Decisero di percorrere a piedi il pezzo di strada che li separava dai Fori Imperiali e dall’Altare della Patria.
Giunti al Campidoglio, fecero la scalinata e aggirarono il Municipio, ritrovandosi d’innanzi lo
spettacolo dei templi illuminati.
La via sacra proiettava lo sguardo verso il Colosseo. Omobono si accorse che Livia tremava lievemente. Si avvicinò ancora un poco e le cinse le spalle:
“Hai freddo? Tremi…”
“No, è questo spettacolo meraviglioso… L’ho visto migliaia di volte, ma mai mi ha emozionato tanto come ora che lo stiamo guardando, insieme a te…”
Il ragazzo si sentì intenerire a quelle parole, la strinse ancora un poco finché la giovane non lo guardò a sua volta negli occhi.
E si baciarono.
Da lì fu un susseguirsi infinito di dolcezza per quella sera. Fecero abbracciati, correndo e ridendo, via del Corso.
Si lasciarono Montecitorio sulla sinistra, via dei Condotti con piazza di Spagna sulla destra e di ritrovarono in piazza del Popolo.
“Vieni con me.”
Quello di Livia sembrava più un ordine che una preghiera.
Ma Omobono voleva di più “E che principessa saresti se non ti portassi nel mio castello?”
Con un gesto fluido la sollevò da terra. Lei rideva e urlava di lasciarla.
Non fece una mossa.
La portò con fare deciso verso il tram, fecero col cuore in gola tutto il percorso fino al capolinea, proprio davanti al forno in cui Livia lavorava.
In pochi istanti giunsero a piedi a casa del poliziotto, fecero le scale e si trovarono abbracciati sul letto.
Il resto della notte fu tutta un’elegia di baci, sussurri, confidenze e sospiri.
Quando la mattina Omobono si svegliò, si accorse di essere in ritardo, ma non glie ne importava.
Trovò la colazione pronta sul tavolo, con una brioche e un biglietto:
“Ci vediamo stasera?”
Sorrise, pieno di felicità. Che quello fosse amore?
Si vestì, si chiuse la porta alle spalle e si diresse al lavoro.
Non prima però di essere passato all’appuntamento con la vita che lo attendeva proprio lì, a due passi da casa, al “Dolce Forno”.
Gli anni trascorsero felici, finché qualcosa di nuovo non segnò la vita di entrambi, di Omobono in particolare.
Correva l’anno 2005 quando si liberò un posto da ispettore a Lodi e Omobono, all’età di 38 anni, ritornò catapultato per la prima volta da dieci anni in Lombardia all’esclamazione della compagna:
“Perché no? Sarà forse la volta buona che mi presenterai tua madre!”
Il padre del giovane, Luigi Bodini, era mancato ormai tre anni or sono dopo una brevissima malattia pancratica con una fama indiscussa di benefattore per il grande lavoro svolto nel settore sviluppo agricolo, fama che aveva portato post mortem anche alla consegna di una benemerenza alla famiglia: a ritirarla si era presentata la madre di Omobono, Piera Rizzi, con il nipote, Franco Bodini, che aveva ormai preso in mano, con buon orgoglio contadino, l’attività e la cascina in cui entrambi i cugini erano nati e cresciuti.
Omobono non si era presentato per un caso inatteso da risolvere a breve in quel di Roma, del quale, nonostante insistenti richieste della famiglia per telefono, si limitò sempre a rispondere solo e vagamente: “Eh, mi spiace, ma era urgente… una brutta storia…”
Solo Livia sapeva che l’unico caso che allora l’uomo aveva per le mani era il conflitto che lo divorava con la famiglia d’origine, l’inadeguatezza a svolgere un compito a cui la sola discendenza l’aveva indirizzato e dal quale era fuggito, incompreso e non accettato dal padre, orfano della sola figura che l’aveva davvero guidato, lo zio.
Un’antipatia recondita lo legava al cugino Franco che si era insinuato nel varco che aveva lasciato la sua fuga da casa.
Non si trattava di gelosia, intendiamoci. Era come tuttavia se un diversivo si fosse insinuato nella sua personale battaglia con la famiglia per stabilire i suoi spazi e i suoi orizzonti, per ammettere i suoi limiti, ma anche per far emergere i suoi pregi, i suoi ideali, i suoi valori.
E la tradizione aveva chiuso definitivamente i ponti con le sue origini.
Solo l’affetto per Alberto, l’amico che l’aveva seguito nell’ormai lontano viaggio a zonzo per la Francia, lo riportava talvolta ancora al cremonese: il ragazzo si era recato spesso in giro per l’Italia a trovare Omobono, via dall’età di 18 anni all’inseguimento della carriera nel corpo di Polizia tanto avversata dai genitori. L’aveva accompagnato, anche se a distanza, per le traversie che le situazioni difficili gli avevano posto d’innanzi, l’aveva aspettato quando, nel 2000, il poliziotto aveva dimenticato gli amici perso nell’amore per la bella Livia con cui ora conviveva, era andato a trovarli e aveva sorriso alla loro unione in cui l’amico sembrava aver finalmente aver trovato pace dalle discordie famigliari.
Alberto aveva gioito dentro di sé alla notizia del ritorno a Lodi, per una volta a soli cinquanta chilometri dal mondo che li aveva visti uniti e con Livia aveva concordato i festeggiamenti di rito per il rientro.
La ragazza, dal canto suo, aveva trascinato Omobono, parecchio svogliato e pensieroso, nel trasloco, facendosi in quattro per trovare un nuovo lavoro per sé e un ambiente accogliente per entrambi.
Ad Omobono questo trasferimento pesava più degli altri, per l’età che avanzava, continuava a ripetersi, per gli amici e colleghi che lasciava, si diceva, per la paura dei fantasmi del passato, confessava a se stesso nei momenti di solitudine.
Come un bambino che non vuole essere portato a scuola, nei giorni precedenti alla partenza faceva i capricci, trovava scuse per rimandare, muoveva continue obiezioni che ancora non abbandonava mentre Livia guidava tranquilla l’auto carica degli ultimi bagagli lungo l’A1.