L’abete dei sogni
di Sonia Scalia
Primo livello – Corso Adulti
Le parole del mister aleggiavano come stelle filanti nella testa di Leo. Era su di giri. Il ragazzo sapeva che i sacrifici immensi a cui si era sottoposto in quegli ultimi due anni, lo avrebbero portato al traguardo che si era prefisso. I suoi genitori per primi lo avevano incoraggiato a perseverare. La corsa prima di andare a scuola, e i pomeriggi estenuanti ad allenarsi in pista, correndo i 400 metri in tempi sempre minori, finalmente, gli avrebbero permesso di partecipare alle Olimpiadi giovanili che si sarebbero disputate in giugno. Leo voleva urlare di felicità. Per questo, mentre tornava a casa dagli allenamenti, si diresse su per la collina. In cima alla quale lo aspettava un vecchio amico solitario: il maestoso abete. Quello era un posto davvero speciale per Leo. Con quell’abete era cresciuto. Aveva pianto e riso. Sfogato momenti tristi e condiviso quelli belli. L’abete gli faceva compagnia quando salutava la partenza dei genitori. E allo stesso tempo il loro arrivo in automobile. Nel prato, sotto quell’ombrello di rami e foglie aveva imparato a camminare e a correre. Correre: la ragione della sua vita. Come poteva dimenticarlo. Era grato allo spirito di quell’albero che lo vegliava e gli dava la forza di credere in se stesso. Lo sentiva come uno di famiglia.
Nel cielo scesero intanto i fili rosa del tramonto filtrando tra le foglie dorate che pendevano dai rami.
D’un tratto, da dietro il tronco massiccio spuntò Bimba, il pastore tedesco del signor Kadinski. Con un balzo gli andò incontro agitando festante la sua pettorina rossa con impressa una croce bianca.
Il cane pareva volesse festeggiarlo. Leo si chinò e gli strinse le braccia attorno al collo. Poi insieme scivolarono nel secco tappeto autunnale. Leo rise. Il suo sogno stava per coronarsi. E proprio quel pomeriggio il mister glielo aveva ribadito di fronte l’intera scolaresca. Che emozione! Aveva detto che se c’era qualcuno che poteva vincere quella competizione, di sicuro era Leonardo Mancini. Lo attendevano dei mesi faticosi ma lui non avrebbe ceduto alla stanchezza. Nonostante la giovane età, Leo aveva le idee ben chiare riguardo la sua carriera di atleta. Aveva ereditato la tenacia di sua madre e la caparbietà del padre. E nulla gli avrebbe impedito di salire sul podio della più importante manifestazione riservata ai minori di quattordici anni.
<<Bimba, torna qui!>> La voce di Orlando Kadinski lo riscosse da tanti sogni di gloria. Era davanti al suo cavalletto, la tavolozza dei colori in mano. Anche lui trascorreva parecchie ore in quel luogo magico.
Leo si avvicinò al pittore. Bimba lo seguì a ruota e di corsa andò a sfregare il musetto nei pantaloni del padrone come a volerlo tranquillizzare.
<<Sei tu, Leonardo Mancini>> chiese Kadinski, gli occhiali scuri sul naso. Era intento a sfregare le dita impiastricciate sulla tela. <<Odori di terra e fango. Hai corso all’ippodromo, oggi?>>
Leo abbozzò un sorriso in segno di saluto. Ormai si era abituato ai modi un po’ scorbutici del vecchio Orlando. Di sicuro amava l’abete tanto quanto lui. Altrimenti, pur essendo suo vicino di casa, com’è che lo aveva incontrato sempre e soltanto lassù. In quel preciso momento, Leo portò una mano alla fronte, che stupido si disse ripensando al signor Kadinski, lui non poteva vedere il suo cenno.
<<Sì, sono io>> si annunciò Leo a voce alta. E quando giunse alle sue spalle, sporse la testa per osservare meglio il quadro. Il ragazzo sgranò gli occhi mentre stupefatto si soffermava sui dettagli. Il dipinto presentava la scena di un picnic. C’era una bambina che frugava curiosa dentro un cestino portando un toast alla bocca, mentre una coppia di adulti era beatamente seduta accanto a un cane munito di collarino, lo stesso di Bimba, e godeva del paesaggio all’ombra del grande abete. La veduta era mozzafiato, forse ancora più bella della realtà. Minuscole stradine s’inerpicavano lungo il pendio, sormontando le colline e circondando i magnifici vigneti della zona. E in effetti, assaporata con gli occhi la bellezza del quadro, Leo poté respirarne perfino i sapori. Erano lì, tutt’attorno a lui. L’agrodolce della vendemmia, la corteccia legnosa, l’aria frizzante portata dal tramonto e non ultimo, il muschio bianco del dopobarba del pittore accompagnato dal respiro pesante del cane.
