L’ESAME di Marika Susio. Secondo Livello – Corso Adulti

L’ESAME
di Marika Susio
Secondo Livello- Corso Adulti

“E’ sicura di volere entrare nella nostra scuola?” chiese l’insegnante.
“Sì” rispose l’alunna.
“Bene. Sta iniziando un’avventura assai complessa. Il corso d’addestramento durerà all’incirca due anni, per accedervi dovrà superare cinque prove.
Iniziamo dalla prima.
Descriva nei minimi dettagli se stessa. Non menta. Non è importante l’indole del suo carattere. Può essere buona o cattiva. Ciò che conta è la passione. Mi deve stregare.
Voglio sapere quante più cose di lei. Età, lavoro, la città dove vive, chi frequenta, le sue esperienze pregresse, i problemi che affronta ogni giorno, gli amori, le amicizie, i nemici, le sofferenze, le malattie, le gioie etc etc.
Ha bisogno di chiarimenti?”
“Non credo”.
“Bene. Allora inizi”.

*
“Sono nata in un piccolo paese alle porte di una cittadina del nord Italia. Erano gli inizi degli anni quaranta. La guerra stava finendo.
Di quel periodo ricordo poche cose. Le spesse tende scure che non lasciavano filtrare la luce per i bombardamenti e un buffetto fattomi da un giovane soldato tedesco, il giorno in cui le truppe alemanne lasciarono la villa dei conti per tornarsene definitivamente in Germania.
Strana la memoria.
All’età di dieci anni ho fatto la baby sitter in una villa signorile in una città vicina.
Roberto, il bambino affidato alle mie cure aveva due anni più di me. Buffo vero? La differenza tra chi proveniva da un mondo povero rispetto ad un mondo ricco era, ed è ancora, per molti versi, notevole. Io, quinta di sette sorelle, ho dovuto crescere in fretta. Sin da piccola mi è stato insegnato il valore della sopravvivenza, dove nella mia famiglia era inteso con il motto “l’unione fa la forza”. Ognuna di noi, nel proprio piccolo doveva badare a sé, ai bimbi più piccoli e al contempo contribuire ai lavori quotidiani, che comprendevano oltre alle faccende domestiche, lavori nei campi e nell’aia del padrone di cui mio padre era mezzadro.
Era una vita dura, ma mi stava temprando per il mio essere adulta.
Non ho mai invidiato Roberto. Anzi, ad essere sincera mi faceva un po’ tristezza.
Figlio di un ricco dottore, sotto la guida di un insegnante privato, passava ore e ore in solitudine a studiare per poter diventare un giorno un dottore all’altezza del padre. Quando pensava nessuno lo vedesse, spiava i giochi dei ragazzi di strada. Era evidente che avrebbe venduto ogni sua ricchezza per poter correre insieme loro, calciando un vecchio barattolo di latta.
In quella casa c’erano un sacco di comodità, normali al giorno d’oggi ma incredibili per me allora.
L’acqua corrente in casa, per esempio, era una delle tante cose che mi parevano miracolose. A casa mia l’acqua si prendeva dal pozzo e veniva usata con parsimonia; qui ti avvicinavi al lavandino, giravi una manopola, posta sopra un tubo curvo chiamato rubinetto, e l’acqua fuoriusciva a fiotti, calda o fredda. Non parliamo poi della comodità di avere un water, con tanto di acqua corrente e nel poter evitare di fare i tuoi bisogni in un vasino e del doverli trattenere, sotto al letto, fino al mattino successivo.
I miei compiti, in quella grande casa, consistevano nel tenere compagnia al signorino Roberto e nel non farlo sentire troppo solo. Riordinavo la sua stanza e gli raccontavo storie, inventate di volta in volta, ambientate in posti immaginari, con ragazzi intrepidi e coraggiosi come protagonisti. Un giorno in cui ero uscita per delle commissioni presso il fruttivendolo del grande mercato, che si svolgeva la mattina di ogni giovedì, passai di fronte ad una libreria e vidi in vetrina le avventure di Tom Sawyer. Costava parecchio per le mie possibilità, ma il libraio riconosciutami come la bambinaia del signorino Roberto me lo incartò e me lo diede sulla fiducia.
Roberto si divertì molto ad ascoltarmi e spesso mi chiedeva, prima di addormentarsi, di rileggergli il racconto in cui Tom, costretto a dover dipingere la staccionata della zia, convince i suoi compagni di quanto sia divertente eseguire quel lavoro, al punto tale da indurli a farlo al suo posto e per di più dietro compenso.
Quando Roberto compì quattordici anni fu iscritto in un collegio. Il mio aiuto non servì più e così ritornai a casa. Di quel periodo mi è rimasto il ricordo di Roberto e l’amore per le cose belle e le comodità. Una volta tornata a casa, la vita di campagna mi stava stretta ed ebbi dei momenti bui, così dopo qualche anno mi trasferì in città nella dimora della zia Alba, sorella di papà.
Eravamo alla fine degli anni cinquanta, si respirava già l’aria frizzante del cambiamento che avrebbe segnato gli indimenticabili anni sessanta.
Per sbarcare il lunario lavoravo senza sosta. Di giorno vendevo i fiori all’angolo della piazza del grande duomo, mentre la sera servivo in un ristorante nei pressi del teatro cittadino. Con i primi soldi risparmiati acquistai un cappellino alla moda nella cappelleria più bella della città. Mi costò una fortuna, ma Dio come mi sentivo. Armata della mia presenza mi recai nella caffetteria sotto i portici. Era il posto della gente bene.
Ordinai un caffè, mi sedetti ad un tavolo all’esterno e mi apprestai a fumare una sigaretta con un bocchino in bachelite, che una vecchia signora mi aveva donato una sera al ristornate. Mi sentivo tanto Audrey Hepburn in colazione da Tiffany. Peccato che alla prima boccata per poco non mi soffocai con il fumo. Un ragazzo ben vestito seduto ad un tavolo vicino mi vide, mi schiacciò un occhio e si mise a ridere. Il mio primo giorno da signora di alta classe finì così. Mi alzai con l’aria più imbronciata che offesa e dopo avere pagato il conto me ne andai.
La prossima volta, mi dissi, sarebbe andata meglio…”

*

“Ok, basta così. Lei mi sembra una ragazza interessante. Mi piacciono le sue potenzialità. Sono curiosa di sapere come affronterà la seconda prova. Eccole un foglio.
Curi molto i dialoghi e non faccia troppe ripetizioni, non deve essere opprimente.
Mi racconti il primo incontro d’amore che ha vissuto. Mi descriva le circostanze e le modalità in cui è avvenuto. Come avviene la dichiarazione d’amore. Il bacio e le prime intimità. La sensazione dell’innamoramento deve pervadere ogni riga. Deve dunque scrivere l’amore. Deve farlo emergere in ogni parola.”

