Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Ho frequentato la scuola elementare “Carlo Goldoni”, magnifica villa della Giudecca affacciata sulla laguna. Là ho imparato le tabelline e l’alfabeto. Le aule non erano semplici aule ma vere e proprie stanze con travi a vista, pavimenti con mosaici preziosi e in quella del prima elementare c’era persino il caminetto! Ma senza fuoco! Le maestre erano rigorose, alcune affettuose e altre altere. In ogni caso, ognuna di noi alunne aveva il suo mondo da raccontare e gli scherzi da fare. Sui banchi s’intervallavano pianti e risate, brutti voti e 10 e lode che marchiavano i quaderni e le pagine con le “orecchie”. Voti che poi venivano commentati dai genitori, non sempre clementi. E così io cercavo di farcela tentando di non cadere in troppi errori. Volevo capire perché quando il prete entrava, io dovevo uscire fuori dalla porta e stare con la bidella. Ero l’unica bambina della scuola esonerata dall’ora di religione e per questo abbandonavo l’aula. Negli Anni Sessanta gli atei erano considerati il diavolo! Ed io, ero il demonio? A 6 anni era una domanda alla quale non sapevo proprio rispondere. Il dubbio mi creò non pochi disagi interiori. E mi arrovellavo anche quando vedevo il gruppetto di orfani accompagnati dalle suore che fungevano da mamme. I bambini senza genitori indossavano tutti lo stesso cappotto di colore grigio. Grigio come lo sguardo che mostravano.
Ma nel grande parco della scuola, quando sbocciava la primavera, era lecito correre e giocare tutti insieme durante l’ora di ricreazione. La fontana non zampillava mai. Io, la immaginavo viva, con l’acqua fluente che bagnava mani e viso. I sogni di come poteva essere la realtà che non mi piaceva iniziarono a farsi sempre più frequenti. E non ci volle molto perché i pensieri diventassero frasi o disegni. Non mostravo a nessuno ciò che componevo. Ne avevo vergogna.
Però la vivacità che esplodeva dentro il mio cuore la condividevo con le mie compagne di classe e con tante altre amiche.
La strada diventava la scuola più importante, perché ti avviava alla cura dei sentimenti e delle sfide da superare per forgiare il carattere.
E così con Donata, Rossana, Manuela, Daniela mi scatenavo in giochi divertenti e molto semplici che oggi non si fanno più.
Insomma, i pomeriggi scorrevano come il vento. Giocare a Nascondino e ai Quattro Cantoni, era il modo per stringere amicizie che sempre più diventavano forti e solide. I dispetti si univano alle piccole vendette, ma bastava una pietra per giocare al Campanon…e tutto passava.
Le confidenze, i primi “amori” infantili. Pettegolezzi e delusioni. Emozioni che duravano poco anche se erano potenti e fulminee.
Chi aveva fratelli e sorelle poteva contare sempre in una compagnia durante le ore in casa, io ero figlia unica e allora le mie “sorelle “erano le bambine del palazzo dove abitavo. Le rispettive mamme si affacciavano alle finestre per stendere le lenzuola e le chiacchiere si perdevano in quel cielo azzurro che brillava più dei loro occhi giovani. La madre di Susanna si complimentava con la mia quando cucinava il pesce, e le risate si sentivano fin oltre le case. Mentre la mamma di Rossana, vedendo che ero sola senza sorelle, mi chiamava per andare a mangiare la bistecca da lei, assieme a sua figlia. Era la bistecca più buona del mondo!
E le abbuffate di felicità e cibo erano d’obbligo alle Feste dell’Unità. Con le sorelle Mara e Barbara mi sono divertita così tanto a cantare e a correre che potrei sentire ancora adesso la gola bruciare e i polpacci dolere. E il pane? Sì, il pane di Gilmo (mi pare si chiamasse così) era fantastico, soprattuto i “montasù”. E la “Lilli del latte”, donna dai modi gentili, era sempre pronta a porgere la bottiglia con quel buon liquido bianco fresco e sano. Peccato che il banco del negozio fosse un po’ troppo alto per me, piuttosto bassa di statura. Infatti, per arrivarci mi sforzai talmente tanto che alla fine sbattei la bocca e mezzo dente saltò per aria. Il mio sorriso cambiò in un istante trasformandosi in un pianto inevitabile. Ricordo perfettamente che per consolarmi l’amica Adriana mi portò dalla “Moretta”, donna con in testa uno chignon acconciato con le forcine, che mi abbracciò fortissimo: “Ti se bea anca col dente rotto”.
Una frase, tanto affetto e le lacrime terminarono.
Ricordo. Ricordo tutto. Anche i silenzi e gli sguardi sinceri dei giudecchini.