L’incompiuta di Giovanna Ruffatto – Secondo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

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L’incompiuta
di Giovanna Ruffatto

Corso Adulti – Secondo Livello

Il sole abbacinava, sbattendomi in faccia i suoi riflessi dai vetri delle auto parcheggiate in fila indiana.
Ero appena uscita dal motel. Avevo dimenticato gli occhiali fotocromatici.
Camminavamo una dietro l’altro, non ci tenevamo neppure per mano. Luigi non voleva, a me non importava.
Luigi a testa bassa, io dietro, che facevo i conti sottovoce con i miei sensi di colpa.
Mi fermai un attimo. La scarpa slacciata. Sarei potuta inciampare. Non dovevo inciampare proprio li.
Il mio cellulare si mise a squillare ,inatteso.Un nome verde sul display:” MAMMA”.
“Ma’, scusa non posso parlare adesso, sono al lavoro”, dissi fingendo un tono noncurante.
“Senti Ceci che ne diresti di andare noi due sole all’Incompiuta, oggi? La dottoressa mi ha detto che ho bisogno di sole” tossisce, le ho detto mille volte che fuma troppo.
“No, mamma oggi no. Vengo domani e ne parliamo, dai”.
” Ma cucciola io ho bisogno di mare, proprio oggi”, continuo’.
Dovevo chiudere. “Mamma, ti vengo a trovare domani. Ciao”. Clic.
Un attimo, disnea. Stava arrivando. Dovevo fermarmi, come se non stesse succedendo niente.
Le pasticche erano in borsa. Avrei dovuto tenerne una in tasca come quando andavo al mare in bicicletta, d’estate, lungo l’Incompiuta, con Gianni e nostro figlio Alberto.
Anche mia madre da piccola mi ci portava sempre.
Oggi no, non ci saremmo potute andare.
Luigi era già andato avanti. Non se ne era accorto.
Gli uomini non si accorgono mai di nulla. Neanche quelli che credono di essere più intelligenti.
Un attimo, la mano nella tasca interna come una ladra di professione . La sicurezza di gesti ripetuti da quando avevo quindici anni. Ora me ne mancavano tre ai quaranta. Mi consideravo un’esperta.
Un attimo e la pasticca scivolo’ sotto la lingua. Anche stavolta mi sarei salvata.
Tirai su la testa, mentre Luigi adesso si era voltato a guardarmi. Sorrideva. Com’è bello quando sorride, pensai.
Un attimo e l’auto accanto a cui mi era accovacciata diventò familiare. Anche senza guardare la targa la riconobbi subito.
Non può essere, pensai.
Non qui,non adesso.
Maledizione, che cosa ci fa qui, davanti a questo maledetto motel la macchina di Gianni?
A quest’ora mio marito sarebbe dovuto essere in ufficio.
Come me.
Devo chiamare Luigi, ma non riesco. Lo raggiungo di corsa.Gli tiro la giacca. “Ceci ma che fai? Dobbiamo andare. Abbiamo fatto tardi”. Strizza gli occhi, non capisco se per la luce o per ammiccarmi.
Ingoio un grumo di saliva e di pasticca.
“No, io resto.”dico.
“Ma che fai? Tu tremi. Santo Dio non ti mettere a fare storie. Non è il momento. Dobbiamo andare via”.
Ingoio il reflusso come un ruminante.
“Io resto. Quella è la macchina di mio marito. Doveva essere al lavoro stamattina”.
“Tu sei pazza. Anche io e te dovevamo essere in ufficio stamattina. Ma tu guarda che razza di casino. “.
“Io resto. Me la vedrò da sola. Tu vai. Gli dirò che l’ho seguito perché avevo dei sospetti. Non penserà mai che noi. Che io…”.

Guardo Luigi che si allontana, mentre accellera il passo, mentre scuote il capo.
“Ti chiamo dopo, non mi fare preoccupare”, sento l’eco delle sue parole vuote già in lontananza.

Non sembra più lo stesso di un’ora fa. Neppure quello di quando ci siamo rincontrati, per caso, in ospedale.
Strana cosa, il destino. Mescola le carte e si prende gioco di noi, quasi sempre.
O ci mette alla prova. Per giocare lui.