La ragazza, alquanto imbarazzata, arrossì, poi convinta di volere proseguire nel suo percorso si accinse ad affrontare la seconda prova, ed iniziò a scrivere:

*

“Quella mattina mi svegliai più euforica che mai, una strana magia permeava l’aria.
La stessa sensazione che si prova all’inizio dell’estate, quando le giornate iniziano ad allungarsi e l’aria tiepida, intrisa dei profumi dei fiori da frutta, risuona dei canti dei grilli. Ma non era estate, era pieno inverno e il cielo grigio perla sembrava promettere un’abbondante nevicata.
Erano le otto e mi accingevo ad uscire per recarmi al chiosco dei fiori.
Sul pianerottolo un grosso pacco portava il mio nome. Ero incredula. Chissà chi me lo aveva recapitato e perché? Lo presi e lo appoggiai sul tavolo della cucina, dove rimase, per qualche istante, sotto al mio sguardo perplesso. Ero combattuta tra la voglia di aprirlo immediatamente e il timore della possibile delusione nel caso in cui all’interno non ci fosse stato niente di interessante. La curiosità ebbe il sopravvento e mi gettai sul pacco scartandolo con foga. La carta, che lo racchiudeva, celava una grossa scatola, rivestita di un broccato prezioso, decorato con motivi floreali dalle tinte che variavano dall’oro all’azzurro polvere. Un vero incanto! Con coraggio tolsi il coperchio e per poco non svenni. Un meraviglioso abito da sera, color indaco impreziosito da cristalli che parevano diamanti, giaceva tra la carta velina, insieme ad un paio di scarpe e ad una borsetta con le stesse finiture dell’abito. Accanto una meravigliosa mantella di cachemire, con un paio di lunghi guanti e sul fondo della scatola un biglietto. “Ti aspetto stasera alle otto all’ingresso del teatro”. Mi dovetti sedere. Se l’artefice di questi doni voleva stupirmi c’era riuscito e alla grande. Ero letteralmente elettrizzata. Per prima cosa mi liberai degli impegni lavorativi della giornata chiedendo ad una amica di sostituirmi al chiosco e al ristorante, dopodiché mi preparai per la grande serata. Fantasticai ad occhi aperti per gran parte della giornata, poi a due ore dall’appuntamento iniziai a prepararmi. Raccolsi i capelli in uno chignon, fissato con un fermaglio, decorato con gli stessi cristalli del vestito, che trovai dopo due ore di ricerche in un piccolo negozio del centro; mi truccai leggermente e indossai l’abito più bello che avessi mai visto. Scivolava delicatamente sul mio corpo, delineandone le curve con eleganza.
Alle otto in punto ero all’ingresso del teatro, gremito di persone. Improvvisamente qualcuno mi prese sotto braccio. Mi voltai di scatto. Il ragazzo più affascinante che potessi immaginare era accanto a me. Alto, profondi occhi blu, folti capelli neri. Sotto il cappotto si intravedeva l’elegante smoking. Una sciarpa bianca di lana pettinata completava il tutto.
Ero ipnotizzata.
Sapevo che per una ragazza per bene non era buona usanza fissare a quel modo un ragazzo, per di più uno sconosciuto, ma non potevo assolutamente impedirmelo. Indifferente delle sue intenzioni ero completamente in balia della sua presenza. Il suo profumo mi avvolgeva e uno strano senso di nausea mi impediva quasi di parlare. Mi sentivo inebriata come un’ape con il suo fiore preferito. Lui mi guardava di sottecchi e sorrideva del mio evidente imbarazzo. Quel sorriso malandrino l’avevo già visto. Ma dove? Come un fulmine a ciel sereno mi rividi, di due anni più giovane, in una caffetteria, nel maldestro tentativo di non soffocare alle prese con la mia prima sigaretta. Accanto al mio tavolo un ragazzo aveva sorriso in quel medesimo modo. Poteva essere lui? Ma che senso aveva? Stavo per chiederglielo, quando una serie di immagini iniziarono a prendere forma nella mia testa. Era come se fossi in grado di leggere i pensieri di quel ragazzo. Ma come era possibile? Effettivamente nell’ultimo periodo avevo avuto l’impressione di intravedere i pensieri delle persone, ma non erano chiari e nitidi, erano come offuscati da un sottile strato di nebbia. Erano per lo più percezioni che avevo giustificato con la mia abitudine ad entrare in empatia con chi incontravo.
Ora però leggevo in maniera inequivocabile i pensieri di Ludovic, questo era il suo nome. Non ebbi il tempo di spiegarmene la ragione, tanto ero imbarazzata per quello che stavo percependo da lui. Era follemente innamorato di me. Da quella volta alla caffetteria ero diventata un pensiero fisso, voleva farmi sentire come una principessa. Così mi aveva fatto quell’incredibile sorpresa.
Assistetti al mio primo spettacolo lirico, in stato di trance. Si trattava della Bohème. Non ricordo molto, data la situazione, a parte che mi augurai una sorte migliore di quella toccata alla protagonista, che portava il mio stesso nome. Alla fine dello spettacolo Ludovic mi accompagnò verso casa. Non ci eravamo scambiati una sola parola eppure una complicità incredibile ci legava indissolubilmente l’uno all’altro. La neve scendeva attorno a noi e ovattava i suoni rendendo tutto ancora più surreale. D’un tratto Ludovic si fermò, si volse verso di me e mi baciò. Il calore delle sue labbra, il profumo della sua pelle invasero tutta me stessa e vacillai. Lui mi trattenne a sé e per poco non persi i sensi quando i suoi occhi iniziarono ad annegare nei miei. Lessi il fuoco che ardeva nelle sue vene e il desiderio, forzatamente controllato, di stringermi e di farmi parte di lui.
– Devo andare – riuscì a dire ansimando. E come spesso accade quando sono in preda all’agitazione, scappai, rifugiandomi nell’androne d’ingresso della mia palazzina con il cuore in gola.”

*

L’insegnante, non disse nulla, ma pensò che quella ragazza, così timida all’apparenza, possedesse una sensualità lessicale molto forte. Certo era molto giovane e c’era molto da scavare nel suo animo. Troncava alcuni passaggi in modo quasi automatico, ma era sicura che avrebbe sciolto i nodi che ancora la bloccavano. Se solo quella ragazza avesse sollevato il velo che ancora celava le sue potenzialità, avrebbe rivelato sorprese inaspettate. Bisognava avere pazienza e lasciarle affrontare un percorso psicologico intimo, poi sarebbe stata pronta. Si sistemò gli occhiali.
“ora, passiamo alla terza prova.
Lei è qui perché ha scoperto un segreto. E ne è rimasta talmente sorpresa, da decidere di farne parte.
Mi descriva come è avvenuto, quello che ha provato.”