Il pittore silenzioso, occhio e croce sessantenne, non badò all’intrusione del ragazzo e proseguì nella rifinizione dell’opera. Intinse i polpastrelli nel colore e con tocchi decisi ne marcò i giochi di ombre e di luce. A dire il vero, Leo ebbe la sensazione che Kadinski stesso fosse finito dentro quel quadro e stesse godendo di quell’intima scena familiare.
<<Si sta facendo buio. Posso accompagnarla?>> lo disturbò Leo. Abitavano a due passi l’uno dall’altro per questo aveva pensato di fare strada insieme e chiacchierare un po’.
Orlando Kadinski arricciò il naso.
<<Ehi ragazzo, so bene come si arriva a casa mia>> gli rimbrottò contro. <<Vuoi farmi credere che ti importa di me. Di un vecchio cieco. Tornatene a casa Leonardo. Dai!>>
Il ragazzo non se la prese. Sapeva, quanto fosse suscettibile il suo vicino. E comunque, Bimba lo marcava stretto senza perderlo di vista un istante. Dunque Leo li salutò entrambi, e prima di andare via, fece una pausa ai piedi dell’abete. Ne accarezzò un ramoscello bisbigliando qualcosa poi si affrettò a rincasare.
Ridisceso il pendio, pur se ancora distante da casa, Leo riconobbe la sagoma pacioccona della badante. Lo aspettava all’ingresso mentre impagliava dei fiaschi. I lampioni illuminavano a giorno l’intero caseggiato mettendo in risalto i colori sgargianti della veste della donna. Aveva un turbante verde in testa e indossava delle stole gialle, verdi e arancioni sovrapposte, lunghe fino ai piedi.
< <Eccomi. Ci sono riuscito Maddy>> le disse varcata la soglia di casa.
<<Lo sapevo>> fu la risposta compiaciuta della badante. Adorava quel ragazzino. Lo aveva cresciuto fin dalle fasce donandogli un po’ di sano temperamento marocchino. <<Corri a chiamare i tuoi>>.
Leo non se lo fece ripetere due volte. Sollevò la cornetta del telefono e prese un blocnotes su cui erano appuntate una sfilza di date relative alla tournèe dei suoi genitori: erano entrambi musicisti.
<<Oggi è il 12 ottobre, dunque l’orchestra si esibisce a New York>> e fece scivolare il dito sulla riga accanto alla data. Ci trovò il numero della stanza di hotel in cui Anna e Carlo Mancini soggiornavano. Lo compose. Era elettrizzato al pensiero di informarli della grande notizia. Chissà quanto sarebbero stati orgogliosi del loro unico figlio. Al quarto squillo ancora nessuna risposta.
Maddy gli diede una pacca premurosa. Leo sorrise. Li avrebbe richiamati più tardi. Carlo e Anna suonavano rispettivamente la tromba e il pianoforte nella famosa Orchestra Sinfonica Galaxy. Facevano tappa in tutti i maggiori teatri del mondo lavorando 300 giorni su 360. Tornavano nella loro casa a Settignano in Toscana poco prima del Natale, e nel periodo estivo, tra giugno e luglio. Erano due persone straordinarie perciò Leo li amava esattamente com’erano. E sebbene ne avvertisse la mancanza, il ragazzo li sentiva molto vicini. Anche perché Anna e Carlo gli telefonavano quotidianamente e pretendevano di sapere ogni cosa, sia bella che brutta lo riguardasse. Inoltre, poteva contare sul loro appoggio e sostegno in qualsiasi circostanza. La decisione di accettare una lunga tournèe in giro per il mondo, lavorando tanto distante dal figlio, per diversi mesi all’anno, non era stata delle più facili. Ma lasciandolo con Maddy gli davano l’opportunità di avere una vita più stabile. Tra l’altro, Maddy, la donna marocchina che se ne occupava, lo trattava con amore come fosse figlio suo.
<<Sei andato a salutare il Principe?>> interruppe il filo dei suoi pensieri la donna portando a tavola la cena etnica. Utilizzava questo nomignolo come gli altri abitanti del paese, per riferirsi all’abete alto pressappoco cinquanta metri.
<<C’era pure Kadinski>> le rispose Leo.
