Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Non potevo entrare là. Solo personaggi di alto rango avevano l’onore di varcare la soglia. Il portone del Palazzo Tre Oci era sempre chiuso ma non mi arrendevo. Quella dimora affacciata sul canale della Giudecca era a pochi passi da casa mia, e questo mi spingeva a raggiungerla con comodità. Sapevo che il vecchio, con le braccia grosse e la camicia arrotolata fin sopra i gomiti, mi aspettava. Potevo tentare l’arrembaggio solo di pomeriggio, infatti uscivo da casa verso le quattro con la scusa di andare a giocare in Campo Marte con gli altri bambini. Alla mamma raccontavo una bugia che ancor oggi non mi pento di averle detto.
Ero rimasta troppo colpita da quel vecchio che profumava di colori e la sua casuale conoscenza mi permise di frequentarlo in modo fugace.
Presa dal desiderio di vedere le sue opere, percorrevo la fondamenta delle Zitelle a passo veloce e invece di entrare nella calle “del vento” per raggiungere le amiche, andavo dritta con la speranza di trovare aperto quel benedetto portone. E quando lo spiraglio c’era, i miei occhi si riempivano di arcobaleno. Salivo le larghe scale di marmo ed infine bussavo timidamente alla porta di Gregorio Sciltian, notissimo pittore di origine armena che parlava poco e bofonchiava davanti a numerose tele che attendevano il suo estro. Che fosse un artista conosciuto nel mondo lo ignoravo, per me era il vecchio che sapeva dipingere. Un signore di buona stazza e con il carattere un po’ burbero. Burbero con gli altri, non certo con me!
Avevo sempre una storia da raccontargli, una vicenda che riguardava la scuola, i compiti e anche cosa avevo sognato. Lui mi ascoltava distratto mentre sceglieva tra mille tavolozze i pennelli da usare. Il suo sguardo era acuto e quando mi dava le spalle concentrandosi sul suo dipinto, mi zittivo. La miscellanea di tinte che raccoglieva come fiori di campo era per me un’alchimia miracolosa. La tela prendeva vita e la luce proveniente dall’enorme finestra neogotica rifletteva lo splendore che soltanto il cielo di Venezia poteva donare.
Bastava una sua distrazione o la necessità di andare in cucina, e le tele rimanevano incustodite, davanti a me.
Non resistevo. Non ci riuscivo. Afferravo i tubetti dei colori e li strizzavo al punto che il bianco si univa al rosso, il verde macchiava il giallo e la tavolozza si riempiva di piccoli laghi densi di sfumature inconsuete. Pensavo ingenuamente di aver composto nuove tinte per il vecchio pittore. Non avrei mai osato imbrattare le sue tele ma spremere i tubetti sì. Quei nuovi colori macchiati sarebbero stati la scelta che avrebbe fatto per le sue opere.
Appena sentivo i suoi passi, indietreggiavo, mettevo le mani dietro la schiena, erano sporche del guaio che avevo combinato.
Sciltian si sedeva sul suo largo sgabello e riprendeva il pennello. Emetteva strani rumori, si girava a guardarmi senza dire una parola. So per certo che si accorgeva del mio pasticcio. La tavolozza con i colori confusi rimaneva là, accanto a lui che continuava a dipingere come se io non ci fossi.
Me ne andavo felice chiudendo la porta e salutandolo con un semplice “Ciao pittore”.
E se i colori stavano diventando una delle passioni più forti, anche la musica iniziò a prendermi la mente. La scuola di danza classica del Teatro la Fenice mi aveva forgiato i piedi ma anche l’anima. Stare sulle punte era doloroso ma la musica classica guariva ogni ferita. Ciajkovskij prese il mio cuore. E ancor oggi è suo. La musica parla oltre la realtà. Ti porta lontano, dentro e fuori di te. Ti fa viaggiare come le parole che ancora non sono espresse.
La fortuna di essere nata in una città dove l’arte è madre, mi ha portato a incontrare persone e personaggi unici al mondo. E così la mia famiglia incrociò quella di un uomo grande, timido e forte.
Così me lo ricordo. Luigi Nono, compositore e politicamente impegnato, antifascista come mio padre, aveva il raro dono della sincera simpatia. Sposato con Nuria, figlia dell’altrettanto famoso compositore austriaco Arnold Schonberg, era solito passeggiare sulla riga di marmo bianco della fondamenta. Proprio a filo d’acqua. Solitario se ne andava camminando e pensando. Ho un ricordo nitido e dolcissimo: la sua figura che ondeggia cercando qualcosa che solo lui poteva immaginare. Ero molto contenta quando andavo a casa sua, a una fermata di vaporetto dalla mia. Era una casa bellissima dove l’ordine delle cose era perfettamente intonato alle risate delle sue figlie: Silvia Nono e Serena Nono. Mie coetanee. Amiche da subito. Bambine libere e accoglienti che amavano gli animali. Ma quando il loro padre era chiuso nella stanza magica e stava studiando, scrivendo e componendo, non si poteva creare disturbo.
Capii che la musica ha bisogno di silenzio per nascere.