La ragazza capiva chiaramente che il senso di tutte queste prove era di mettere a nudo la sua anima. Non era per niente facile ed era un po’ restia a farlo. Tuttavia quella scuola era tutto ciò che voleva. Doveva superare le prove. Si concentrò, cercò le giuste parole e affrontò la terza prova:

*

“Dopo una notte insonne, alle prime luci del mattino seguente, mi alzai per aprire le griglie di legno e fare entrare nella stanza i primi raggi di sole. Il contatto dei miei piedi nudi, sul freddo pavimento in cotto, mi fece rabbrividire e così corsi a rintanarmi nel caldo tepore delle coperte appena lasciate.
Ammiravo i rivoli di fumo che fuoriuscivano dai comignoli dei tetti, imbiancati di neve, e mi deliziavo del canto degli uccellini che, incuranti delle rigide temperature esterne, cinguettavano allegramente.
La mente, persa, ripercorreva gli eventi della sera precedente.
Sensazioni nuove affioravano in me, come se fino a quel momento non avessi sfruttato a pieno le potenzialità del mio corpo. Ogni poro della mia pelle emanava vita.
Il cuore aveva una nuova velocità e un filo di rossore sulle gote mi faceva sentire febbricitante.
Chissà forse questo era l’amore.

L’aroma del caffè, proveniente dalla cucina attigua, mi riscosse dai pensieri.
Appoggiata allo stipite della porta zia Alba mi osservava, immobile, silenziosa.

– Ciao, tutto bene?
– Sì, grazie – si affrettò a rispondere – Forza che è tardi, se continui a gingillarti nel letto arriverai in ritardo al lavoro –
– Oh che sarà mai se arrivo in ritardo una volta. Su siediti accanto a me, devo raccontarti la serata più incredibile che ho vissuto. Ho conosciuto un ragazzo fantastico, così fantastico che dubito di averlo veramente incontrato! Forse l’ho solo sognato – e senza darle il tempo di ribattere, mi lanciai nella narrazione degli avvenimenti del giorno precedente; descrissi la fastosità dell’ambiente teatrale; arrossii nello svelare il mio primo bacio e raccontai la strana sensazione di poter leggere nei pensieri di Ludovic.

La zia mi ascoltava, attentamente, scrutandomi negli occhi. Aveva uno sguardo strano, e mi metteva a disagio. Interruppi il mio resoconto.
– sicura che va tutto bene? Sei strana stamane. So che non è possibile, ma sembra che tu conosca già il contenuto delle mie parole. Inoltre sembra che tu conosca Ludovic e che non ti piaccia per niente che sia interessato a me.
– cosa ti vai ad immaginare. Ti sto ascoltando e mi preoccupo per il tuo cuore pazzerello. Pare proprio innamorato questa volta e non vorrei che per te fosse una grande delusione.
– non ti preoccupare. Ludovic non mi deluderà mai. – Schioccai un bacione sulla guancia della zia e con un balzo mi diressi affamata in cucina.

– Speriamo- mi rispose senza troppa convinzione – ora perdonami, ho un terribile mal di testa, ho bisogno di riposare un po’, ci vediamo a pranzo – entrò nella sua camera e chiuse la porta, nervosa.

Mi alzai da tavola, l’umore della zia mi aveva tolto l’appetito. Non si era mai comportata così.
Che temesse di rimanere sola?
Qualunque fosse la spiegazione, l’allegria del primo risveglio era scomparsa.

Prima di uscire mi avvicinai in punta di piedi alla porta della sua camera. Silenzio assoluto, l’immobilità regnava oltre quel pannello di legno. Uscì cercando di non fare rumore.
Lasciai un piccolo biglietto vicino al vaso di rose gialle, le preferite della zia, sul tavolo della cucina, con cui la avvertivo di non aspettarmi per il pranzo, dovevo gestire un ordine speciale di fiori per un matrimonio importante.
Ci saremmo viste a cena.

In strada l’aria era pungente. Mi strinsi la sciarpa attorno al collo e inforcata la bicicletta sparii nei vicoli della città.
Arrivata al chiosco mi capitò nuovamente di leggere nei pensieri della gente.
Seppi così che il barista aveva una relazione segreta con la moglie del fioraio, che a sua volta nutriva sentimenti per il garzone della drogheria di fronte. Ero in imbarazzo. Spiavo senza permesso le esistenze altrui. Anche se devo ammettere che mi divertii a stupire alcuni clienti abituali, confezionando in anticipo i mazzi che avevano intenzione di ordinare.

A mezzogiorno, dopo avere sgranocchiato una mela e un pezzo di pane mi recai al mercato generale per gestire il famoso ordine di fiori. Giunta all’altezza della zona delle pescherie, mi parve di scorgere la zia.
Cercai di seguirla, ma la persi, come inghiottita dalle vecchie case.

Passai tutto il pomeriggio a pensarla, alla fine mi convinsi di averla scambiata per qualcun altro. Non poteva essere lei. Prima di tutto, perché quel giorno non stava bene e poi perché non era sua abitudine scorrazzare per le vie del centro. Ciò nonostante non riuscivo a liberarmi dall’idea inquietante che mi stesse nascondendo qualcosa e qualcosa di importante.
Come se non bastasse Ludovic non si era fatto sentire. Avevo trovato un suo biglietto, nella cassetta della posta, quella mattina, “Vediamoci per un caffè, dopo pranzo, nella pasticceria della piazza del mercato” ma dopo un’inutile attesa lui non si era presentato.
In quel momento, realizzai che non avevo la minima idea di come fare a rintracciarlo.
Non sapevo nulla di lui, a parte il nome. Non conoscevo né il suo indirizzo né la sua professione.

I giorni passarono lenti, di Ludovic nessuna notizia e la zia diveniva sempre più strana. Non riuscivo a cavarle nessuna spiegazione e non riuscivo a leggerle nei pensieri come con le altre persone. Forse il fatto che le volessi bene, costituiva una barriera ai miei “poteri”.
Con Ludovic però non era successo. Forse la telepatia non funzionava con i membri della propria famiglia.
Ma! Ero confusa.

Una sera, al ritorno dal lavoro del ristorante, trovai la casa sottosopra.
La zia era scomparsa. Chiamai immediatamente la polizia.

Due giovani agenti arrivarono nel giro di un quarto d’ora. Scattarono fotografie e analizzarono i segni dello scasso. Io, intanto, affranta, guardavo il caos intorno a me. Non una cosa era al suo posto, persino la biancheria personale era sparsa sul pavimento.
– Ci dispiace signorina, purtroppo i furti sono sempre più frequenti. A proposito di sua zia, è sicura che sia scomparsa? Non è possibile che sia andata da un’amica?
Lo guardai con sufficienza.
– Mia zia non esce mai alla sera. E’ molto abitudinaria. Beve una tazza di latte caldo macchiato con una goccia di caffè, discorre con me sugli avvenimenti della giornata e poi va a letto. Sono tre anni che vivo con lei e mai una sera è successo qualcosa di diverso.-
Esitai se riferire lo strano comportamento degli ultimi giorni, non volevo che pensassero che stava impazzendo e non si impegnassero nelle ricerche. Alla fine però optai per non nascondere nulla.
– Cosa intende per strana?
– Era turbata per qualcosa, ma non me ne voleva parlare. Non so dire di più.
– Va bene se le vengono in mente altri elementi non esiti a contattarci. In merito alla merce rubata sa dirci cosa è stato sottratto?
– No. Ma non avevamo niente di prezioso a parte un ciondolo in oro che la zia portava sempre al collo.
I poliziotti se ne andarono. Più tardi, dopo aver riordinato, mi accorsi della scomparsa del mio bellissimo abito indaco. Cosa significava?

