Ho un ricordo nitido della mia infanzia. Anche dei primissimi anni.
Scene, rumori e profumi che ancor oggi mi tengono compagnia.
Dieci brevi racconti che ora dedico a tutti coloro
che nel “Tempo del Coronavirus” possono leggere in pochi minuti.
Capelli corti, tagliati a maschio, nessun profumo e mani forti. La dolcezza era nelle parole e nei gesti. Zia Vittorina era così e in famiglia la chiamavamo Tuna, e non so perché.
In verità non era proprio una zia, mia nonna Maria l’aveva ricevuta in casa quando era solo una ragazza. Una figlia acquisita che negli anni diventò parte fondamentale della famiglia guadagnando l’appartenenza, per questo era per tutti noi una “zia”.
La casa di nonna Maria era a pianoterra, in Campo Marte, a pochi metri abitava Tuna con la vecchia “Peri”, sua madre.
Ho un’immagine fissa della vecchia Peri, sempre vestita di nero tabaccava tirando col naso e se ne stava seduta accanto alla finestra della cucina. Il suo panorama, per anni e anni, fu sempre lo stesso: il campiello colmo di pietre e fango. All’epoca molte fogne erano a cielo aperto e l’erba cresceva ai lati dei condomini. Non vi erano fiori e nemmeno aiuole. Eppure noi bambini giocavamo a perdifiato, perché l’infanzia si adagia e cresce anche nel nulla. Quel nulla, che per noi, era tutto. Le urla delle mamme che si affacciavano ai balconi si alternavano in un ritmo armonico. Tutte chiamavano i propri figli, li sgridavano, li ammonivano con frasi irripetibili. Le grida erano come musica e la vivacità delle parole sottolineavano la genuinità di un’educazione antica.
Ero contenta di stare a casa di nonna, mia madre e mio padre lavoravano nell’osteria di nonno Gigio e dunque i pomeriggi li trascorrevo con Tuna. Lei sapeva a malapena leggere e scrivere, eppure aveva il pregio di stimolare la mia fantasia.
Sui quaderni di scuola mi faceva disegnare piccole farfalle. Un disegno semplice, fatto con un banale trucco. Bastava un pezzetto di colore a cera premuto e girato sul foglio per far nascere ali variopinte.
Mi piaceva tanto avere pagine che potevano colorare le giornate.
Farfalle che volavano dentro la mia mente di bambina irrequieta.
L’inverno passava nel calore del cibo cotto che Tuna preparava con pazienza. Il lungo tavolo di marmo era sempre apparecchiato per chi passava da casa e mangiava senza porsi il problema dell’orario. Pranzi e cene fugaci e io mi nutrivo di farfalle imprigionate sui quaderni. No, non mangiavo molto e la magrezza era talmente evidente che amici e famigliari iniziarono a chiamarmi “due etti”. Due etti di occhi grandi e un vuoto enorme nel cuore. La morte di mia sorella riempiva la voragine e non c’era cibo che potesse sostituire il dolore.
Superare, crescere, capire, accettare. Sì, lo dovetti fare. Non c’erano alternative alla morte. E così le farfalle di Tuna portavano il sorriso in quella casa dove il via vai di cugini era continuo.
La merenda arrivava come i coriandoli a Carnevale, ed era uguale o quasi per tutti i bambini di Campo Marte: pane e zucchero, pane e olio o talvolta un frutto.
Ammetto che nonno Gigio aveva una preferenza per me, con la sigaretta in bocca e lo sguardo furbo metteva la mano in tasca e mi dava un soldino. Lo spendevo subito correndo alla baracchina verde, quella della “Lidia dei dolci” e dietro il banco spuntava Marina, ragazza bionda, con le guance rosse che accoglieva bimbi golosi con uno sguardo azzurro, come il cielo.
C’erano caramelle profumate, bottigliette di liquidi aromatici da bere in un attimo, strisce di liquirizia e bon-bon di ogni gusto.
Colori e profumi che si sommavano agli arcobaleni delle farfalle che rimanevano sulla carta e nel mio cuore.