Luigi lo rincontrai dopo quindici anni, o così ci sembrò dal conto, che facemmo ridendo.
Mi congedai, non dopo che ci fummo scambiati notizie riguardo la nostra vita trascorsa da allora. Io sapevo che lui aveva lasciato la mia collega, sua fidanzata storica. Io avevo un marito ed un figlio. Anche lui si era sposato e aveva due figli. Chi lo avrebbe detto.
Da quel giorno, ci incontrammo di sfuggita durante i suoi giro visita con la caposala, più spesso riuscivamo a parlarci durante le visite nell’ambulatorio, le volte che vi venivo assegnata.
Lui cominciò a chiedere della mia vita, a farmi complimenti, che cercavo di glissare trasudando noncuranza. Sentivo aria di guai e non mi piaceva.
Poi con una scusa mi chiese il numero di telefono e cominciò a chiamarmi nei turni del pomeriggio. Ed i pomeriggi passavano più in fretta, ed i compiti parevano più brevi, il lavoro più veloce, la mia vita più ebbra.
Lui avrebbe voluto che lo facessimo nello studio alla sera, dopo che se n’erano andati tutti gli altri. Ma io non avevo ancora deciso. E poi volevo che fosse un evento da ricordare.
Allora per la prima volta Luigi si fece prestare la casa da un amico . Era il giorno del suo compleanno. E mi aveva telefonato. Prendere o lasciare.
Ma che scherzi? Un figo pazzesco, con due occhi azzurri che ti si incollano addosso e non li scordi più. “Va bene” avevo detto, con una sicurezza che non mi apparteneva.
Fino ad allora avevo sempre tergiversato. “Ora e posto” dissi, invece.
Camminai lungo la piccola via pedonale, sentendomi una star , che la Walk of Fame, mi faceva un baffo:tacco alto, jeans, maglietta fina,tachicardia, cardiopalmo, i soliti.
Ingoiai una pasticca e suonai al citofono stabilito, seconda scala a destra, questo è il cammino, ascensore e la porta che si apriva con uno scatto secco.
Luigi mi prese per mano, tremava.
“Ciao”,non riuscivo a parlare mentre mi accompagnava a vedere il loft e il terrazzo sulla città , splendida . Con il Duomo, la collina,il fiume. Era tutto a posto.
Cominciammo a baciarci, mentre non mi lasciava le mani e poi fu tutto un turbinio di corpi, umori, saliva.
Lui perse l’orologio, io il lume della ragione, mentre mi portava in braccio sul divano, bianco, immacolato, intonso.
Ho perso il senno e la testa nello stesso istante, mentre quel corpo desiderato e non da mesi, ed il mio si fondevano in un tutt’uno, nonostante i movimenti, tra i movimenti , le bocche, il cercarsi ed il sentire di essersi trovati, in una confusione di sensi e l’ imbarazzo di emozioni non più provate da tempo. Troppo.
Dopo rimanemmo abbracciati in confusione, in una quietezza che non conoscevo. Mi sembrava di aver finalmente ritrovato me. Quella Cecilia giovane e spensierata, che poteva pensare solo al sesso.
Mi rivestii piano, senza più imbarazzo.
Un piccolo asciugamano dell’amico ad asciugare gli umori, un bacio veloce, l’amico che stava tornando, l’appuntamento da lì a breve, il percorso a ritroso, dove non sarei mai stata più la stessa, neanche lungo la stessa Walk, neanche più a casa mia.
E poi le telefonate per tutto il pomeriggio: come stai, stai bene, come ti senti.
Mi sento come da quindicenne, quando lo feci per la prima volta, lungo le scale che dal pianerottolo scendevano in cantina, dietro una porta chiusa a chiave.
Ad ansimare piano, ad ascoltare i rumori che arrivano lontani dall’androne, a sopportare un dolore lungo e dolce.
Ecco come mi sento.
Peggio di lui che alla fine mi ha detto: ” Quando sono con te non capisco più niente”.

Non avevo capito che mentiva. O ricacciai quella sensazione pesante di pietra, lontano. Il più lontano possibile.
Lo guardo mentre sgomma, mentre inforca nervoso gli occhiali scuri, gia voltato verso l’uscita del parcheggio.
L’ho sempre saputo che gli uomini sono dei vigliacchi.
Mio padre tradiva mia madre, mio nonno mia nonna.
Devo tornare a casa. Non potrei lavorare.
Devo pensare. Anzi fermare i pensieri.Un’altra pasticca scivola in bocca mentre cerco il telefono.
Digitare il numero . Fare in fretta. Tornare a casa.