<<Ah, pover’uomo! Sono anni che non si fa vedere giù in paese>> mormorò Maddy e di proposito lasciò cadere la conversazione. Non le andava di rattristare Leo, felice com’era.
Quella sera Leo riprovò a chiamare la sua famiglia ma senza successo. Il concerto immaginò si fosse protratto più a lungo nell’ovazione del pubblico ai musicisti. Sorrise all’idea e si ripromise di telefonare l’indomani dopo la scuola. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ai suoi genitori. Ma il ragazzo non poteva di certo prevedere cosa stava per succedere. Quella telefonata non ci sarebbe mai stata e forse il suo sogno, infranto per sempre.
Il mattino seguente Leo di buon umore si recò a scuola. Le lezioni si susseguirono piacevoli. Nessuna interrogazione a sorpresa. E agli allenamenti superò se stesso, riuscì a bruciare un altro secondo durante il giro in pista. Era al settimo cielo.
Con lo zaino in spalla, traboccante di gioia si accinse ad attraversare la strada e imboccare il sentiero. Voleva andare all’abete, per ringraziare il suo angelo custode e rendere partecipe pure Kadinski, che in fondo, pur cercando di mostrarsi indifferente, pareva gradire molto la sua compagnia e lo ascoltava a cuore aperto, e Leo aveva proprio voglia di parlare all’infinito.
Il ragazzo ancora sul ciglio della strada alzò gli occhi al cielo. Coltri di nuvole lo oscurarono. Un acquazzone era in arrivo. In lontananza udì un clacson strombazzare. Si voltò a sinistra e vide un furgone azzurro lanciato a gran velocità. Sbandava e frenava a più riprese invadendo anche la corsia opposta. Poi parve riprendere il controllo. D’un tratto però puntò dritto verso Leo. I suoi muscoli si paralizzarono. Uno stridio di pneumatici e nel giro di pochi secondi quel furgone gli piombò contro. Il ragazzo emise un urlo e poi nulla. Come coriandoli sparsi per terra, i sogni di Leo gli piovvero addosso allagando di tristezza la sua vita. Nel frattempo la pioggia scrosciante né colpì il corpo svenuto a causa del violento impatto.
Subito accorse gente da ogni dove e immediati arrivarono i soccorsi.
In seguito Leo ebbe difficoltà a ricordare l’incidente ma da subito si rese conto che il dolore lancinante alle sue gambe lo avvertiva di un danno assai serio.
Furono i suoi genitori a raccontargli l’accaduto. Appresa la notizia avevano preso il primo volo per la Toscana. Da loro seppe che quel giorno un uomo di mezza età si era addormentato alla guida del suo furgone. Non sapeva dire per quanto tempo, forse pochi attimi, ma appena riaperti gli occhi se l’era ritrovato davanti. L’uomo era stato dimesso pochi giorni dopo l’incidente con delle contusioni al viso e al braccio. Leo invece, e di questo era esausto, aveva passato due mesi in un letto d’ospedale. Dopodiché, dimesso su una sedia a rotelle.
Adesso se ne stava per conto suo nella casa di Settignano ed evitava di parlare della sua carriera e della competizione di giugno. Si sentiva deluso come se lo spirito dell’abete che lo aveva protetto fino ad allora, d’un tratto si fosse accanito contro di lui affinché non realizzasse i suoi sogni.
<<Ci sono visite Leo>> lo chiamò la madre. Anna e Carlo erano costretti a ripartire tra meno di una settimana. La tournée era stata sospesa in quei mesi. E sebbene non volessero distaccarsi da lui, il medico li aveva rincuorati che Leo avrebbe ripreso l’uso delle gambe. La colonna vertebrale non aveva riportato danni. L’immobilità di Leo era dunque temporanea, causata dal contraccolpo subito nell’urto. Forse uno spirito invisibile lo aveva protetto. La questione era quella di credere di nuovo in se stesso.
Leo spalancò gli occhi alla vista di Orlando Kadinski preceduta da un tuffo d’angelo da parte di Bimba. Era bello rivederli.
<<Ehi campione>> Era la prima volta che il pittore lo chiamava così. Aveva una voce gentile, di cui, Leo si sentì scocciato. Non voleva essere compatito. Ora che il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi Giovanili era andato in fumo. Poi colto dalla rabbia si rese conto di come lui e il suo vicino di casa non fossero invece, più simili di quanto pensasse. Ricordò la reazione di Kadinski quando, l’ultima volta in cui si erano visti, lui si era offerto di accompagnarlo. Si era sentito compatito perché cieco? E ora chi è che si sentiva compatito, lui?
