioni. A noi uomini è dato solo applicare la loro volontà.-
Più che una frase di congedo sembrava un ammonimento.
– Ora che abbiamo la vostra benedizione e che la vostra saggezza ci ha illuminato il cammino, i nostri dubbi sono dissipati. Perdonate la mia confusione, Padre. Non era mancanza di fede, ma preoccupazione per la fanciulla. – proferì Padre Solio, rivolto al suo superiore dell’Ordine dell’Ovest. Talia, dal canto suo, la pensava in modo molto diverso e questo, il sacerdote maggiore sembrava percepirlo chiaramente, perché aveva fissato il suo sguardo in quello della ragazza, come a volerle leggere l’anima.
I tre viaggiatori si accinsero a imboccare il grande corridoio sontuoso che conduceva all’uscita della dimora del Sommo Sacerdote. I due sacerdoti maggiori rimasero nel salone dalle grandi vetrate.
– La ragazza ha causato non pochi problemi. – proferì l’uomo dalla tunica arancione.
L’altro annuì:
– Molti più di quanti pensassimo. Non sarebbe dovuto andare così. Gli imprevisti erano calcolati, ma questo ormai è fuori controllo.-
Il sacerdote dell’Ordine dell’Est sogghignò e, allo sguardo di rimprovero del suo interlocutore disse: – l’idea della Luna Nera è tua, come pensi di risolverlo ora?-
– Con qualunque mezzo a nostra disposizione. Il rimedio è sempre proporzionato al problema. Non ridere di me, il Progetto ha lo scopo di salvarci tutti, lo sai. Se fallisco io, muori anche tu. Ma andiamo ora, riuniamo il Consiglio e poniamo fine a questa scomoda faccenda, il Sommo Maruk attende.-
Il confine della Foresta di Mezzo appariva sempre più nebuloso e sfilacciato nel buio della notte. Padre Solio, Talia e Roen cavalcavano avvolti nei propri mantelli, l’umidità si appiccicava ai loro vestiti come una brutta maledizione. Stavano percorrendo la via che li avrebbe condotti al primo avamposto della Terra del Sud, quando Roen tirò le redini del proprio cavallo e intimò il silenzio più totale.
Allo sguardo interrogativo dei suoi compagni rispose mormorando:
– Qualcuno ci segue. –
In quell’istante un dardo lanciato da una cerbottana colpì il cavallo del ragazzo che cominciò a barcollare senza controllo. Roen tentò di liberarsi dalle staffe, ma il cavallo cadendo a terra privo di sensi lo trascinò con sé incastrando la sua gamba sotto il proprio peso.
Altri due dardi colpirono gli animali del sacerdote e della ragazza che erano però riusciti a smontare nel frattempo. Talia estrasse la daga che teneva in vita e si mise sull’attenti, mentre l’uomo tentava di aiutare Roen a liberarsi.
Dall’oscurità della Foresta emerse una luce tremolante. Lilyven apparve tra gli alberi recitando una litania melodica. La sua mano sinistra aveva il palmo rivolto verso l’altro e qualcosa vi bruciava sopra, producendo quella luce che l’aveva annunciata, ma che non sembrava ferirla in alcun modo.
– Non voglio farvi del male, vi prego fidatevi di me! – esclamò la vecchia.
– Chi sei?! – urlò Talia, spaventata, poi riconobbe i lineamenti della donna, – Tu sei la vecchia pazza che ha tentato di ucciderci!
– Non voglio ucciddervi. Anche se i miei modi e i miei mezzi sono rozzi ed estremi non è il vostro male che voglio. Fidatevi di me, non c’è tempo! –
Padre Solio afferrò Talia per un braccio e la nascose dietro di sé.
– Tu… tu sei un Oscuro! – esclamo infine con voce tremante.
La vecchia annuì gravemente:
– Sì, questa è la mia natura, ma nulla di ciò che pensate su di me e sul mio popolo è reale. Il tempo è agli sgoccioli, rischiate di morire, fidatevi, dovete seguirmi nella Foresta!
Una grande tensione si poteva palpare nell’aria.
– Perché dovremmo fidarci di te?- sibilò Talia.
Gli occhi di Lilyven si rovesciarono all’indietro, strane parole iniziarono ad uscire dalla sua bocca. Sembrava come una continuazione della litania che si era sentita poco prima, ma più intensa, concitata, quasi servisse uno sforzo più grande a pronunciare quelle frasi misteriose. Il corpo addormentato del cavallo di Roen iniziò allora a muoversi. Sembrava avesse ripreso vita, se non fosse che il capo dell’animale ciondolava smorto ancora sotto l’effetto dell’anestetico di cui era impregno il dardo che l’aveva ferito. Il grande quadrupede si tiro in piedi, fece qualche passo ciondolante più in là e si riaccasciò al suolo. Roen era libero.