Qualche giorno più tardi, un agente della polizia bussò alla porta.
– Abbiamo trovato sua zia – non gli lasciai aggiungere altro. Il resto l’avevo già letto nella sua mente. Con il cuore in gola mi recai in ospedale dove la zia versava in condizioni critiche nel reparto di terapia intensiva.
Il suo corpo in fin di vita era stato ritrovato, appena fuori città; non presentava ferite particolari, a parte alcuni graffi che ella stessa si sarebbe potuta provocare correndo nei boschi circostanti.
– Non è infrequente che le persone anziane, ad un certo punto della loro vita, scappino. Scatta qualcosa nel loro cervello che le induce a scappare fino allo stremo delle loro forze. Probabilmente è successa la stessa cosa anche a sua zia- mi disse un giovane medico con l’intenzione di rincuorarmi.
– No. – risposi con veemenza – so quello che sta cercando di dirmi. Ma la zia, non era affetta da nessuna demenza senile, vivo con lei, me ne sarei accorta. Le ragioni sono altre, anche se in questo momento non sono in grado di darvele. Posso vederla?-
Il medico acconsentì e mi indicò una porta in fondo al corridoio.
Quando entrai nella sua camera calde lacrime iniziarono a rigarmi il viso e una sensazione immensa di solitudine mi avvolse. Mi avvicinai a quel corpo inerme. Nell’aria aleggiava un leggero profumo di lavanda e menta, che la zia utilizzava per aromatizzare gli armadi e tener lontane le tarme. Le accarezzai lentamente le mani e dolcemente le baciai la fronte.
Uscii con passo pesante, intuivo che la soluzione era lì alla mia portata, ma non riuscivo a vederla.
Arrivata a casa controllai nella cassetta della posta. Nulla. Ludovic era scomparso.
Decisa a non farmi sopraffare dall’angoscia, passai gran parte della notte a cercare di incastrare le poche informazioni che avevo. Non poteva essere un caso la scomparsa di Ludovic e nemmeno l’incidente alla zia e l’incursione dei ladri. Doveva esserci un legame e io dovevo trovarlo.
Alle prime luci dell’alba dopo una frugale colazione mi recai nel vecchio quartiere delle pescherie, dove qualche giorno prima aveva visto la zia, qualcosa mi diceva che dovevo iniziare da lì.
Camminai per gran parte della giornata. I piedi urlavano pietà. Percorsi in lungo e in largo i vicoli alla ricerca di un qualche indizio. Niente.
Proprio quando l’ultimo barlume di speranza si stava spegnendo vidi Carlo. Era un vecchio amico della zia, da tempo sospettavo che la loro amicizia nascondesse un legame più forte. Veniva da noi, ogni sabato, preciso come un orologio svizzero, immancabilmente con un mazzolino di fiori freschi di stagione: mughetti, margherite, bucaneve. Si mettevano in veranda e lì restavano tutto il pomeriggio, parlando fittamente e sorseggiando una buona tazza di tè nelle tazze di porcellana inglese bianche con decori blu, che la zia sfoggiava per l’occasione.

Rianimata di nuove speranze, attraversai la strada, per avvicinarlo. Un uomo di mezza età mi precedette e si avvicinò a Carlo.
I due si salutarono e si incamminarono per un vicolo laterale.
Li seguii, non mi piaceva quell’individuo. Non riuscivo a capire cosa si dicessero. E non riuscivo a leggere nei loro pensieri. Stavo forse perdendo i miei poteri?
In prossimità di un vecchio portone i due si fermarono. Controllarono velocemente di non essere seguiti ed entrarono.
Mi piazzai sul fronte opposto della strada, decisa ad aspettarli. Avevo la strana sensazione che ci fosse un abile piano, dietro agli avvenimenti delle ultime ore. Ed ero decisa a seguire il mio istinto. Dopo un’ora di attesa iniziarono ad affiorare i primi dubbi. Forse Carlo e quell’uomo che io consideravo ambiguo erano amici di vecchia data e adesso stavano sorseggiando un buon cognac, ricordando i bei vecchi tempi. Cosa mi era venuto in mente di improvvisarmi detective. Forse davvero la zia era affetta da demenza senile ed io non me ne ero resa conto. Forse… Bando ai dubbi, attraversai la strada, verificai che non ci fosse nessuno nei paraggi e mi infilai dentro al vecchio portone in legno. Mi ritrovai in un angusto atrio in pietra. L’aria sapeva di muffa e faticavo a vedere oltre i miei piedi. Per poco non ruzzolai. Di fronte a me infatti un’antica scala in pietra, scarsamente illuminata, sembrava scendere nelle viscere della terra. Il cuore batteva all’impazzata. Che fare? Con coraggio iniziai a scendere. L’aria, impregnata di umidità, rendeva i gradini molto scivolosi. Arrivata alla fine della scala uno spettacolo incredibile mi si parò davanti agli occhi. Un fiume scorreva lì sotto. L’acqua nei pochi tratti illuminati pareva cristallina e il fondo del corso d’acqua era lastricato con marmi che potevano risalire all’età romana.
Un rumore mi fece trasalire. Qualcuno stava arrivando. Non sapevo dove nascondermi, non c’erano anfratti. Presa dal panico entrai nell’acqua e mi appiattii contro una parete buia, sperando che l’oscurità celasse la mia presenza. L’acqua era gelida e maledissi la mia brillante idea.
Carlo e l’uomo sconosciuto arrivarono a bordo di una barchetta e attraccarono nel punto in cui mi trovavo pochi minuti prima.