<<Quanto tempo!>> fece a tempo a dire Leo mentre rotolava abbracciato a Bimba sul pavimento.
Anna preoccupata si precipitò pronta a tirarlo su, ma Leo stava ridendo, finalmente. E Bimba abbaiava divertita.
Da quel giorno e nella settimana che precedette la partenza dei suoi genitori, Leo e Kadinski passarono parecchio tempo insieme diventando praticamente inseparabili. Pian piano tra loro si delineò un rapporto di fiducia e di amicizia, e le parole che scambiavano aumentarono di numero. Leo oramai manovrava la carrozzina come un pilota di formula uno, e pareva non volesse più distaccarsene. Perciò Kadinski che lo guardava con gli occhi dell’anima, quando giunse la partenza di Anna e Carlo, approfittò per ricondurlo all’abete. Li avrebbe ritrovato la forza di credere in se stesso.
Pur se in carrozzina Leo s’inoltrò per il sentiero. Il signor Kadinski lo aspettava con Bimba sotto l’abete. L’automobile dei genitori percorse un tratto di strada e due mani si protesero dal finestrino. Leo era in cima alla collina e si sbracciò per salutarli come faceva prima dell’incidente.
<<Riuscirai a perdonarli?>> gli chiese il pittore e gli poggiò una mano sulla spalla.
<<Non sono arrabbiato>> rispose Leo colto alla sprovvista da quella domanda. Continuò ad agitare le braccia per essere sicuro che Anna e Carlo potessero vederlo.
<<Sono partiti e tu sei su una sedia a rotelle>> proseguì duro il pittore . <<La cosa non ti irrita?>> Kadinski stava cercando di smuoverlo. Di farlo riflettere, di fargli capire che ognuno di noi è responsabile della propria vita. Ma non poteva prevedere che a riflettere sarebbe stato pure lui.
<<No. I miei genitori mi amano e sono tornati al lavoro proprio perché credono in me. Credono che io possa guarire>>.
Orlando, come se il ragazzino in qualche modo avesse riaperto una ferita troppo profonda, stupito e allo stesso tempo commosso dall’incapacità di quel tredicenne di provare una qualsiasi forma di collera nei confronti dei genitori, si lasciò andare al fluire dei ricordi. Abbattendo un muro di silenzi innalzato da dieci lunghissimi anni.
<<Sono cieco dalla nascita, ma non ho mai sofferto per questo. Del resto, non occorrono occhi per vedere…>>
Pur se non comprendeva le sue parole, Leo lo ascoltò senza fiatare. Temeva di interrompere la complicità di cui il pittore lo stava rendendo partecipe.
<<Ero felice e sposato. Non sono sempre stato un vecchio solo e bisbetico>> gli disse con un sorriso e accarezzò il muso di Bimba.
<<Non l’ho mai pensato signor Kadinski>> rispose piano e fece una pausa per farlo continuare. Era bello ascoltarlo.
<<Adoravo Jacqueline, mia moglie e nostra figlia, la piccola Lorin. Aveva pressappoco la tua età quando sua madre morì. Ma Lorin ha scelto di andare a vivere con la nonna invece di restare con me, con suo padre. Sono dieci anni che non la sento. Come ha potuto?>> Il signor Kadinski tremava e per evitare che Leo se ne accorgesse riprese la tavolozza dei colori. Questa volta la tela posta sul cavalletto raffigurava il Principe.
<<Sono certo che anche Lorin sarà triste e vuole rivederla signor Kadinski>> si premurò di ricordargli Leo.
<<Nient’affatto. La verità è che mi odia>> Il pittore pronunciò secche queste ultime parole lasciando cadere il discorso.
Soltanto ora Leo capiva quell’uomo tanto solo, il perché non si fidasse di nessuno. Stava male per la figlia. Non le perdonava quel colpo basso. Intanto immerso nelle sue riflessioni il ragazzo si rese conto che sulla tela del pittore c’era, identico all’originale, l’abete. In tutta la sua maestosità.
<<Non capisco come ci riesci se…>> cercò di spiegarsi Leo.
<<Cosa?>> domandò Orlando. <<Se non ci vedo? E questo che vuoi dire? Te l’ho detto, con gli occhi della mente. È la forza dell’immaginazione Leo. È lei che mi da gli occhi per vedere e a te darà le gambe per camminare, e la gioia di sognare ancora>>.
In quel preciso istante Leo si abbrancò a Kadinski.
<<Lo voglio Kadinski! Lo voglio!>> urlò con quanto fiato in gola. E piangendo tentò di sollevarsi. Ma le sue gambe si rifiutavano di reggerlo. Erano pesanti. Ebbe la sensazione di sprofondare. La testa girava.
