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L’ABETE DEI SOGNI di Sonia Scalia. Primo livello – Corso Adulti

L’abete dei sogni
di Sonia Scalia
Primo livello – Corso Adulti

Le parole del mister aleggiavano come stelle filanti nella testa di Leo. Era su di giri. Il ragazzo sapeva che i sacrifici immensi a cui si era sottoposto in quegli ultimi due anni, lo avrebbero portato al traguardo che si era prefisso. I suoi genitori per primi lo avevano incoraggiato a perseverare. La corsa prima di andare a scuola, e i pomeriggi estenuanti ad allenarsi in pista, correndo i 400 metri in tempi sempre minori, finalmente, gli avrebbero permesso di partecipare alle Olimpiadi giovanili che si sarebbero disputate in giugno. Leo voleva urlare di felicità. Per questo, mentre tornava a casa dagli allenamenti, si diresse su per la collina. In cima alla quale lo aspettava un vecchio amico solitario: il maestoso abete. Quello era un posto davvero speciale per Leo. Con quell’abete era cresciuto. Aveva pianto e riso. Sfogato momenti tristi e condiviso quelli belli. L’abete gli faceva compagnia quando salutava la partenza dei genitori. E allo stesso tempo il loro arrivo in automobile. Nel prato, sotto quell’ombrello di rami e foglie aveva imparato a camminare e a correre. Correre: la ragione della sua vita. Come poteva dimenticarlo. Era grato allo spirito di quell’albero che lo vegliava e gli dava la forza di credere in se stesso. Lo sentiva come uno di famiglia.
Nel cielo scesero intanto i fili rosa del tramonto filtrando tra le foglie dorate che pendevano dai rami.
D’un tratto, da dietro il tronco massiccio spuntò Bimba, il pastore tedesco del signor Kadinski. Con un balzo gli andò incontro agitando festante la sua pettorina rossa con impressa una croce bianca.
Il cane pareva volesse festeggiarlo. Leo si chinò e gli strinse le braccia attorno al collo. Poi insieme scivolarono nel secco tappeto autunnale. Leo rise. Il suo sogno stava per coronarsi. E proprio quel pomeriggio il mister glielo aveva ribadito di fronte l’intera scolaresca. Che emozione! Aveva detto che se c’era qualcuno che poteva vincere quella competizione, di sicuro era Leonardo Mancini. Lo attendevano dei mesi faticosi ma lui non avrebbe ceduto alla stanchezza. Nonostante la giovane età, Leo aveva le idee ben chiare riguardo la sua carriera di atleta. Aveva ereditato la tenacia di sua madre e la caparbietà del padre. E nulla gli avrebbe impedito di salire sul podio della più importante manifestazione riservata ai minori di quattordici anni.
<<Bimba, torna qui!>> La voce di Orlando Kadinski lo riscosse da tanti sogni di gloria. Era davanti al suo cavalletto, la tavolozza dei colori in mano. Anche lui trascorreva parecchie ore in quel luogo magico.
Leo si avvicinò al pittore. Bimba lo seguì a ruota e di corsa andò a sfregare il musetto nei pantaloni del padrone come a volerlo tranquillizzare.
<<Sei tu, Leonardo Mancini>> chiese Kadinski, gli occhiali scuri sul naso. Era intento a sfregare le dita impiastricciate sulla tela. <<Odori di terra e fango. Hai corso all’ippodromo, oggi?>>
Leo abbozzò un sorriso in segno di saluto. Ormai si era abituato ai modi un po’ scorbutici del vecchio Orlando. Di sicuro amava l’abete tanto quanto lui. Altrimenti, pur essendo suo vicino di casa, com’è che lo aveva incontrato sempre e soltanto lassù. In quel preciso momento, Leo portò una mano alla fronte, che stupido si disse ripensando al signor Kadinski, lui non poteva vedere il suo cenno.
<<Sì, sono io>> si annunciò Leo a voce alta. E quando giunse alle sue spalle, sporse la testa per osservare meglio il quadro. Il ragazzo sgranò gli occhi mentre stupefatto si soffermava sui dettagli. Il dipinto presentava la scena di un picnic. C’era una bambina che frugava curiosa dentro un cestino portando un toast alla bocca, mentre una coppia di adulti era beatamente seduta accanto a un cane munito di collarino, lo stesso di Bimba, e godeva del paesaggio all’ombra del grande abete. La veduta era mozzafiato, forse ancora più bella della realtà. Minuscole stradine s’inerpicavano lungo il pendio, sormontando le colline e circondando i magnifici vigneti della zona. E in effetti, assaporata con gli occhi la bellezza del quadro, Leo poté respirarne perfino i sapori. Erano lì, tutt’attorno a lui. L’agrodolce della vendemmia, la corteccia legnosa, l’aria frizzante portata dal tramonto e non ultimo, il muschio bianco del dopobarba del pittore accompagnato dal respiro pesante del cane.