La vecchia smise di recitare quella strana magia:
– Ve lo ripeto, se non mi ascoltate rischiate tutti di morire tra qualche istante. I Sacerdoti non sono chi pensate che siano, siete in grave pericolo. Non posso aiutarvi se vi ostinate a rimanere fuori dai confini della Foresta. Il loro potere qui è troppo forte, mi troverebbero subito se uscissi io e lì siete sotto la loro influenza. Venite! –
Confusi, i tre viaggiatori si guardarono l’un l’altro. Roen si massaggiava la gamba dolorante, cadendo doveva essersi storto una caviglia. All’improvviso non erano più troppo sicuri dell’ostilità della strana donna che portava il fuoco sulla mano, ma non vi fu il trascorrere di un istante che Talia si prese la testa tra le mani e inginocchiandosi al suolo inziò ad urlare di dolore.
– Aiutala Padre!- esclamò Roen, impotente.
– Io non posso far nulla, non so cosa stia accadendo!- rispose il sacerdote in preda al panico.
Lilyven si appoggiò al tronco dell’albero accanto a lei e si sporse in avanti:
– Entrate nella foresta vi prego! Sono i sacerdoti, la stanno uccidendo, io posso salvarla!-
Zoppicando Roen tirò la giovane per un braccio, mentre Padre Solio la prese per l’altro e, insieme, se la caricarono in spalla e avanzarono verso gli alberi. Talia urlava sempre più forte ed era presa da frenetiche convulsioni finché del suo dolore non rimasero che gemiti e un lieve tremolio del corpo. La adagiarono in uno spazio erboso tra due tronchi imponenti.
– Sciocchi e lenti… – mormorò Lilyven, come a rimproverarli di aver tardato così tanto. Si chinò sulla ragazza, le mise il pollice della mano destra tra gli occhi e iniziò a mormorare la solita litania. Quando si zittì la ragazza non si mosse e non diede segni di vita.
– Ci vorrà più del previsto. Non muovetevi da qui per nessuna ragione. – ordinò perentoria. Lilyven allora mise entrambe le mani a coppa sulle orecchie di Talia, le sollevò il capo e soffiò dolcemente il suo fiato caldo tra le labbra della giovane, poi, senza più forze si accasciò accanto a lei.
Passarono i minuti, che si trasformarono in ore. Fu solo alle prime luci dell’alba che entrambe le donne sbatterono le palpebre e si risvegliarono, con sommo stupore e gioia degli altri due compagni. Roen e Padre Solio abbracciarono Talia con un impeto che stupì loro stessi.
– Sei stata tu a salvarmi, vero? – chiese la giovane.
Lilyven annuì, appoggiata al tronco del grande olmo che le stava dietro. Era stremata.
-Perché l’hai fatto? – continuò Talia.
– Perché tu sei un caso unico. – iniziò la vecchia, – non pensavo i sacerdoti avrebbero mai osato tanto, ma l’hanno fatto e questo potrebbe essere la salvezza del mio popolo.-
Padre Solio intervenne acido: – Cosa centrano i sacerdoti in tutto questo? E’ un’accusa quella che leggo tra le tue parole? –
La vecchia annuì ancora e fissò con arroganza i suoi occhi in quelli del sacerdote.
– Come osi, tu, dire questo? – rispose infatti.
– Vi ho salvati tutti, penso di avere il diritto di raccontare la mia parte senza che venga considerata menzogna. – rispose placida la vecchia.
– E sia. – disse Talia, zittendo con lo sguardo il sacerdote, ma rimanendo sul chi va là.
– Sede tutti, non sarà breve. – Iniziò Lilyven – Molti secoli or sono il Mondo Conosciuto era popolato da un antico popolo che viveva e prosperava grazie alla comunione con la natura. Certo traevamo beneficio dai suoi prodotti, ma non ne abusavamo; si chiamava Ayerae Beiur, che nell’antica lingua significa Primi Abitanti, perché non vi erano tracce di alcun popolo venuto prima.
– Un giorno però, da Sud Est giunse un altro popolo, I Nomadi Veloci. Erano uomini, scaltri e intelligenti, abituati a viaggiare in continuazione. I Primi Abitanti non avevano mai avuto a che fare con quella razza prima, ma non vi furono attriti, erano in grado di coesistere sulla stessa terra e si scambiarono i reciproci saperi; fu così che i Nomadi Veloci appresero della vita sedentaria e decisero di rimanere. Ma aumentarono sempre più; sempre più numerosi provenivano dalle loro terre lontane e si installavano abbandonando la loro vita nomade. Il problema della razza umana è l’avidità. Così numerosi non erano più in grado di condividere tra loro, sembrava come se la paura di rimanere senza il necessario per vivere avesse ottenebrato la loro mente.