Mentre il taxi scivola lungo la tangenziale, mi fisso sul grigio delle onde del metallo del guard rail.
Io e Gianni siamo una coppia normale, con quindici anni di convivenza, una madre, un figlio, una suocera, due cognati, qualche altro parente sulle spalle.
Siamo riusciti a mediare su tutto: mia madre malata, lui che non si interessa ma a cui sembra importare solo andare dalla sua,il ragazzino a cui badare, la casa da sistemare.
Tutto ,il più delle volte da sola.
Quando è che era iniziato il declino non lo ricordavo più.
Eravamo stati così entusiasti di incontrarci, dopo le nostre esperienze fallimentari passate.
E allora era stato facile parlare di progetti, tre bambini ed un gatto ed un giardino, per cominciare.
Era stato facile dormire assieme dopo aver fatto all’amore e non staccarsi mai.
E poi era stato facile fare un bambino, vero.
Sembrava tutto facile, allora, e noi due saremmo stati invincibili.

E allora com’e che adesso, anziché parlarsi sottovoce abbracciati sul divano, nella penombra di una camera e cucina , si urlavano addosso da un piano all’altro?
Dove era iniziata l’intolleranza velenosa ed insidiosa come una biscia al sole?
E la perdita della pazienza? E poi il cominciare a fare passare tutto perché c’era il bambino e le famiglie non si disfano?
E la goccia piccola, unica, che aveva fatto traboccare il vaso, qual’era stata?
La verità è che non trovava più tempo per se’. Correva dal parrucchiere quando capitava, usciva quando poteva, dopo aver preparato la cena per tutti.
Sai cosa significa non ricordare più chi sei?
Tranne che per le crisi. Quelle arrivavano sempre, inaspettate, silenziose. Chissà da dove.
Solo Gianni le conosceva quasi quanto lei. Ma ormai faceva finta di niente, se usciva all’improvviso da un supermercato o da un cinema. Lo aspettava all’uscita e per tutti e due era diventato normale.
Gianni però aveva smesso di farglieli i complimenti, ne’la faceva piu’sentire bella com’era ,quando si erano conosciuti.
Allora , proprio allora e’ apparso Luigi. Non prima.
E allora ha ricominciato a mangiare, a rimettere i suoi vecchi, bei vestiti e comprarne di nuovi, a sentirsi bene dentro.
E si guardava allo specchio con soddisfazione, e non le importava più se Gianni non la guardava, perché era bella e basta ed il sugo se lo facessero da soli, perche sai che c’è? Mi compro un nuovo paio di scarpe e sembro pure più alta. Anzi sono piu’alta e basta.
E da li’ come se niente fosse si era’ fatto presto passare da uno squillo ad un’ora al telefono , da un caffè ad un albergo a ore, che fa pure un po’ squallido ma pareva una reggia al confronto della casa di sua suocera, dove non ci sarebbe entrata più, se solo non ci fosse stato Alberto, se solo avesse potuto scegliere.
Perché li dentro, accanto ad un uomo che potrebbe essere stato chiunque, riesciva a trovare quella se che aveva perso, tra la polvere di casa e le ciabatte e le tute sformate e le russate che non la facevan piu’ dormire la notte.
E tutta quella noia in cambio dell’ l’adrenalina dei preparativi, i tentativi goffi di coprir le occhiaie, il provare a ritrovare chi era.
Perché insieme a qualcun altro, cerchiamo sempre i noi stessi che abbiamo perduto.
Qualche donna ha il coraggio di soprassedere: si compra tre paia di scarpe,una borsetta, e ridipinge il soffitto di tutta la casa o di qualche stanza mentre copula per dovere coniugale.
Ma Ceci non era mai stata coraggiosa.
Qualche donna, e son debolezze, ingoia pasticche e cede.
All’illusione che con un altro potrebbe essere stata una vita migliore.
La differenza, enorme, decisiva, la farà Gianni stasera, quando tornerà a casa. Non Alberto e neanche sua madre ammalata.
Ma se Gianni sarà ancora capace di alzare lo sguardo dubbioso quando la troverà nel letto. E la guarderà E a si avvicinerà per carezzarne i capelli, come faceva per ore, quando si erano conosciuti, mentre le chiedeva cosa c’era che non andava.
Senza stancarsi mai.
Digito un messaggio veloce a Luigi.
“Penso sia meglio che non ci vediamo più. Devo risolvere una questione importante con mio marito”.
Nessun messaggio in arrivo. Non sarebbe arrivato comunque.
Era uno di quei momenti della vita dove devi fare un salto, ben fatto, su di una gamba sola.
Come quando da piccola sul marciapiede di via Quintinetto giocavo alla settimana.
O saltellavo come si doveva fino al fondo, mantenendo l’equilibrio fin dove ero riuscita a lanciare Ia pietra, lontano, il più lontano possibile.
O dovevo ricominciare da capo.