Parlavano sommessamente e nuovamente non riuscii a sentire i dialoghi. Lo sconosciuto diresse lo sguardo nel punto in cui mi ero nascosta. Un brivido mi corse lungo la schiena, l’idea di venire scoperta non mi piaceva. Fortunatamente l’oscurità celò la mia presenza, e questo mi permise di scoprire un tassello in più sui miei “poteri”. Per leggere nella mente altrui, dovevo guardarli negli occhi.
Appresi che Carlo, quell’uomo e mia zia erano agenti segreti. Erano sulle tracce di uno scienziato pazzo, un certo Demetrius, che aveva messo a punto un particolare programma di condizionamento mentale, con cui riusciva a creare degli agenti perfetti, robot umani senza pensieri. Questi piazzati in posizioni di potere strategiche, telecomandati da impulsi radio, eseguivano i suoi ordini e gli permettevano di dominare il mondo. Zia Alba possedeva il dono di entrare nella mente, proprio come me, ed era in grado di smascherare i “robot”. Non solo. Grazie ai suoi poteri era in grado di scardinare il condizionamento mentale imposto a queste cavie umane e di riportarle alla loro vita reale. Demetrius non poteva permetterle di infrangere i suoi sogni di grandezza e così aveva selezionato un particolare agente, in grado di resistere ai poteri della zia, di scovarla e di eliminarla.

– Alba, aveva smascherato l’identità del suo killer. Me l’ha detto nell’ultimo incontro. L’ho pregata di non incontrarlo da sola. Ma sai come è fatta. Diceva di avere tutto sotto controllo e di non preoccuparmi. Non dovevo darle retta. Dovevo accompagnarla nel luogo in cui si doveva incontrare con il killer- disse con un fil di voce Carlo.
– Sì, così ora ci saresti anche tu a farle compagnia in un letto d’ospedale. Sappiamo i rischi che corriamo in questo mestiere Carlo e Alba non è una sprovveduta.
– Avete trovato qualcosa nell’appartamento di Alba?- domandò sconsolato Carlo
– Solo un mucchio di cimici nascoste nelle pietre che decoravano un abito da sera della nipote-

Oddio! Erano stati loro ad inscenare il tentativo di furto. Loro mi avevano portato via il mio meraviglioso vestito. Come era possibile che fosse pieno di cimici. Me l’aveva regalato Ludovic. E Ludovic ora era scomparso. Qualcuno aveva sabotato l’abito che mi aveva regalato? Anche Ludovic era in pericolo? Respirai con calma per mantenere, per quanto possibile, la lucidità. Tornai a posare l’attenzione sui due uomini di fronte a me cercando di non perdere una parola.
– C’è ancora una cosa che non sai Carlo
– Cosa?
– Alba è in coma perché le è stata iniettata una sostanza da Demetrius, che avrebbe dovuto sedarla e che le avrebbe fatto rivelare le identità degli agenti segreti che collaborano con lei e che lei sola conosce. In un qualche modo è riuscita a resistere, ma questo l’ha mandata in coma. Solo iniettandole l’antidoto possiamo salvarla, altrimenti le rimangono 24 ore di vita.
– Dov’è l’antidoto? – chiese in preda al panico Carlo
– Da Demetrius, ma nessuno sa dove sia la sua base. – rispose lo sconosciuto celando a stento un ghigno di sadico piacere, di cui Carlo non si accorse.
Carlo era visibilmente sconvolto, amava Alba e non sopportava l’idea di perderla. Non sospettava in nessun modo che l’individuo accanto a lui facesse il doppio gioco. Ma io lo sapevo, l’avevo carpito alla sua mente e ora sapevo anche la posizione della base nemica.
Non appena i due si allontanarono, uscii dall’acqua esausta ed infreddolita mi accasciai a terra, piangendo per la tensione accumulata.
Arrivata a casa indossai abiti asciutti e caldi e decisa andai nel luogo segreto, covo di Demetrius. Si trovava nei pressi del campo dove avevano trovato il corpo della zia, si leggevano ancora nella neve le impronte dei soccorritori. Poco più in là, una fitta boscaglia nascondeva la base nemica. Mi diressi verso l’obiettivo, quando qualcuno mi immobilizzò. L’assalitore mi stringeva così forte che temetti di svenire, faticavo a respirare e non riuscivo a muovere un muscolo. Che idiota, come avevo fatto a pensare di riuscire da sola a sgominare l’organizzazione di un pazzo criminale e al contempo di prendere l’antidoto che avrebbe salvato la zia. Tentai di divincolarmi, con il risultato che il mio carceriere rafforzò la morsa, e mi trascinò nel fitto della boscaglia. Poco dopo un drappello di soldati, che parlava una lingua sconosciuta, passò. Sembrava stessero cercando qualcosa o qualcuno. Erano molto concitati. Un giovane soldato si girò verso di noi, senza scorgerci, ma io ebbi l’opportunità di guardarlo negli occhi per una frazione di secondo.
Feci così una seconda scoperta sui miei “poteri”, e cioè che nonostante parlassero una lingua straniera, ero in grado di comprenderli, i pensieri avevano una lingua universale.
Stavano cercando un traditore. Aveva trafugato un antidoto importante. Demetrius era su tutte le furie dovevano assolutamente trovarlo.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito si convinsero che ciò che cercavano non era lì e se ne andarono altrove.
La stretta che mi impediva di parlare e di muovermi si allentò. Feci un profondo respiro, riappropriandomi dei miei polmoni, e lentamente mi girai
Sorprese delle sorprese. Ludovic era lì, accanto a me. Era lui il traditore, lui era l’agente speciale con l’incarico di eliminare mia zia. E ci sarebbe riuscito se un’anomalia non avesse sprogrammato la sua mente. L’anomalia era io, Demetrius non poteva sapere che Ludovic si sarebbe innamorato di me, non poteva sapere che il potere dell’amore avrebbe annullato il suo condizionamento mentale.
-Non c’è tempo per le spiegazioni, dobbiamo salvare tua zia.
– Non devi dirmi nulla, so già tutto.
Lo presi per mano e gli sorrisi. Poi lo trascinai in una corsa disperata verso la macchina che avevo parcheggiato lì vicino.
Ludovic mi guardò a metà tra il divertito e l’arrabbiato.
– Tu non puoi guidare, non hai l’età per farlo.
– Credo che tu sia la persona meno indicata per dire ciò che si può o non si può fare
Gli strizzai l’occhio e misi in moto l’auto.
Ci furono degli spari, poi il silenzio.
Ludovic si accasciò sul sedile accanto. Un rivolo di sangue usciva dalla sua testa. Schiacciai l’acceleratore più che potei ed arrivai in ospedale. Qui furono subito dati i primi soccorsi a Ludovic che fu portato immediatamente in sala operatoria. Mi diressi in camera della zia in stato catatonico. Mi avvicinai al letto e le somministrai l’antidoto.
Stanca mi lasciai cadere sulla sedia accanto al suo letto e piansi.
Il tocco di una mano delicata, che ben conoscevo, mi accarezzò i capelli. Alzai lo sguardo. La zia mi stava osservando. Le sue guance stavano riprendendo colore. Era salva. Ci guardammo intensamente e silenziosamente ci scambiammo i nostri pensieri.
Più tardi ci sarebbe stato spazio per le parole, ma ora no.