Il pittore silenzioso, occhio e croce sessantenne, non badò all’intrusione del ragazzo e proseguì nella rifinizione dell’opera. Intinse i polpastrelli nel colore e con tocchi decisi ne marcò i giochi di ombre e di luce. A dire il vero, Leo ebbe la sensazione che Kadinski stesso fosse finito dentro quel quadro e stesse godendo di quell’intima scena familiare.
<<Si sta facendo buio. Posso accompagnarla?>> lo disturbò Leo. Abitavano a due passi l’uno dall’altro per questo aveva pensato di fare strada insieme e chiacchierare un po’.
Orlando Kadinski arricciò il naso.
<<Ehi ragazzo, so bene come si arriva a casa mia>> gli rimbrottò contro. <<Vuoi farmi credere che ti importa di me. Di un vecchio cieco. Tornatene a casa Leonardo. Dai!>>
Il ragazzo non se la prese. Sapeva, quanto fosse suscettibile il suo vicino. E comunque, Bimba lo marcava stretto senza perderlo di vista un istante. Dunque Leo li salutò entrambi, e prima di andare via, fece una pausa ai piedi dell’abete. Ne accarezzò un ramoscello bisbigliando qualcosa poi si affrettò a rincasare.
Ridisceso il pendio, pur se ancora distante da casa, Leo riconobbe la sagoma pacioccona della badante. Lo aspettava all’ingresso mentre impagliava dei fiaschi. I lampioni illuminavano a giorno l’intero caseggiato mettendo in risalto i colori sgargianti della veste della donna. Aveva un turbante verde in testa e indossava delle stole gialle, verdi e arancioni sovrapposte, lunghe fino ai piedi.
< <Eccomi. Ci sono riuscito Maddy>> le disse varcata la soglia di casa.
<<Lo sapevo>> fu la risposta compiaciuta della badante. Adorava quel ragazzino. Lo aveva cresciuto fin dalle fasce donandogli un po’ di sano temperamento marocchino. <<Corri a chiamare i tuoi>>.
Leo non se lo fece ripetere due volte. Sollevò la cornetta del telefono e prese un blocnotes su cui erano appuntate una sfilza di date relative alla tournèe dei suoi genitori: erano entrambi musicisti.
<<Oggi è il 12 ottobre, dunque l’orchestra si esibisce a New York>> e fece scivolare il dito sulla riga accanto alla data. Ci trovò il numero della stanza di hotel in cui Anna e Carlo Mancini soggiornavano. Lo compose. Era elettrizzato al pensiero di informarli della grande notizia. Chissà quanto sarebbero stati orgogliosi del loro unico figlio. Al quarto squillo ancora nessuna risposta.
Maddy gli diede una pacca premurosa. Leo sorrise. Li avrebbe richiamati più tardi. Carlo e Anna suonavano rispettivamente la tromba e il pianoforte nella famosa Orchestra Sinfonica Galaxy. Facevano tappa in tutti i maggiori teatri del mondo lavorando 300 giorni su 360. Tornavano nella loro casa a Settignano in Toscana poco prima del Natale, e nel periodo estivo, tra giugno e luglio. Erano due persone straordinarie perciò Leo li amava esattamente com’erano. E sebbene ne avvertisse la mancanza, il ragazzo li sentiva molto vicini. Anche perché Anna e Carlo gli telefonavano quotidianamente e pretendevano di sapere ogni cosa, sia bella che brutta lo riguardasse. Inoltre, poteva contare sul loro appoggio e sostegno in qualsiasi circostanza. La decisione di accettare una lunga tournèe in giro per il mondo, lavorando tanto distante dal figlio, per diversi mesi all’anno, non era stata delle più facili. Ma lasciandolo con Maddy gli davano l’opportunità di avere una vita più stabile. Tra l’altro, Maddy, la donna marocchina che se ne occupava, lo trattava con amore come fosse figlio suo.
<<Sei andato a salutare il Principe?>> interruppe il filo dei suoi pensieri la donna portando a tavola la cena etnica. Utilizzava questo nomignolo come gli altri abitanti del paese, per riferirsi all’abete alto pressappoco cinquanta metri.
<<C’era pure Kadinski>> le rispose Leo.
<<Ah, pover’uomo! Sono anni che non si fa vedere giù in paese>> mormorò Maddy e di proposito lasciò cadere la conversazione. Non le andava di rattristare Leo, felice com’era.
Quella sera Leo riprovò a chiamare la sua famiglia ma senza successo. Il concerto immaginò si fosse protratto più a lungo nell’ovazione del pubblico ai musicisti. Sorrise all’idea e si ripromise di telefonare l’indomani dopo la scuola. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ai suoi genitori. Ma il ragazzo non poteva di certo prevedere cosa stava per succedere. Quella telefonata non ci sarebbe mai stata e forse il suo sogno, infranto per sempre.
