Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Alberi altissimi, margherite sbocciate tra l’erba e una vasca di sabbia. La scuola materna era una casa immersa in un grande parco affacciato sulla laguna veneziana. La meraviglia incantava gli occhi ingenui che al primo impatto non lacrimavano. Ma i pianti disperati scoppiavano subito dopo, sulla soglia della porta. Le piccole mani non volevano lasciare quelle delle mamme.
Io feci lo stesso. Un pianto convulso che fece tremare persino le vetrate. La bidella gentile sorrideva porgendo una caramella alla frutta per zuccherare la disperazione. Il volto di mia madre sparì lasciando spazio ai primi passi verso l’aula ricca di scarabocchi. I disegni erano appesi alle pareti come trofei di un’infanzia che celava ombre nere e pungenti. La disciplina, stare in fila per due, non mettersi le dita nel naso, alzare la mano se scappava la pipì. Prime regole che preparavano alla scuola elementare. Tre anni di “Giro giro tondo, casca il mondo, casca la terra. Tutti giù per terra!” di filastrocche e canzoncine cantate in coro. Anni che scorsero veloci, così come in fretta si accorciava il grembiulino e i calzettoni slabbrati scendevano alle caviglie.
Certo, il teatrino delle marionette rallegrava i pomeriggi più uggiosi e in primavera si usciva correndo per raggiungere la vasca di sabbia per costruire vaghi castelli e torri sbilenche. Le risate si sommavano al profumo delle mele che ogni bambina aveva nel cestino della merenda. Il cestino era un pezzo di casa. Un pezzo di mamma che ti rimaneva accanto.
Ricordo perfettamente che nell’armadietto che mi avevano assegnato era disegnata una caffettiera. Chissà perché! Avrei voluto un altro marchio che distinguesse la mia presenza e segnalasse quale era il luogo dove deporre cappotto e sciarpa. Mi sarebbe piaciuto un pupazzo o una stella. Forse sarà per questo che iniziai a fantasticare per modificare la realtà che mi circondava.
I giochi e le capriole cancellavano a lontananza da casa ma non sempre il chiasso era accettato. Anzi, c’era una maestra che lo puniva! Che lo annientava.
Era una donna secca secca, con il naso a punta e i capelli neri. Aveva le sembianze di uno di quei scarabocchi che disegnavamo. Non aveva una forma morbida. Umana. Anzi, di umano non aveva proprio nulla. Era tanto diversa dalla direttrice della scuola materna che aveva un sorriso dolce come la panna.
La maestra dal naso a punta chiudeva a chiave la porta dell’aula, in tal modo nemmeno le bidelle potevano entrare. Poi ci ordinava di rimanere sedute sulle panche addossate al muro.
“State composte! Immobili e zitte!”, ordinava tenendo una lunga bacchetta in mano.
Il Gioco del Silenzio era il peggior gioco che dovevamo fare. Bisognava accettarlo senza capirne la ragione.
“Mani congiunte! Girate solo i pollici. E non parlate!”, era il secondo ordine.
Vicine, con le scarpe che toccavano il pavimento, i respiri sottili e gli occhi che cercavano altri sguardi persi nel grigiore dei pomeriggi. Mille pensieri attraversavano la mia mente e il corpo protestava. Stare ferma per troppi minuti era impossibile. E poi, il girar dei pollici era davvero noioso.
E così, finivo per essere punita. Avevo trasgredito la regola del silenzio perché ridacchiavo con la mia compagna vicina.
La punizione era sconcertante. Terribile più del silenzio.
Messa al centro dell’aula, mentre tutti gli altri bambini guardavano attoniti, dovevo togliermi il grembiule, la gonna, la maglietta…e tutto il resto. La nudità che ritenevo condizione normalissima diventò uno scandalo da coprire. La vergogna entrò in me e ci vollero tanti e tanti anni per potermi liberare da quel perfido Gioco del Silenzio.