Il giorno dopo andai a trovare mia madre.
Estrella aprì il portoncino d’ingresso, dopo che ebbi suonato due volte ,a lungo.Era il nostro segnale convenzionale.
Lo usavamo solo noi figli: io e Silvano .E per motivi importanti. Era una regola tassativa.
Mia madre mi aspettava sulla porta, con il chiavistello tirato, aveva la fissa che le spie che segregavano Aldo l’avrebbero rapita.
Era in vestaglia, verde, macchiata di caffè, la sigaretta da cui pendeva la cenere, praticamente spenta.
“Scusa Ceci, era una cosa importante. Altrimenti non ti avrei disturbata, lo sai”, sbiascicò.
“Lo so, ma’. Non c’è problema, lo sai” risposi con gli occhi bassi.
Estrella la guardava con quegli occhi verdi, esoftalmici, come quelli di una rana che era appena stata svegliata, per sbaglio.
Sfilò piano il chiavistello.” Hai controllato che per le scale non ci sia nessuno? Sai, mi spiano. Suonano e grattano dei segni sulla porta.
Ma io li frego, quelli, non esco mai”.
E rise mostrando quei denti gialli a forza di nicotina, una volta bianchissimi e splendidi.
Cecilia se la ricordava quando era maestra sua madre.
Allora li svegliava a lei e Silvano sempre in orario. Mentre era già dalle sei che si preparava. Caffè , sigaretta, malox e poi ogni mattina un vestito diverso.
E poi sempre indosso la collana, abbinata agli anelli e agli orecchini.
Alternava giornate coi capelli biondi sciolti e ondulati sulle spalle a capigliture austere che si era fatta mettere in posa dalla signora Martinetto, che acconciava in casa a tutte le ore, per arrotondare, il pomeriggio prima.
Ed Estrella usciva per tornare a casa con due riccioli accanto alle orecchie che Cecilia non aveva mai visto a nessun’altra.
Era una donna austera, i cui tacchi risuonavano sul marmo dell’entrata, tra un urlo e l’altro per farli alzare.
Poi anche loro ,dopo essersi vestiti in fretta e furia e bevuto il the, dovevano partecipare al controllo delle sigarette accese, che era l’unica cosa che pareva la terrorizzasse, allora.
Allora lei e Silvano passavano in ciascuna stanza a controllare dove ogni oggetto cavo era diventato un portacenere. Un contenitore da someiller sul comodino, la tazzina del caffè, il posacenere di vetro di Murano.
Si erano divisi la casa per far presto. A lei toccava cucina, soggiorno e bagno.
A lui entrata e camera da letto.
Ma quando eran pronti sull’uscio, a Estrella prendeva la smania di controllar le luci, poi di nuovo le sigarette.
Alcune volte il gas.
Ora a Cecilia sua madre faceva pena. Un misto di tenerezza e pena.
Attraversò l’entrata seguendola tra il puzzo che arrivava dal bagno, il puzzo dei mozziconi spenti nei piatti accanto alle bucce delle arance.
“Sai che così profumano la casa? Non senti anche tu?” disse, mentre la vedeva guardare la tavola.
A Cecilia mancava l’aria, tachicardia, vertigine, per poco non cadde sul divano, dove poggio’ la borsa.
“Mamma devi cambiare aria” disse .”Che dici, Ceci? Non me ne andrò mai, quelli non aspettano altro che prendermi l’oro”.
“Mamma bisogna aprire le persiane e le finestre, non si respira qui”.
“No”. Estrella urla.
Insomma non riesce a respirare.Ed eccola. Ti prego non qui, non da lei, che non sa nulla.
Vede la bottiglia mezza vuota appoggiata sul fornello.
Da quando Aldo l’aveva lasciata per una ragazza più giovane di vent’anni “Vent’anni, capisci?” le aveva detto piangendo, non si era più ripresa. Beveva cognac a tutte le ore, poco diceva.”Mi fa dormire meglio”.
Cecilia va verso la finestra piccola della cucina, ruota la maniglia, apre, un respiro lungo, un altro. Si calma.
Guarda verso il cortile, gli altri condomini appena la scorgono si ritraggono. Si sente un’appestata. Di più, figlia di un’appestata che non riesce a far più ragionare.
L’alternativa sarebbe stato il ricovero coatto, ma sua madre non usciva e non faceva male a nessuno. Ogni tanto la chiamavano per degli scarafaggi sul pianerottolo ma Estrella non li faceva entrare. E allora poi Cecilia assicurava ai condomini che ci avrebbe pensato lei alla sanificazione.
Portava sua madre in camera con una scusa , mentre il deblatizzatore, suo amico, procedeva in fretta mentre Estrella non doveva accorgersene, se no erano guai.
Ogni tanto riusciva a convincerla a farle fare le pulizie, almeno quelle grosse, la lasciava a fumare in camera e procedeva svelta.
Border line era stata la diagnosi, al bordo del limite. “Si può curare con la terapia adeguata ” le aveva assicurato la psichiatra.
Ma Estrella le pastiglie le nascondeva, Cecilia ne aveva trovata qualcuna anche nelle serrature, anziché inghiottirle.
E Cecilia a sua madre proprio non ce la vedeva in clinica, con le matte. In fondo lei sembrava stare abbastanza bene, a parte il non uscire e l’aver litigato prima con tutti i negozianti. Erano sempre motivi futili con cui cominciava, che poi diventavano irreparabili.
Come tutti i rapporti umani della sua vita.
Tranne che con lei, che era sua figlia.
Cecilia aveva chiesto se questa cosa, non sapeva come chiamarla, perché malattia vera e propria non le pareva, fosse ereditaria.
No, perché magari invecchiando se la sarebbe ritrovata appiccicata addosso, all’improvviso, come una mosca sulla carta moschicida.
E invece no, la psichiatra per fortuna aveva parlato solo di familiarità, e visto che c’era solo sua madre in famiglia, insomma le possibilità sarebbero state minime, ecco.
“Mamma, come stai?” le chiese.” Mamma? “. Ma lei era già sul balcone ad occuparsi dei fiori.
“Hai visto che belle gerbere che mi son cresciute? Guarda Ceci , puoi far m’ama non m’ama”. E poi ancora:”Guarda i narcisi, ho piantato i tulipani, non mi credevi quando ti dicevo che non sarebbero seccati i bulbi quest’inverno”.
Faceva sempre così, quando non aveva voglia di stare ad ascoltare.
O parlava di Aldo e della polizia che lo aveva rapito perché aveva scoperto essere una spia :” Ed è costretto, sai a vivere con quel ragazzetta, sai? Non lo lasciano tornare a casa. Se no tornerebbe subito da me , sai?”. E giù a piangere di un pianto sordo, mentre si dondolava piano, inconsolabile.
Che ne avrebbe fatto di sua madre? Di quella madre che le era sempre sembrata una bambina?
Silvano andava poco, un po’ si vergognava.
Gianni anche.
Luigi non sapeva neanche che lei avesse ancora la madre ,forse non gliene aveva neanche mai parlato.
Non si parla di patemi mentre si fa solo sesso .
Eppure questo tarlo della familiarità qualche volta la stringeva, come un paio di tenaglie.
“Mamma vieni in camera. Ti accendo la filo diffusione che ti piace tanto, io intanto rassetto”, disse calma.
E sua madre la seguì mentre la teneva per mano, le dita storte e nodose, tra le sue, la camminata lenta e trascurata.
Chiuse la porta.
La lasciò mentre fumava, seduta sul letto.
Per un po’ sarebbe stata tranquilla.
Rassetto’ la tavola, portò i piatti in cucina, prese il detersivo da sotto il lavello. Era appoggiato su carta di giornale ingiallito. Non lo aveva mai visto prima.