Dopo due ore un chirurgo entrò nella stanza e mi si avvicinò.
– signorina l’operazione del suo amico è, dal punto di vista chirurgico, riuscita con successo. Purtroppo già in altre situazioni analoghe abbiamo constatato che gli individui sottoposti a questo tipo di intervento perdono la memoria e non sempre il problema è temporaneo. Mi dispiace –
Rimasi senza parole. Poi una melodia lontana, della Bohème, mi raggiunse e mi diede la certezza che tutto sarebbe andato per il meglio.
E fu così.
Giorni dopo, quando i medici mi diedero il permesso di parlargli, entrai nella camera di Ludovic e timidamente lo baciai. Mi guardò come si guarda una sconosciuta.
Cercai di non fare prevalere lo sconforto. Gli strinsi dolcemente la mano – devo raccontarti una storia – e iniziai a narrare del nostro primo incontro, del vestito, del teatro, delle emozioni del contatto delle mie labbra sulle sue.
Ad un tratto sentii la sua mano restituire la mia stretta.
I ricordi iniziavano a riaffiorare. Mi gettai esausta ma felice tra le sue braccia.
La nostra storia poteva continuare.”

*

“Diciamo che la terza prova l’ha superata discretamente” esordì l’insegnante “mi aspettavo un po’ più di suspance. Ha ben descritto circostanze e particolari però secondo me poteva forzare la mano sul mistero e sui sospetti. Forse è stanca. Le concedo una breve pausa. Poi iniziamo con la quarta prova”

La ragazza era effettivamente esausta. Si alzò bevve un bicchiere d’acqua e si mise in bocca un cremino, sottratto alla scorta della zia quella mattina. Sentì il cioccolato sciogliersi in bocca, il cacao e le mandorle la ritemprarono all’istante.
“Sono pronta”.

“Bene” esordì l’esaminatrice “Avrà senz’altro affrontato l’esperienza della morte. Può trattarsi anche di una “morte psicologica” e non solo di un lutto inteso come perdita di una persona cara. Voglio che mi arrivi chiara l’immagine di qualcosa o di qualcuno che si perde…che svanisce…che muore”.

Il senso di benessere che il cioccolato le aveva dato qualche attimo prima, vacillò. Descrivere la morte le sembrò una prova insormontabile, la sua perdita recente era ancora impressa in tutto il suo essere, il dolore del ricordo le toglieva il respiro.
Le ci volle un po’ di tempo, l’insegnante stava iniziando a spazientirsi, poi come per le prove precedenti il racconto cominciò:

*

“Il richiamo della festa patronale è sempre possente.
Contrattare con i commercianti per accaparrarsi un oggetto al prezzo migliore o una novità tenuta in serbo per l’occasione, elettrizza la gente, riporta sensazioni antiche.
I bambini, estasiati, ammirano il teatrino, magistralmente condotto dal burattinaio e poi, come sottoposti ad un magico incantesimo, seguono la scia che proviene da un grosso pentolone argentato, dove un omone dai grandi baffi neri, gira vorticosamente un bastoncino che si arricchisce, giro dopo giro, di un candido strato di zucchero filato.

Quanta vitalità, quanti colori.

Io non sono immune al fascino della fiera, ne sono letteralmente ammaliata, e, spinta dopo spinta, procedevo lentamente tra la folla.
Un uomo, a pochi metri da me, attirò la mia attenzione. Curiosa tentai di raggiungerlo, ma la ressa ha le sue regole, niente percorsi precisi e così poco dopo l’uomo scomparve.
Inspiegabilmente lo spirito di allegria, dell’attimo precedente, svanì.
Rimase solo una sensazione claustrofobica. Quanto rumore, quanto chiasso.
Una stradina laterale mi offrì una via di fuga.
Finalmente silenzio e tranquillità. Decisamente più serena, ma ancora scossa mi incamminai verso casa.
Improvvisamente uno strattone, una lama puntata al collo e una voce “dammi la borsa”.

Pochi movimenti, precisi, veloci. La voce dell’istruttore del corso di autodifesa “concentrazione, controllo della paura, utilizzo della forza dell’avversario”, risuonò ritmicamente, nella mia testa, e oplà il malvivente boccheggiò, attonito, ai miei piedi.

Guardai il mio aggressore con aria di sfida, ma l’atteggiamento combattivo si dissolse immediatamente, non appena incontrai gli occhi del ragazzo, e il mio atteggiamento divenne protettivo, quasi materno.

L’uomo, intravisto tra la folla precedentemente, ora era lì e la sua identità non era più un mistero.

Ma cosa gli era successo? Nulla di ciò che lo animava da piccolo era rimasto, la vita lo aveva distrutto.
Ignorava chi fossi. Non mi aveva riconosciuta. Era come se un immenso secchio d’inchiostro si fosse riversato su di lui, eliminandone la purezza, eliminandone i colori. Di fronte a me un ragazzo morto. Incapace di amare, e pur così desideroso di esserlo. Non c’era speranza in lui, solo rabbia, disperazione.
Dovevo salvarlo, dovevo riuscirci.
Un errore minimo da parte mia e sarebbe caduto nel baratro, irrimediabilmente. Come fare? Poi mi venne un’idea.

“Alzati” gli ordinai in un tono rude “Seguimi”
“Io non ti seguo da nessuna parte” mi ringhiò di rimando, con lo sguardo ferito rivolto verso terra.

“Non credo tu abbia altra scelta” e così dicendo gli mostrai un piccolo foglio, un intarsio colorato di piccoli francobolli, di dosi di LSD. Sapevo che ne faceva uso.

In quel periodo Ludovic aveva chiesto il mio contributo per verificare delle ipotesi circa la possibilità di utilizzare dosi di LSD negli interrogatori per estorcere informazioni segrete. Grazie ai miei poteri ero in grado di verificare se la persona, a cui era stata somministrata una dose di tale allucinogeno, rispondesse con sincerità alle domande a cui veniva sottoposta. Per questo motivo ne possedevo alcune dosi nella borsetta.

“Cosa vuoi che faccia?” mi chiede il ragazzo, momentaneamente sconfitto, ma ghermito totalmente da quanto possedevo.
“Piccoli lavori domestici”
“Non capisco”
“Capirai”

Arrivati a casa, gli consegnai una latta di vernice bianca e un pennello.
Con tono secco gli ordinai “dipingi lo steccato, se lo farai per bene, avrai la tua ricompensa”

Con rabbia afferrò la latta e il pennello. Poi, imprecando contro di me, iniziò a stendere il colore sui pannelli in legno della recinzione.

Un vociare allegro annunciò l’arrivo di un gruppetto di bambini. Stavano correndo. Uno di loro, il più piccolo si fermò, ad osservare il suo lavoro. Lo guardò incuriosito.
“Sembra divertente, posso aiutarti?”

“Sembra divertente, posso aiutarti?” il giovane aveva già udito queste parole ma dove? La sua testa non era in grado di ricordare. Un mal di testa improvviso e quelle parole che continuavano a risuonare nella sua testa. Dopo di ché il buio. Il bambino fuggì urlando spaventato.