– Iniziarono a lottare e, infine, trovarono il capro espiatorio nel diverso da loro: i Primi Abitanti. L’errore del popolo indigeno era stato quello di aver condiviso poteri troppo grandi con creature che non erano in grado di saziarsi mai. Fu così che gli uomini, forti del legame con la natura che era stato insegnato loro dai Primi Abitanti, iniziarono una feroce guerra che durò per molte molte decadi. Grandi e incalcolabili furono gli sconvolgimenti naturali, fino a ché la nostra bella terra si ribellò e un grande cataclisma colpì il centro del nostro mondo.
– Dove ora sorge la Foresta di Mezzo vi era un tempo una distesa d’acqua che nutriva e dava vita a tutte le piante e le creature conosciute. Avendo abusato dei poteri conquistati, i Primi Abitanti e gli Uomini avevano causato un forte terremoto che aprì la terra e fece sprofondare tutta l’acqua. Quella era l’unica fonte di vita di tutto il continente.
– Decimati, i Primi Uomini persero la guerra e furono relegati a condizione di schiavi. Furono privati del loro sapere e costretti nell’ignoranza per le decadi a venire. Gli uomini assunsero il controllo e costrinsero il popolo sconfitto ad estrarre acqua dal sottosuolo e convogliarla verso le terre del Mondo Conosciuto, in modo da mantenere la vita e, con essa, il proprio stato di supremazia. Attorno all’area in cui vi era la grande distesa d’acqua crebbe una foresta, sempre più fitta e sempre più rigogliosa. Per paura, gli uomini relegarono con potenti magie i Primi Abitanti all’interno dei confini della foresta, in modo da poter disporre di loro per l’acqua e in modo da poter nascondere la loro stessa esistenza.
– Fu così che i Primi Abitanti divennero una leggenda che infestava gli oscuri antri della foresta e, da questo, presero il nome di Oscuri. Gli uomini si resero conto del grande rischio che correvano nel lasciare gli Oscuri in vita, eppure non potevano sterminarli perché qualcuno doveva estrarre l’acqua dal sottosuolo. Allora idearono la menzogna della Sacra Tetrade, con cui incatenavano la mente degli uomini stessi a credere ciecamente in un potere superiore da non mettere mai in discussione.
– I Primi Abitanti persero la memoria del loro popolo, ma lo stesso fecero gli uomini. Tutti i documenti risalenti a quell’epoca vennero distrutti e il passato venne riformulato. Ora i Sacerdoti custodiscono questo grave segreto e vigilano sulla vita artificiosa che hanno creato, ma sono gli unici a conoscenza della verità.
Un grave silenzio calò tra i presenti. Padre Solio spostava scomodamente il peso del proprio corpo in ogni direzione:
– Come possiamo credere a tali parole? Come fai tu a sapere tutto questo se, come dici, hanno mantenuto il tuo popolo nell’ignoranza?
Lilyven lo fissò negli occhi e con fermezza rispose:
– Io c’ero. – fece una pausa, – Non ero che una ragazzina, ma sono una delle poche rimaste che ricorda proprio perché l’ha vissuto. Agli occhi del mio stesso popolo sono una vecchia pazza che racconta di una vita mai esistita. – si girò verso Talia, – So come ci si sente a non aver un posto nel mondo. –
La giovane era confusa, non sapeva ancora se credere o no a quella strana donna che aveva davanti.
– Talia cosa c’entra in tutto questo? – intervenne Roen.
– Talia non è Talia e tu questo lo sai. – mormorò la vecchia di risposta, – Tu l’hai riconosciuta, quella notte, fuori dalla locanda, quando li hai liberati da me, vero? L’ho letto sulla tua faccia che l’hai riconosciuta subito. –
la giovane si girò di scatto verso Roen: – Cosa vuol dire questo? –
il ragazzo la guardò e annuì: – Sì, è vero. Il motivo per cui io e Flinn siamo venuti a cercarvi è che questa donna stava passando davanti alla locanda in cui eravamo a scommettere; il tuo viso si è scoperto e… Il fatto è che tu sei la goccia d’acqua di una mia antenata. Ho visto il suo ritratto alla corte di Narya migliaia di volte. Lo conosco a memoria perché è uno dei miei quadri preferiti e tu sei identica. Anzi, no, non sei identica, tu sei la ragazza di quel quadro. E hai il portamento di una regale, lo stesso modo di fare di una donna di palazzo. Non sembri un’orfana trovatella. Non ne ho mai fatto parola perché mi sembrava di essere pazzo, ma ammetto che sia questo il dettaglio che più di tutto mi ha spinto a seguirvi e aiutarvi. Non mi capacitavo di come fosse possibile… –
Lilyven annuì, come se le parole di Roen fossero una spiegazione abbastanza logica da bastare a tutti. Padre Solio scosse la testa, ancora più confuso di Talia.