1950 Salasso, li 21 giugno.
Tentato suicidio.
La giovane Cecilia B., operaia 40enne, addetta allo stabilimento manifatturiero,
attentava ai suoi giorni, ingoiando pastiglie di sublimato corrosivo.
Fu ricoverata in tempo all’ospedale ma nonostante la lavatura di stomaco non potè scampare alla morte.
Causante: i soliti dispiaceri d’amore.

Cecilia cominciò a vedere tutto intorno roteare, prima piano, poi sempre più velocemente.
Doveva arrivare alla finestra, sarebbe stata ancora una volta salva.
Invece cadde sul tappettino lordo della cucina, accanto al lavabo, tra il frastuono dei piatti che caddero con lei dalle mani e le schegge che le pungevano la faccia.
“Ceci, amore, ci sei?”.
Sua madre aprì la porta della camera da letto.
“ Mamma, si. Aspetta lì, tesoro. Ho aperto la finestra , aspetta un momento”.
Estrella richiude la porta, Cecilia sente il clac secco.
Respira, respira,respira piano.
E mano a mano il lampadario smette di roteare.
Cecilia suda. Lo stesso nome suo.
Cecilia , la madre di sua nonna, morta per tisi.
Le avevano sempre raccontato che la prese nei rifugi, dove scappava con le figlie, durante i bombardamenti in città.
Perché le avevano mentito tutti?
Ora la familiarità aumentava. La possibilità che succedesse anche a lei aumentava.
L’unica possibilità che le rimaneva era credere che la pazzia avesse il carattere recessivo, verde verde giallo giallo, come i piselli di Mendel.
Una possibilità su quattro di scampare alla follia.