Io, richiamata dal trambusto, accorsi. Il corpo del ragazzo giaceva in giardino svenuto, tutto intorno la vernice rovesciata sul manto erboso.

“Dove sono, cosa è successo?” chiese rinvenendo.
“Tu cosa ricordi?” gli chiesi.
“Stavo pitturando quello stupido steccato per guadagnarmi una dose, quando un ragazzino si è fermato. Ricordo solo che mi ha detto “Sembra divertente, posso aiutarti?”
Nel ripetere le parole, di nuovo quella sensazione di vertigine. Spaventato mi guardò negli occhi, in cerca di aiuto.
Non era sua abitudine fissare le persone. Troppo coinvolgente. Odiava vedere le loro espressioni di paura o peggio ancora la commiserazione verso di lui. Lo sguardo sempre basso, così poteva rapinare chiunque senza problema.
Il guardarmi gli smosse qualcosa, poi incredulo “Non è possibile! Sei veramente tu!” esordì con un filo di voce.
“Ciao Roberto. Speravo che farti dipingere lo steccato, ti avrebbe ricordato l’episodio, tante volte letto, delle avventure di Tom Sawyer. Speravo che ti avrebbe fatto ricordare di me.”

Gli attimi che seguirono, furono frenetici. Non li dimenticherò mai, fino alla fine dei miei giorni.

Uno sparo, l’annuncio dei fuochi d’artificio, tipici della chiusura della festa patronale, vibrò nell’aria.
La speranza che per un attimo si era riaccesa negli occhi di Roberto svanì.
Il terrore prese il sopravvento. Anni di consumo di LSD alimentarono incubi di ferite lontane.
Roberto si alzò di scatto. Lessi l’angoscia crescere dentro di lui, tentai di rasserenarlo, lo strinsi a me. Ma i fantasmi delle torture psicologiche e fisiche subite nei sotterranei del collegio, dove era stato mandato a studiare, furono più forti. Come un animale braccato, si liberò con violenza dalla mia stretta, saltò lo steccato e scappò. Una macchina sopraggiunse. Il conducente frenò inutilmente.
Io accorsi, lo presi tra le braccia, ma fu tutto vano. La vita lo stava abbandonando.
Carpii i suoi ultimi pensieri.

Tom che compie scorribande insieme ad Huck.
Ragazzi che giocano per strada, rincorrendo un vecchio barattolo di latta.
E infine il dolce sentimento che Roberto provava per me. Mi aveva amata dal primo momento che mi aveva conosciuta, ma non aveva trovato il coraggio di dirmelo. Quanti sogni mai realizzati, quante possibili vite.

Sono passate ormai parecchie settimane da quell’orribile giorno, ho capito che non si può cambiare il destino delle persone, si può solo donare loro momenti felici e sperare che questo li aiuti nei momenti più oscuri. So che non ho nessuna colpa, so che non avrei potuto fare nulla di più, ma non riesco ad accettare di essere inerme di fronte a certe realtà”

*

“L’ho ascoltata con molta attenzione e questo è il mio giudizio: profonda, ben narrata, dialoghi appropriati, sensibilità giusta. Un racconto breve ma molto istruttivo. Insomma, nonostante la sofferenza che traspare da lei, è riuscita a rendere ciò che la prova ha chiesto. E ora la quinta e ultima prova. Mi deve raccontare una storia in cui si è sentita coraggiosa”.

“Non saprei se quel che ho da raccontare rappresenta una prova di coraggio o di fallimento. Per molti versi è una storia di degrado umano, che richiama quanto ho appena narrato. Con Roberto avevo gli strumenti, ma non ho avuto il tempo materiale per agire, con il nonno, perché è di lui che parlerò avevo tempo ma non gli strumenti, ero ancora troppo giovane” detto questo la ragazza si accinse ad affrontare la quinta e ultima prova di ingresso:

*

“Aprii la porta ed entrai. Un odore di stantio permeava il vecchio ingresso della casa e le pareti annerite dal tempo conferivano all’ambiente un’aria tetra. Ogni volta che entravo in quella casa mi mancava l’aria e le gambe faticavano ad eseguire i movimenti necessari per salire i gradini, si irrigidivano. Il mio corpo si rifiutava di ritrovarsi in balia degli umori del nonno.
Allora non ne capivo la ragione, ora, a distanza di anni e avendo il dono di leggere i pensieri di chi mi sta accanto, credo di aver capito che, il nonno, in realtà deluso dalla vita, dopo la morte della nonna, voleva rimanere solo, per poter morire a sua volta. La sua anima, prigioniera di un corpo ormai spento e in cancrena, era rabbiosa e devastava chiunque tentasse di aiutarla a rimanere in un corpo ormai irrecuperabile. Io più di ogni altro non demordevo nel volerlo accudire e inconsapevolmente ne allungavo l’agonia. Per questo motivo la furia del nonno su di me fu devastante.

Roberto era andato in collegio ed io ero appena ritornata a casa, avevo dodici anni. Il nonno si ammalò e la malattia gli tolse l’autonomia e lo costrinse a richiedere, o forse è meglio dire, gli impose l’aiuto degli altri. Toccò a me. Le sorelle più piccole andavano ancora a scuola e le altre lavoravano già.

Arrivata in cima alla vecchia scala di pietra, bussai. Nessuno venne ad aprirmi e così entrai.
“nonno, sono io”
Il rumore della radio mi avvertì che c’era qualcuno nella stanza attigua, il nonno, un uomo sulla settantina, sedeva su una vecchia poltrona sfondata dagli anni.
Indossava una logora tuta da ginnastica, cosparsa di macchie di cibo rinsecchite. I capelli sporchi pettinati all’indietro ed il naso ricurvo contribuivano a conferirgli un aspetto aquilino. Spesse lenti unte completavano il tutto. Unica nota stridente un paio di scarpe di vernice nuove, brillavano di un nero corvino.
Tutt’intorno un odore acre, di sudore e di aria malsana, saturava ogni cosa. Temetti di svenire.