– Spiegateci cosa significa tutto ciò. – esclamò esasperato il sacerdote.
– Cosa ti hanno detto i sacerdoti, ragazza? Che sei una semidea che salverà il mondo? O magari che sei la mano destra di Isil? – domandò la vecchia, – Ti hanno fatto credere di essere destinata a compiere la missione dei Grandi Quattro, non è vero? Lo immaginavo. Tu non sei niente di tutto ciò. –
-Dimmi chi sono. – intimò Talia, il cuore che le batteva sempre più forte. La vecchia riprese a spiegare:
– I Sacerdoti hanno relegato gli Oscuri nella Foresta di Mezzo, costruendo potenti magie per recintarci qui e per rendere il resto del Mondo Conosciuto un posto in cui non possiamo legare con la natura, che rappresenta la fonte dei nostri stessi poteri. Qui dentro siamo abbastanza liberi, ma non possiamo uscire e fuori dalla foresta siamo impotenti. All’incirca una decade fa, con un amico, sono riuscita a trovare un modo per evadere con pochi altri. Il nostro scopo era nasconderci e far uscire altri per trovare un modo definitivo di liberare il nostro popolo. Facevamo progressi, ma i sacerdoti ci hanno scoperti. Hanno cominciato a braccarci in ogni modo, fino a che non hanno scelto te.
– Tu, ragazza, non sei che un loro esperimento. Sembri tanto simile all’antenata di questo giovane perché tu sei quest’antenata. Tu sei il suo corpo. Il corpo dei reali, quando viene seppellito, viene protetto con alcune magie che ne preservano le sembianze nel tempo; sono tecniche che gli uomini appresero dai Primi Abitanti. Capisci che risvegliare un morto il cui corpo è stato preservato risulta molto più efficace che risvegliare uno scheletro in decomposizione. Tu eri morta, Talia. Ti hanno risvegliata con un’antica magia estremamente potente e ti hanno plagiata in modo da poterti usare per uccidere chiunque tra gli Oscuri riuscisse ad evadere dalla Foresta di Mezzo. Tu, per i sacerdoti, non sei che una di una lunga serie di cavie sfruttate a questo scopo. Prima di te hanno provato molti altri modi, che si fanno via via più efficaci, ma anche più azzardati.
– Risvegliare i morti scuote poteri che nessuno, neanche tra i Primi Abitanti, ha mai conosciuto. Ora sei in pericolo perché sanno che non sta funzionando, che la loro arma fa fatica a collaborare. Hai sollevato troppe domande e per questo hanno tentato di ucciderti.-
Talia boccheggiava in cerca d’aria. Le spiegazioni che tanto aveva agognato le erano state date, ma non si erano rivelate un sollievo, come aveva sperato. Più andava a fondo e più si sentiva legata in un destino che non avrebbe mai voluto. Con disperazione guardò prima i suoi amici e poi Lilyven; quello che voleva in quel momento non era una spiegazione, ma speranza.
– Non posso prometterti speranza, ma posso proporti un aiuto. Il mio in cambio del vostro. – disse la vecchia. – Aiutateci a divenire un popolo libero e io farò quanto in mio potere pur di aiutarti a ritrovare una via d’uscita da questa vita che ti è stata imposta.-
Due grosse lacrime bagnarono il volto della giovane; si sentiva dilaniata, usata e violata come non si sarebbe mai aspettata di sentirsi.
Padre Solio le circondò le spalle con il suo grosso braccio e mormorò: – Figliola, ritroverai te stessa. Ce la faremo, vedrai. In un modo o nell’altro siamo insieme in questo. – non sapeva bene neanche lui quanto credere alle proprie parole, ma si rifiutava di abbandonare quella giovane al destino cui era stata condannata. In tutta una vita spesa rincorrendo un ideale traballante, aveva trovato in quella ragazza e amica un legame così prezioso che l’avrebbe spinto ben oltre le sue stesse paure.
Anche Roen si avvicinò e le mise una mano sul braccio; un po’ insicuro anche lui le sorrise: – Riprenderemo la tua vita, sistemeremo le cose, vedrai. Anche io sono con te. –
Lilyven sorrise. Da molti secoli non sentiva questa flebile speranza che si stava ora spandendo per le sue vene come fuoco caldo in una notte d’inverno; guardò Talia negli occhi e disse:
– E questo non è che l’inizio.-