Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Stivali, giacca a vento e un cestino in vimini. Nei boschi l’odore di muschio entrava nelle narici come ossigeno puro. Camminare per ore nei boschi di quella che ora è l’ex Jugoslavia era naturale. La fatica di alzarsi all’alba era compensata dalla freschezza della rugiada che bagnava il viso. Salire, scalare, imprimere le proprie orme sui sentieri impervi era conquistare quella libertà che ti permetteva di urlare e sentire di ritorno l’eco della voce. Foglie gialle e marroni, rosse e verdi erano il tappeto sul quale chinarsi per scovare tra i cespugli funghi enormi. Mio padre avanzava spedito schivando arbusti e roveri, l’incitazione di proseguire era un ordine perentorio. Arrivare là in alto e ancora più in alto per conquistare il panorama che mozzava il fiato. Noi bambini avevamo le guance rosse per lo sforzo ma la gioia di riempire i cestini di finferli e porcini, russole e mazze di tamburo era talmente tanta da farci dimenticare sete e fame.
Bastoni d’accompagno ricavati dai rami caduti, mani nude e occhi puntati come laser per scovare funghi sempre più grandi. La sfida continuava senza sosta. E così le urla entusiastiche si spargevano con il vento più di quelle che facevamo durante i giochi alla Giudecca. Pierangelo Federici e Davide Federici, fratelli di tempra e carattere aperto, avevano in saccoccia porcini dalle dimensioni spropositate. Io li seguivo, speranzosa di trovarne almeno uno, seppur piccolo e malandato. In realtà la ricerca dei funghi non era per me la priorità. Amavo osservare i raggi del sole che s’intrufolavano tra gli alberi, mi piaceva odorare l’erba e accarezzare pietre e sassi di remota era geologica. Striature che mostravano il tempo passato.
I due fratelli avevano nelle gambe quell’energia che solo i “civapcici” potevano dare. Polpettine di carne che in Croazia e in Slovenia si gustavano in ogni trattoria. Noi bambini eravamo davvero affamati quando tornavamo dalla spedizione e i nostri genitori lo sapevano. Le vacanze d’estate spesso univano la mia famiglia a quella dei fratelli Federici. Il loro padre, Momi, aveva sempre una parola gentile. Politico impegnato e grande oratore, abbracciava sua moglie, Lia Finzi, con quell’amore che ricordo come integro e grande. Lia era ,ed è, una donna di raro spessore umano. Lo sguardo e il sorriso sapevano accogliere qualsiasi dolore. Sofferenza e gioia. Io l’adoravo. L’adoro tutt’oggi e non solo per la sua storia politica e d’impegno sociale ma per una ragione intima straziante. Lia fu il nome dato anche a quella sorella che non ho mai conosciuto. Una vita che si è spenta al primo vagito.
Non bastavano le risate e i giochi per attenuare la spaccatura del mio cuore e l’enorme angoscia scavò un vuoto carsico. Anche nell’età dell’infanzia i dolori rompono i pensieri e restano nel profondo che s’inoltra nel buio della morte. Non c’erano alternative per uscire dal guscio sofferente e solo la mano eterna della Natura mi aiutò a risalire. Accadde in un giorno di vacanza a Logarska Dolina. Successe qualcosa che quietò l’ansia e lo sgomento. Sì, avvenne proprio lontano dalla casa dall’Italia e dalla casa della Giudecca.
La ricerca dei funghi e le lunghe passeggiate erano oramai una consuetudine ma quel giorno eravamo solo io e mio padre. Ci eravamo alzati che era ancora buio e arrivati nel bosco lui s’inoltrò a passo veloce, io rimasi indietro. Stanca e ancora assonnata, approfittai di un grosso tronco addormentato in mezzo al sentiero. Mi sedetti e il silenzio fu rotto da uno strano rumore. Dietro ad un grande cespuglio notai un certo movimento sospetto. Poi, d’improvviso, spuntarono due orecchie e un muso. Era un cerbiatto! Un cucciolo meraviglioso che ruminava tranquillo. Per qualche secondo rimasi immobile ma la felicità di trovarmi a pochi metri da quella meraviglia agitò gambe e piedi. Il cerbiatto bloccò la masticazione e girò il muso verso di me. Gli occhi, grandi e profondi, mi fissarono.
Restammo a guardarci e quegli occhi riempirono i miei del nutrimento di cui avevo bisogno. Un cibo immateriale che è come l’amore. Il suo era uno sguardo colmo di sorpresa. Di vita giovane e selvaggia. La fragilità di quel momento si sommò alla bellezza dell’esistenza di ogni miracolo della natura.
Un pensiero mi attraversò come una lama: quel cucciolo inerme poteva sparire dal mondo per qualsiasi imprevisto. Ucciso dal cacciatore di turno, una scivolata in uno strapiombo o una malattia. I suoi grandi occhi si sarebbero chiusi per sempre. Così come accadde a mia sorella, la cucciola che la mia famiglia aveva atteso per nove mesi.
Con la bocca aperta fermai il respiro. Sentii come se una doccia improvvisa mi lavasse dal dolore.
Il cerbiatto mosse le orecchie e avanzò timidamente. Mi alzai per accarezzarlo, però la mossa non fu felice. Il piccolo corse via.