Mi sedetti accanto a lui e lo baciai, rimase impassibile. Mi alzai e feci per aprire le finestre per poter cambiare aria. Lui mi osservò, come un animale in gabbia, e non appena feci scattare la chiusura del serramento mi urlò di lasciarlo chiuso, minacciandomi fisicamente con un gesto della mano.
Questo fu il mio esordio.
Inizialmente tentai di coinvolgerlo, ma ogni mio tentativo veniva castrato brutalmente ancor prima di nascere. Alla fine mi limitai, mio malgrado, ad ubbidire. Quell’uomo mi impauriva. Passava tutta la giornata a vomitare cattiveria nei confronti di chiunque. Aveva l’abitudine di pulirsi il naso con l’unghia del mignolo destro e di lanciare quello che estraeva dalle sue narici in giro per la stanza. Mi dava il voltastomaco. E questo lo divertiva, era proprio contento di inorridirmi e infastidirmi, perchè così si creavano i presupposti per nuove lamentele. “Portami le mutande” urlava da una stanza all’altra. “Ma che donna sei, non combinerai niente di buono nella vita.” Non parliamo del momento dei pasti in cui lanciava il piatto a terra quando gli preparavo la minestra e ripeteva lo spettacolo con la pasta, con l’arrosto, con il pesce. Desiderava mangiare sempre quello che non c’era.
Era un triste uomo. Desiderava sempre ciò che non aveva. O così pareva.
In presenza d’altri mi umiliava continuamente “zitta che sei un ignorante.” Ogni cosa lo infastidiva. E devo dire che mi faceva una grande pena. Era ingordo, voleva tutto per sé, dalle cose, al cibo alle mie attenzioni. Ricordo ancora un giorno in cui venne la sarta a prendere le misure per fargli un abito. Io mi attardai a guardare la spilla di vetro colorato, che la sarta indossava su un delizioso gilet.
“Ti piace?” mi chiese lei “l’ho acquistato al mercato. Se vuoi la prendo anche a te”. Non feci tempo a rispondere che il nonno mi diede un sonoro schiaffone e mi ordinò di inginocchiarmi al posto della sarta per segnare la giusta altezza dell’orlo dei pantaloni “la sarta è qui per me, non per te”. So che sono tutte sciocchezze, ma io ero stanca.

Furono mesi difficili. Lui era veramente tremendo, io tolleravo senza ribellarmi ogni suo capriccio, e quando finalmente tornavo a casa, a sera inoltrata, fingevo di avere passato una giornata serena. Non volevo dare ulteriori pensieri ai miei cari. Le torture psicologiche, sono facili da nascondere all’inizio, non lasciano segni violacei o ferite. Lasciano tagli sull’anima, che fortunatamente si cicatrizzano e rimangono invisibili ad occhi esterni.
Un giorno non resistetti più e scappai. Poi sopraffatta dai sensi di colpa ritornai, decisa però a parlargli e così feci “so che adesso sei stanco e malato e per questo motivo ancora una volta ti sono accanto, ti aiuto, ti sopporto. Non ti permetto più però di trattarmi male e di mancarmi di rispetto. Non sono più in grado di sopportarlo. Spero tu lo capisca, non mi interessa che tu mi ringrazi o mi dica parole gentili. Trattami pure con freddezza e distacco, ma usami rispetto. Non sono veramente più in grado di darti di più. Quando ti vedo nel bisogno ti prego di credere che ti darei il cuore, ancora incondizionatamente e gli anni passati sembrano non contare. Ma come mi insulti e mi rivolgi parole o sguardi di disprezzo, tutto ritorna, violentemente, dandomi conati di vomito e togliendomi l’aria, boccheggio e devo allontanarmi immediatamente da te per non stare male. Mi dispiace così tanto ma non sono in grado di darti di più. Non possiedo di più. Se non la mia vita.
Provo molto dolore per la tua sofferenza.
Ti guardo. Ti vedo stanco, solo, spaventato eppure ancora pronto a mordere. Non so che fare con te.
Dopo quelle parole mi guardò con disprezzo, il suo atteggiamento non cambiò. Poi un giorno smise di parlare, lo sguardo iniziò a vagare e infine morì. Piansi tutte le lacrime che avevo in corpo. E mi sentii in colpa per non essere riuscita a dargli di più. Oggi, dopo tutto quello che ho vissuto e che un po’ ho raccontato so che ho fatto il meglio che potevo.
Probabilmente ci saranno momenti in cui ancora mi sentirò in colpa, di nuovo, ma ora ho imparato una cosa importante: a perdonarmi.”

*

“Può andare l’esame è terminato. Presto la contatteremo per farle sapere l’esito finale le faremo sapere” e così dicendo l’esaminatrice la salutò.

*

Oggi ho vent’anni. Sono conosciuta con il nome di Mimì. Sono spavalda e arrivo dritta all’obiettivo. So essere frivola e allo stesso tempo profonda.
Possiedo un dono.
Leggo i pensieri della gente. Entro in empatia con loro. A volte utilizzo questa dote per far sentire a proprio agio le persone, altre volte per disarmarle e farle sentire inermi.
Non sono bella, per lo meno non nel senso canonico del termine. Ciò nonostante gli uomini perdono la testa per me. La mia sfrontatezza li intriga. Che altro aggiungere. Ho superato l’esame e sono un agente segreto.
In ogni missione assumo identità differenti ed ho la possibilità di vivere un’infinità di vite. Non sono più la ragazzina di campagna che avete conosciuto all’inizio. Ma sono in grado di esserlo, se ce ne fosse bisogno, così come sono in grado di essere raffinata e mondana.
So essere visibile e invisibile a seconda della necessità.

Sono uno, nessuno e centomila.

5 pensieri su “L’ESAME di Marika Susio. Secondo Livello – Corso Adulti

  1. incredibilmente “leggero” e scorrevole racconto fantasy che in realtà tratta un argomento profondo quale la morte o meglio la vita. Una vita imprevedibile e unica che ci porta amore gioia amicizia affetto e morte, dolore talmente tanto intenso da farci capire che non ci resta altro che decidere se e come viverla. La vita è un gioco di invesigazioni che ci vede tutti allievi spie inesperti, un gioco con una sola unica regola: non possiamo giocarci 2 volte…o non ho colto il senso? comunque bel racconto…..

  2. L’autrice ha il merito di saper scrivere in modo coinvolgente e scorrevole. A mio parere questo racconto potrebbe essere anche un perfetto inizio per un libro avvincente!

  3. Il racconto è veramente piacevole e invoglia a leggerlo fino all’ultima parola. Le azioni e i pensieri dei personaggi sono sempre coerenti alla loro personalità. Ho molto apprezzato anche come l’autrice ha strutturato il racconto e la scelta di rivelare solo alla fine lo scopo dell’esame. Complimenti!:)

  4. Che dire! E’ una bella domanda.

    Con semplicità penso che ogni uomo dovrebbe essere “alto” agli occhi della sua donna. Dove con “alto” non mi riferisco alla statura dell’uomo, bensì alla sua capacità di essere per l’appunto “all’altezza” della propria compagna, rispettandone la natura e la libertà di pensiero.
    Grazie per il commento, mi ha dato la possibilità di riflettere, ancora una volta, sull’importanza delle parole. La prossima volta anziché alto utilizzerò il termine grande 😉

  5. Il racconto è ben scritto e si legge volentieri. L’autrice possiede realmente il dono menzionato in epilogo. Rivolgo una domanda all’autrice e, di riflesso, a tutte le donne che la leggeranno: perchè il primo aggettivo che voi donne utilizzate per definire il fascino di un uomo è ALTO?

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