I due giorni successivi volarono.
Omobono andava al lavoro quasi fosse un automa.
Ogni tanto scuoteva il capo, cercando la concentrazione ormai perduta, quasi rimproverandosi per aver smarrito la strada lastricata di propositi (“Cattivi! Anzi, cattivissimi!”, gli ripeteva Alberto) tutti lavorativi.
Il pomeriggio precedente alla serata fatidica, uscì presto dalla centrale.
Al piantone quasi caddero gli occhiali quando lo vide:
“Omobo'” E che te prende? T’hanno bruciato la scrivania?”
“Impegni!”, si limitò ad urlargli di rimando mentre già saltava sul tram, lasciando ancora più di stucco il collega.
Si precipitò dal barbiere a spuntare la coda di ricci neri che gli incorniciavano il volto, poi dal fioraio: anche se un po’ demodé voleva stupirla.
Alle venti era già piantato da quaranta minuti al posto pattuito per l’appuntamento: passeggiava nervoso avanti e indietro, coi fiori stretti fra le mani, all’uscita della metropolitana “Monti”.
Erano ormai passati venti minuti dallo scoccare dell’ora: il giovane si stava dando dello sciocco per averci creduto, per aver pensato anche solo per due giorni di tradire il suo compagno di sempre, il lavoro, di aver…
Fino a quando non apparve.
All’improvviso, come la prima volta, come tre giorni prima al parco, di corsa col tacco basso, col fiatone su dalle scale del treno sotterraneo.
“Scusami, ti prego, scusami! E’ arrivato un cliente mentre chiudevo e voleva qual pane, sì proprio quello lì, che facciamo solo il venerdì! E a spiegargli che no, era mercoledì e non l’avevamo,
figuriamoci! E lui…”
Si fermò alla vista del volto di Omobono, sconvolto dall’impeto delle parole, della bellezza e della forza dei vent’anni di quella ragazza.
Livia di nuovo fraintese. “Davvero, mi spiace… Non essere arrabbiato….”
E si rattristò pensando di aver rovinato tutto, di aver buttato via quella serata che sognava da due
interminabili giorni, di cui aveva parlato per ore al lavoro, al telefono e la sera a cena con la sua amica Romina, per cui aveva messo quelle scarpette marroni col tacco basso che adorava, per cui aveva preso quel vestito di seta leggero, per cui aveva indossato la sua giacca di pelle preferita, in cui aveva sperato che quel ragazzo meraviglioso caduto dal cielo la guardasse ancora una volta coi suoi intensi occhi azzurri.
Omobono rimase ancora stupito. Le sorrise, la prese per mano e le porse i fiori.
“Sono arrivato da poco anche io, non ti preoccupare!”.
Livia sorrise, gli strinse la mano e si incamminò con lui verso il locale che lei stessa aveva scelta per cena: “La Vecchia Roma” in via Leonina.
Durante la cena parlarono di tutto, anche se Livia, come ormai era d’abitudine, fece la parte del leone. Gli raccontò di tutto, della scuola che aveva frequentato fino a pochi anni prima, di sua madre che viveva a Firenze con la sorella Giulia dalla morte del padre, dell’appartamento che aveva affittato a Roma non lontano da Piazza del Popolo, dell’amica Romina con cui si dedicava all’esercizio commerciale che da circa un anno avevano rilevato e riammodernato insieme.
Chiese a Omobono del suo lavoro, della sua famiglia.
Per un attimo il ragazzo la guardò pensieroso, indeciso su cosa e quanto raccontare. Ma alla fine scelse la reticenza: guardandola in viso, decise di non voler rovinare tanto luminoso entusiasmo, tanta semplice bellezza ed ingenuità con la storia della sua famiglia e del suo passato.
La rivelazione della sua professione fece sobbalzare Livia, che avrebbe voluto fargli un mare di domande se non fosse arrivato il cameriere a salvarlo col dolce.
Dopo il limoncello (che si accorsero tutti e due di amare!), Omobono pagò il conto e si alzarono.