I colloqui coi medici si erano susseguiti rapidamente. Livia, con forza, non aveva mai smesso di incitare il poliziotto nella lotta quotidiana con la tristezza che, in ogni istante, rischiava di precipitarlo nel baratro. Non lo abbandonava mai. Anche l’amico Alberto li raggiunse. Le due persone per lui più care al mondo lo assistevano giorno e notte, lo svagavano, lo sommergevano
letteralmente di informazioni che gli potessero dar speranza. D’altra parte questo era l’unico modo anche per loro di sopravvivere a quell’esperienza che metteva a rischio la salute di quel giovane ricciuto che aveva stretto le loro vite in un unico cerchio.
Più volte nel buio costante delle giornate a Omobono passarono per la testa infiniti pensieri su come sarebbe potuta evolvere differentemente la sua vita se l’incidente fosse andato in altro modo. L’invalidità avrebbe potuto non esserci, come avrebbe potuto essere peggiore. Ma cosa poteva esserci di peggio di quello? La morte forse. Ma non riusciva, pur sentendosi irriconoscente per la sorte che in qualche modo l’aveva assistito, a chiedersi qualche volta se quella situazione non fosse paragonabile alla morte stessa. Era stato privato del suo progetto di vita, dei suoi sogni, del suo lavoro, delle sue speranze. Che vita avrebbe garantito a Livia? Che futuro ci sarebbe stato insieme? E’ vero, non sarebbe stato il solo cieco al mondo. Ma la disperazione lo spingeva pensare se non sarebbe stato meglio scomparire. Ripensava spesso alle parole che l’avevano fatto tanto adirare mentre, a scuola da ragazzo, discuteva con l’insegnante di filosofia: “Per Heidegger il dolore più grande per ciascuno di noi viene dalla morte dell’individuo stesso, perché negazione del proprio Progetto”. Il giovane impertinente si arrabbiava, si risentiva pensando alla perdita delle persone care e a quanto strazio aveva provato per la morte la nonna. No, non poteva esistere disperazione più grande del perdere chi si ama.
Ora, in questo stato che Bono viveva come una morte a metà, si sentiva perduto, in bilico fra due mete, la ripresa della vita e l’exitus definitivo, entrambi più invidiabile, si convinceva pur mordendosi le labbra, di quella vita sospesa.
L’intervento passò, ma i risultati non si videro per circa un mese. Furono giorni buoi, in cui Omobono, rinchiuso nella stanza al buio, passava dalla tristezza alla speranza, dai ricordi, ai progetti e poi di nuovo allo sconforto. Erano stati a visitarlo a casa, dove gli era stato permesso di trascorrere la convalescenza, diversi colleghi e alcuni parenti.
Fra di essi, la madre. L’aveva avvertita Livia e con lei aveva organizzato modi e tempi dell’incontro che da tanto tempo tardava ad avvenire. Dopo l’iniziale imbarazzo, la donna l’aveva abbracciato ed erano rimasti così a lungo in silenzio. Non era mai stata di troppe parole, Bono lo sapeva.
Ma anche solo quel gesto l’aveva commosso e gli aveva fatto pensare che quella sciagura almeno una nota positiva l’aveva portata. Forse avrebbe potuto ricostruire quel rapporto con la famiglia che aveva distrutto senza comprenderne a fondo i motivi e che ora, in fondo, gli mancava.
Venne la prima visita di controllo. E i medici dissero che l’intervento era riuscito. Il ragazzo all’inizio non ci credeva, ma di giorno in giorno si rese conto che avevano ragione. Quando lo sbendarono definitivamente e per la prima volta rivolse lo sguardo a Livia, rimase senza parole per lo stupore. Era bellissima nel suo vestito estivo e il sorriso che gli rivolgeva era impareggiabile.
“Ma… sei incinta?!?!”
“Già!”, fece lei, noncurante e terribilmente divertita. “Eri così preso dalla tua malattia che non ti sei mai accorto di nulla! Evidentemente abbracciandomi non ti sembravo così ingrassata. Lo prendo come un complimento!”, e ancora sorrideva.
Omobono fu assalito da un dubbio, di cui subito si pentì. “Di chi è?”
Livia non si scompose, anche se Bono, che già si mordeva la lingua, lo sapeva, si sarebbe meritato il peggio.
“A giudicare da quanto ti somiglia anche solo all’ecografia direi che non ci sono dubbi! Se tu non fossi ancora convalescente ti strozzerei! Sei il solito stupido!”
Voleva dar l’impressione di essere offesa, ma la gioia la sovrastava.
“Lo so da quando mi hanno chiamato per dirmi dell’incidente. Mi sono sentita morire. Ma quando ho saputo che eri vivo e che, vista a parte, eri sano e salvo, ho ricominciato a credere nel futuro. Amore, tutto bene?”
Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi. Si avvicinò e la attirò a sé.
Aveva vissuto nel buio negli ultimi quattro mesi. Non solo degli occhi, ma anche dell’egoismo. E ora voleva rimediare. Abbracciò stretta la giovane e le sussurrò:
“Ti amo, sai? Mi spiace… ma vedrai, alla fine sono ancora convalescente! E nei prossimi mesi non ti sarà facile liberarti di me. Non vi lascerò soli un minuto. Abbiamo tanti istanti perduti da recuperare!”
Livia ricambiò l’abbraccio e nascose il viso nella spalla di lui per nascondere la lacrima di commozione che le rigava il volto per l’emozione e la felicità del momento. La vita ricominciava. E non aveva intenzione di perdersene nemmeno un sorso. Per se stessa, per Omobono e per la vita che stava per venire al mondo, frutto del loro amore: il piccolo Martino.