Voleva salvarsi. Andò in soggiorno , trovo’ la sua borsa che era rimasta aperta sul divano. La mano scivolo’ nella tasca,inghiotti’ una compressa a secco, un colpo di lingua e non si sarebbe incastrata in gola.
Poi raggiunse sua madre in camera.
Cecilia la salutò.
Alla fine non era riuscita a parlarle come al solito: né dei suoi patimenti, né del segreto che aveva scoperto in cucina, ne’ del viaggio.
I soliti dispiaceri d’amore , appunto.

Quando Estrella aveva conosciuto Aldo, allora si che le era sembrata una donna diversa. Aveva raccontato a Cecilia con entusiasmo del loro incontro segnato dal destino, di come lui subito era voluto venire ad abitare da lei, di quella nuova vita sessuale :” Che mi pare di essere tornata ragazzina, che tu non puoi capire, sei così giovane Cecilia. E’giusto che sia cosi”.
Allora gli occhi verdi le brillavano, questo se lo ricordava.
Ora, anche a Cecilia le pareva un po’di più di capire che cosa aveva voluto dirle sua madre allora. Ora, che non se ne poteva più parlare.
Li incontrava mentre lei andava dalla nonna, per darle cena, quando sulla tangenziale un’auto sportiva le zigzagava innanzi. Prima li malediceva, poi quando le si affiancavano, Cecilia riconosceva la madre nel suo foulard colorato, con gli occhiali scuri che le faceva segno di accostare.
“Cecilia amore della mamma , ciao”. Rideva mentre apriva la portiera ” Ma’ , ma che fai?Non dovevi aspettarmi dalla nonna?” Cecilia rispondeva spazientita.
“Hai ragione Ceci, ma io e Aldo andiamo a cena. Sai, mi porta in un posto speciale” glielo sussurrava all’orecchio, mentre abbassava la voce in modo confidenziale.” Alla nonna ci pensi tu cara, no, che lo fai anche per lavoro? Adesso noi andiamo tesoro eh? Ciao ciao” ed Estrella era già saltata sulla macchina sportiva da cui Aldo non era neppure sceso. L’aveva salutata dal finestrino con la mano.
Che ne avrebbe fatto di quella madre, che le era sempre sembrata una bambina a cui badare?
Estrella non l’accompagnò neppure alla porta, però sorrideva. Stranamente.
Mentre stranamente teneva incurvato il viso come faceva da bambina quando si metteva in posa per le foto di famiglia.
Mentre Cecilia varco’ l’uscio le parve di sentire sua madre che diceva:”Eppure si muore per amore”.
Ma non ne era sicura.
Il chiavistello venne tirato.
Stava già sigillando l’entrata.

Due giorni dopo era una mattinata autunnale, di quelle dove l’odore dell’umido ti entra dentro.
Mi hanno telefonato dalla portineria del tuo condominio, mamma.
“Un odore strano”, disse la portinaia annoiata ” Se ne lamentano anche i pazienti del dottore, mentre aspettano, almeno da un paio di giorni”.
Poi continuo’:” Non capisco perché non si faccia vedere dal dottore, sua madre, è così bravo. E lei sembra così malata”, finì mentre me la immaginavo smaltarsi le unghie, con il telefono trattenuto tra l’orecchio e la spalla.
E in effetti mia madre era tanto malata. Più di quando lei ed io ci aspettassimo che capitasse.
Anzi la malattia, ultimamente era diventata indomabile.
Ma quanto quanto ti sei sforzata di non farmi scorgere, neppure per sbaglio, che stavi impazzendo?
E quanto hai resistito per cercare di dominare il mostro che si era impossessato di te?
E quando hai capito che farla finita era l’unico modo dignitoso che ti era venuto in mente per non disturbarci più?
E ti sei chiesta, almeno per un momento, un baleno, un lampo, se ci saresti mancata?
Mancata da morire?
Così, quella maledetta mattina, quando la portinaia mi ha telefonato, ho capito perché l’ultima volta ti avevo scorto che sorridevi, mentre incurvavi il viso, come da bambina nelle foto di famiglia.
Non felice, ma neanche più con quella malinconia che non ti lasciava mai, con lo sguardo sullo schermo del cellulare che non si staccava più, aspettando una maledetta telefonata che non sarebbe più arrivata.
“Lui non ti amava più, non ti ha mai amata” ti avevo detto, cogli occhi bassi la voce bassa , mentre tu già guardavi fuori coi tuoi occhi verdi e grandi da rana spaurita e persi ad immaginare una vita che non sarebbe più esistita, mentre non mi stavi neppure ad ascoltare.
Cognac e pasticche che avevi fatto finta di nascondere, le trovammo nel sacco dell’immondizia, per dormire di piu. Per addormentarti e non dover piu pensare e non dover piu far niente, e non dover piu aspettare.
E così ti ho trovata, dopo che mi hanno telefonato, dopo che ho corso all’impazzata contro il tempo, dopo che ho visto l’auto dei carabinieri sotto casa e i capanelli di gente ,sperando di poterti salvare, dopo che ho visto anche Silvano sulla porta.
Lui che non veniva mai e che invece era arrivato prima di me, che mi ha urlato di non entrare.
Dopo che ho perso le chiavi e la borsa, dopo che non ti ho potuta vedere in viso, dopo che ho arretrato anch’io al puzzo irrespirabile che sentivano i pazienti del dottore, dopo che ho visto i vestiti ben ripiegati, dopo che calpestato la cenere della tua ultima sigaretta.
Dopo che ti ho chiesto: “Perché l’hai fatto?”, dopo che ho urlato:” Ti prego, non farmi questo”.
Dopo che non ti ho potuta mai più abbracciare.
Dopo che ho avuto paura, paura davvero.

