E finalmente l’orgoglio la vinse. Omobono saltò in piedi.
“Ho delle cose da fare, ci vediamo per cena.”
Livia sapeva che non le avrebbe dato ragione. Ma altrettanto sapeva che aveva capito. Come al solito faceva il duro. Soprattutto dopo aver mostrato tutto il suo lato infantile.
“Va bene. Pago io.”, accennando ai caffè che il barista gli aveva messo davanti poco prima.
Omobono riattraversò a grandi falcate la piazza. Entrò in Questura e come un fulmine giunse nel corridoio dove Alberto stava da quella mattina. Doveva parlargli. Ma appena svoltato l’ultimo angolo si fermò, andando a sbattere contro qualcuno: l’uomo era lì, in piedi davanti a lui.
“Ma tu… come mai da queste parti?” Omobono si rese conto della stupidità della domanda che la sua mente gli aveva consigliato. Impossibile correggere il tiro. Alberto capì e si lasciò sfuggire uno di quei suoi sorrisi di sbieco, di quelli che rasserenavano
l’amico quando sapeva di aver fatto qualcosa che aveva bisogno del conforto del suo affetto. “Mi hanno lasciato andare. Pare abbiano trovato il colpevole.”
Il poliziotto rimase interdetto, con lo sguardo interrogativo. In quel momento giungendo dalle spalle di Alberto, passarono due colleghi, portando con se’ un ragazzino di sì e no vent’anni.
“Stavano giocando, dice quello. L’hanno visto in macchina che si truccava. Gli hanno bussato e hanno cominciato ad insultarlo. Miguel è sceso e la banda ha cominciato ad assalirlo. Stavano giocando. Finché è morto… Stavano giocando. Ma l’amore delle persone non è un gioco. Farsi accettare non è un gioco…” L’uomo si lasciò scappare un sussulto. E tutte le difese di Omobono caddero: abbracciò l’amico che scoppiò a piangere fra le sue braccia.
Ci vollero settimane perché il peso di quei giorni si sciogliesse.
Omobono ebbe tutto il tempo di far bonariamente pesare all’amico la sua mancanza di fiducia e Alberto non si stancò di sorridere alle affermazioni di Livia che, tutte le volte che si metteva di mezzo, continuava solo a borbottare, dandogli talvolta del cieco, talvolta dello zuccone. Le cose non tornarono mai come prima. Ma così va la vita, tutti e tre lo sapevano. L’affetto si nutrì delle
esperienze, si modificò con loro e, pure nel cambiamento, continuò a sostenere quel legame che li stringeva da anni: l’amicizia.
Ancora i giorni e gli anni si rincorsero tranquilli, finché un nuovo evento non modificò l’andamento lineare delle loro vite.
Qualcosa di inatteso, di terribilmente doloroso alla stregua di una morte raggiunge Livia al telefono in una serena mattina d’aprile, strappandola dal sogno di un’esistenza condivisa per sempre, di una sorte che non li avrebbe separati per infiniti anni a venire.
La donna in preda al panico si scaraventò fuori di casa e raggiunge l’ospedale nella periferia milanese, dove una scena inattesa la colpì come un pugno allo stomaco e la fece vacillare.
Prima un occhio, poi l’altro. La luce filtrava con insistenza nel minimo spiraglio che si era creato fra le palpebre. Se le sentiva ancora ostinatamente incollate fra loro, ma non riusciva a spiegarsene il motivo. Prima lottò fra la sofferenza di non vedere e quella creata dalla lama luminosa che gli faceva apparire tutto il mondo esterno immerso in un innaturale biancore. Non riuscì a resistere: richiuse gli occhi di scatto e si lasciò precipitare di nuovo nell’oscurità. Demoralizzato, si sentì perso. Ma solo per qualche istante: si sarebbe orientato altrimenti.
Aguzzò l’udito e cercò di captare tutti i rumori, tutti i suoni che potessero dargli indicazioni su dove si trovasse, informazione che, per quanto cercasse e scavasse nella sua memoria e nei suoi ricordi, non riusciva a trovare.
La stanza era silenziosa, ma riusciva a percepire qualcosa al di là dei muri che verosimilmente lo separavano dal resto del mondo. Alcuni uccellini cinguettavano. Delle voci soffuse che non gli sembrava si riconoscere lo raggiungevano attutite. Qualcuno stava bisbigliando non lontano da lui e si stava avvicinando, facendo il suo ingresso nel locale. Si concentrò in particolare sulla voce
femminile: seppur deformata, confusa, gli sembrava avesse qualche nota familiare. Poi capì: era la voce di qualcuno che piangeva. La voce di qualcuno a cui teneva più della sua stessa vita: era la voce di Livia.
Percepiva ora il delicato profumo che ogni mattina con precisione quasi maniacale si massaggiava delicatamente sul collo e sui polsi. Era innamorato di quei gesti. Era innamorato del sorriso che gli rivolgeva quando, voltandosi, capiva che la stava osservando. Ma mancava qualcosa. Dov’era l’altro profumo, quello che non la abbandonava mai, quello del pane? E soprattutto, perché stava
piangendo? Cosa le avevano fatto?
La voleva raggiungere, ma si sentiva ancora infinitamente stanco. La vista di nuovo non lo aiutava.
Cercò allora di muoversi per attirare almeno la sua attenzione, per dirgli che c’era. Con piccoli gesti cominciò a muovere le dita della mano destra, a partire dal mignolo.
Sentì che ci stava riuscendo. E questo gli diede fiducia. Lentamente riprese possesso anche delle altre dita. Questo semplice gesto attirò come sperava l’attenzione di qualcuno: sentì le voci avvicinarsi ulteriormente.
“Omobono! Bono, mi senti?”
Era Livia. La voce aveva sempre delle note insolite, ma gli diede forza.
“Sì… sì.”
Ma non riuscì ad aggiungere altro. Sfinito dallo sforzo, ripiombò nel sonno.