Il pittore lo incitava a non mollare. <<Forza Leo! Sei un vero campione!>>
Le palpitazioni accelerarono e Leo barcollante si aggrappò alla camicia di Kadinski, tenne duro.
Voleva camminare. Voleva correre. Voleva vivere. Voleva sognare.
Quella fu la prima volta che Leo riuscì a mettersi in piedi. Le lacrime rigarono anche il viso del pittore che lo tenne a lungo stretto in un abbraccio paterno. Leo provò una gioia indescrivibile. Comprese finalmente cos’era la forza che emanavano i quadri di Kadinski, lui viveva dentro quei sogni. Ed era arrivato il momento di farli diventare realtà.
A casa, Leo raccontò a Maddy, e ai suoi genitori per telefono, degli insegnamenti di Kadinski, il suo continuo incoraggiamento e soprattutto dei progressi della giornata. Seppe in cuor suo, che presto avrebbe camminato e perché no, sarebbe tornato in pista tra i favoriti. Quella pista dove un tempo si allenava per partecipare alle Olimpiadi. Poteva farcela.
La primavera a Settignano sbocciò in un’esplosione di fiori, piante e colori. Grazie all’aiuto del vicino, Leo non si era arreso. Aveva creato per se il futuro più bello che un ragazzo potesse desiderare. L’immaginazione trasformava la realtà e lui ora lo sapeva. Ora che faceva lunghe passeggiate in compagnia di Kadinski e corse furibonde con Bimba. Aveva ripreso gli allenamenti e presto sarebbe tornato in forma e forse, ancora più veloce di prima. La carrozzina era solo un ricordo.
In giugno a Roma si tennero le Olimpiadi. Leo pur partecipando non vinse ma era felice uguale. Lui era un’atleta. E dopo tutto quello che aveva passato, ora ci credeva davvero. D’altro canto, i suoi tredici anni gli permettevano di riprovarci l’anno successivo.
Di ritorno a Settignano, in una splendida mattina soleggiata, il paese organizzò una festa in suo onore. Tutti volevano festeggiarlo. Parteciparono anche Anna e Carlo Mancini tornati dalla tournèe; Maddy che preparò dei gustosissimi dolci a base di riso e cannella; i compagni di scuola, gli insegnanti, l’allenatore di atletica e pure Kadinski e Bimba, nemmeno loro vollero perdersi la festa.
E Leo, era molto riconoscente a Orlando Kadinski, perciò aveva in serbo qualcosa di molto speciale per lui. Qualcosa che doveva ancora diventare realtà.
D’improvviso Bimba sparì tra la folla. Il pittore la chiamò senza ricevere in cambio nessuna risposta.
<<È andata per di là>> fece Leo. <<Andiamo a riprenderla!>> Poi lo prese sottobraccio e insieme imboccarono il sentiero che portava alla collina.
Il corteo li seguì. Con in coda la banda musicale al completo risalirono l’altura fino all’abete. In pochi minuti un serpente di gente festante approdò sulla collina del Principe.
Di colpo quel nugolo di persone si zittì. Davanti ai loro occhi si presentarono, disposti gli uni vicini agli altri, una varietà di teli multicolore. Tavoli imbanditi di cibo, toast ripieni e caraffe piene fino all’orlo di succo d’uva e di mela. E sull’abete, i compaesani del pittore, vi appesero dei fogli dentro cui ognuno aveva scritto il proprio sogno.
Quello sarebbe stato un picnic davvero speciale per Kadinski e un giorno memorabile per l’intero paese.
D’improvviso un cane abbaiò. Una, due, tre volte. Kadinski lo riconobbe, era Bimba. La teneva al guinzaglio una donna bionda sulla ventina.
<<Papà!>> lo chiamò, baciandolo sulla guancia. <<Ho avuto paura. Non volevo abbandonarti>>.
Orlando Kadinski era commosso. Le sue labbra tremolavano.
<<Mi sono trasferita dalla nonna perché mi ricordava tanto la mamma. Ero solo una bambina… Lo sai che non sono brava con le parole!>>
<<Tu no, ma lui sì!>> fece il pittore e puntò l’indice verso Leo come se potesse vederlo. Dopo dieci interminabili anni Kadinski riabbracciò la figlia. Quel tredicenne lo aveva aiutato a realizzare il suo sogno.
Poi il pittore addentò un toast, e col cuore pieno di felicità ammise a se stesso che quello era il sogno più bello che avesse mai fatto. Era la realtà.