E la crisi arrivò.
Più forte delle altre, come una tempesta di grandine: dove alzai le mani per ripararmi dai colpi, dove cominciai a vomitare raggiungendo il bagno, dove mi trovarono che tremavo e sbavano, cercando disperatamente di non soffocare.
Non respiravo più.

Ecco, sarei morta anch’io , accanto alla tua stanza, sopra la pelle nuda della barella dove mi trascinarono di peso, dove il dottore mi punse mentre mi diceva :”Stai tranquilla”, solo un muro non portante che mi divideva da te.
Invece poco a poco mi tranquillizzai, scesi dal lettino a piedi nudi ed uscii dallo studio del dottore.
Attraversai il pianerottolo ed il chiacchiericcio dei vicini accorsi a guardare, e ti raggiunsi nella tua camera, senza più paura.
Ecco cos’era.La paura che prima o poi sarebbe successo.
Era da quando ero piccola che ne avevo il terrore.
Senza averlo mai capito prima.
E li rimasi, ai piedi del tuo letto, solo in compagnia dell’unica colpa imperdonabile di non essere riuscita a badare io a te.
Telefonai a Gianni: “Vieni subito. Mia madre si è uccisa”.
Mio marito stette in silenzio, un silenzio di minuti lunghi come secoli, memtre le mie parole mi rimbombavano nella testa.
Poi disse, deciso : “Resta lì , amore mio. Sto arrivando. Resta al telefono con me. Continua a parlarmi”.
E , mentre cominciai a piangere, e restavo ad ascoltare le parole dolci con cui Gianni mi faceva compagnia, metà delle cose erano già tornate al loro posto.

Poi sono stramazzata sul divano, scalza , quando vidi i due fogli sul tavolo.
E cercai la forza di rialzarmi e di leggere.
Due lettere.
” Caro amore mio, immenso e unico,
Non so se ti sei reso conto del male che mi hai fatto.
Non parlo del tradimento, perché quello non c’è stato, lo so per certo, ma per avermi abbandonata così, in un incubo senza fine.
Non so perché tu lo abbia fatto, probabilmente hai pensato che avrei accettato più facilmente un tradimento che non la verità su ciò che hai combinato.
Io però non posso più vivere così, ho tentato , ma non ce l’ho fatta.
Eppure ti ho dato mille appigli per dirmi la verità,ma non hai voluto coglierli, sperando che trattandomi male , io mi staccassi da te.
Sarai anche un delinquente, ma io ti amo e ti amerò anche oltre la vita.
Non lo faccio per te, ma per me stessa, te l’ho già anche detto.
Mi sono pentita di non averlo fatto prima, mi sarei risparmiata tanto dolore, tante lacrime, tante inutili attese.
Ti amo ma sono troppo stanca.”

Cecilia ripiego’in quattro il foglio, lungo linee già tracciate e se lo mise in tasca.
“Lui non ti amava più, non ti ha mai amata”, ripeté sottovoce come un mantra, gli occhi bassi la voce bassa.
Poi prese il secondo foglio. Era per lei.
“Ciao piccola,
forse speravi che il tuo sostegno, mi aiutasse a superare il mio dolore, ma non è così.
Io non sono più una donna e l’essere mamma e nonna non mi bastano, mi dispiace tanto.
La tua vita è piena di impegni e dover accudire una madre “pazza” come sto gradatamente diventando non ti aiuterebbe di certo.
Ti voglio tanto bene e soltanto andandomene ti farò del bene, te ne renderai conto a suo tempo.
Io senza Aldo non posso più vivere, non sono certa che mi abbia veramente tradita, perché so certe cose che non ho detto a nessuno,
ma resta il fatto che io mi sento ogni giorno che passa più vuota, inutile e sola.
Non esistono al mondo medici o medicine che possano alleviare il mio dolore, non ce la faccio più, la vita non ha alcun senso se diventa così pesante.
Non è vero che non si muore per amore.
Ciao per sempre.
Mamma.
Per favore fai in modo che la nonna venga accudita bene anche senza di me. Grazie”.

Silenzio.Vuoto. Nulla.
Nelle lettere pareva di nuovo una madre ragionevole.
Anche la calligrafia si era acquietata.
La mano aveva fluito con la penna leggermente inclinata a destra, come mentre correggeva i compiti in classe che si portava a casa, impilati al fondo del tavolo di marmo, anche mentre la tavola era ancora apparecchiata.
Sempre teneva la tovaglia un po’ più in là, perché avrebbe continuato anche dopo cena , fino a notte fonda a volte, tra il fumo delle sigarette, la televisione muta e la luce tenue del lampadario del tinello , tra i benino e puoi fare meglio, i bravissimo , i male che sottolineava con vigore.
A volte Cecilia la trovava addormentata sui quadernoni e allora le dava un bacio della buonanotte e allora Estrella ricominciava fino a che non aveva finito.
Cecilia ritirò anche la sua lettera nell’altra tasca.
Avrebbe potuto raccogliere gli indumenti di Aldo che Estrella teneva nell’armadio per un suo ritorno all’improvviso , glielo aveva confidato un giorno, farsi trasferire il numero di telefono sul suo fisso e rispondere alle chiamate al posto di sua madre.
“Pronto, sono Aldo”.
Lui avrebbe richiamato, ne era certa.
” Quando posso ritirare la mia roba? Sai non ho i soldi per comprarmene di nuova”.
“Ciao”, avrebbe potuto rispondere Cecilia ” la roba è al Cimitero , campo 10, seconda fila di tombe, la quinta sulla destra”.
E attendere il clic.
Che sarebbe arrivato, anche di questo ne era certa.
Gli uomini sono dei vigliacchi.
Oppure.
Sua madre le diceva sempre che i quarant’anni sono quelli delle certezze.
E i cinquanta quelli in cui si inizia a nuotare verso grandi mari.
Per chi ce la fa a resistere, aggiunse Cecilia.
Cecilia raccolse tutte le forze che ancora aveva .
Chiamò le pompe funebri, fece uscire tutti , in fondo era stata l’unica ad occuparsene , e tutti accettarono senza porre resistenza.
E si accordo’ sui particolari.
Il giorno del funerale le avrebbero consegnato di nascosto il vaso con le ceneri.
Pagando , si ottiene tutto.
Questo lo aveva imparato nella sua età delle certezze.
Dopo avrebbe detto a tutti che aveva bisogno di stare sola.
E sarebbe partita per l’Incompiuta.
Sua madre ce la portava sempre da piccola.
Andavano in bici lungo la strada sterrata, con gli scogli contro cui si infrangevano le onde da una parte , e dall’altra le rocce ancorate alle pareti con le reti di protezione.
E lì, pedalavano con il vento che scopriva i loro visi dai capelli.
Cecilia a volte rallentava per guardare verso il basso, oltre la rete.
Le vertigini dovute all’altezza le facevano paura ma allo stesso tempo la eccitavano.
Poi sentiva la voce di Estrella che la chiamava per proseguire fino alla spiaggia.
Sua madre stendeva la stuoietta e poi l’asciugamano , dopo che erano scese lungo il sentiero che portava alla spiaggia, tenendosi per mano, perché credevano entrambe di aver trovato il modo di non cadere.
Cecilia poi le si stendeva accanto e cominciava a leggere un libro.

Estrella invece si alzava quasi subito, non sopportava il sole:”Mi viene l’eritema” diceva a voce alta, mentre rideva, ed andava a raccogliere conchiglie e sassi colorati sulla battigia.
Lì avevano passato, loro due sole, i giorni più felici.
Lì, loro due sole , senza patimenti, senza dispiaceri d’amore, senza uomini.
Lì, sua madre sarebbe voluta andare , glielo aveva detto quella mattina al telefono, che aveva bisogno di sole.
Li, avrebbe aperto il vaso, versato la cenere che si sarebbe sparsa grazie al vento del mare d’inverno, lì avrebbe liberato sua madre verso i grandi mari, come si meritava.
E lì, sarebbe ritornata ,ogni volta che la vita le fosse parsa così pesante da non avere più senso.

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