Il mattino seguente Leo di buon umore si recò a scuola. Le lezioni si susseguirono piacevoli. Nessuna interrogazione a sorpresa. E agli allenamenti superò se stesso, riuscì a bruciare un altro secondo durante il giro in pista. Era al settimo cielo.
Con lo zaino in spalla, traboccante di gioia si accinse ad attraversare la strada e imboccare il sentiero. Voleva andare all’abete, per ringraziare il suo angelo custode e rendere partecipe pure Kadinski, che in fondo, pur cercando di mostrarsi indifferente, pareva gradire molto la sua compagnia e lo ascoltava a cuore aperto, e Leo aveva proprio voglia di parlare all’infinito.
Il ragazzo ancora sul ciglio della strada alzò gli occhi al cielo. Coltri di nuvole lo oscurarono. Un acquazzone era in arrivo. In lontananza udì un clacson strombazzare. Si voltò a sinistra e vide un furgone azzurro lanciato a gran velocità. Sbandava e frenava a più riprese invadendo anche la corsia opposta. Poi parve riprendere il controllo. D’un tratto però puntò dritto verso Leo. I suoi muscoli si paralizzarono. Uno stridio di pneumatici e nel giro di pochi secondi quel furgone gli piombò contro. Il ragazzo emise un urlo e poi nulla. Come coriandoli sparsi per terra, i sogni di Leo gli piovvero addosso allagando di tristezza la sua vita. Nel frattempo la pioggia scrosciante né colpì il corpo svenuto a causa del violento impatto.
Subito accorse gente da ogni dove e immediati arrivarono i soccorsi.
In seguito Leo ebbe difficoltà a ricordare l’incidente ma da subito si rese conto che il dolore lancinante alle sue gambe lo avvertiva di un danno assai serio.
Furono i suoi genitori a raccontargli l’accaduto. Appresa la notizia avevano preso il primo volo per la Toscana. Da loro seppe che quel giorno un uomo di mezza età si era addormentato alla guida del suo furgone. Non sapeva dire per quanto tempo, forse pochi attimi, ma appena riaperti gli occhi se l’era ritrovato davanti. L’uomo era stato dimesso pochi giorni dopo l’incidente con delle contusioni al viso e al braccio. Leo invece, e di questo era esausto, aveva passato due mesi in un letto d’ospedale. Dopodiché, dimesso su una sedia a rotelle.
Adesso se ne stava per conto suo nella casa di Settignano ed evitava di parlare della sua carriera e della competizione di giugno. Si sentiva deluso come se lo spirito dell’abete che lo aveva protetto fino ad allora, d’un tratto si fosse accanito contro di lui affinché non realizzasse i suoi sogni.
<<Ci sono visite Leo>> lo chiamò la madre. Anna e Carlo erano costretti a ripartire tra meno di una settimana. La tournée era stata sospesa in quei mesi. E sebbene non volessero distaccarsi da lui, il medico li aveva rincuorati che Leo avrebbe ripreso l’uso delle gambe. La colonna vertebrale non aveva riportato danni. L’immobilità di Leo era dunque temporanea, causata dal contraccolpo subito nell’urto. Forse uno spirito invisibile lo aveva protetto. La questione era quella di credere di nuovo in se stesso.
Leo spalancò gli occhi alla vista di Orlando Kadinski preceduta da un tuffo d’angelo da parte di Bimba. Era bello rivederli.
<<Ehi campione>> Era la prima volta che il pittore lo chiamava così. Aveva una voce gentile, di cui, Leo si sentì scocciato. Non voleva essere compatito. Ora che il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi Giovanili era andato in fumo. Poi colto dalla rabbia si rese conto di come lui e il suo vicino di casa non fossero invece, più simili di quanto pensasse. Ricordò la reazione di Kadinski quando, l’ultima volta in cui si erano visti, lui si era offerto di accompagnarlo. Si era sentito compatito perché cieco? E ora chi è che si sentiva compatito, lui?
<<Quanto tempo!>> fece a tempo a dire Leo mentre rotolava abbracciato a Bimba sul pavimento.
Anna preoccupata si precipitò pronta a tirarlo su, ma Leo stava ridendo, finalmente. E Bimba abbaiava divertita.
Da quel giorno e nella settimana che precedette la partenza dei suoi genitori, Leo e Kadinski passarono parecchio tempo insieme diventando praticamente inseparabili. Pian piano tra loro si delineò un rapporto di fiducia e di amicizia, e le parole che scambiavano aumentarono di numero. Leo oramai manovrava la carrozzina come un pilota di formula uno, e pareva non volesse più distaccarsene. Perciò Kadinski che lo guardava con gli occhi dell’anima, quando giunse la partenza di Anna e Carlo, approfittò per ricondurlo all’abete. Li avrebbe ritrovato la forza di credere in se stesso.
Pur se in carrozzina Leo s’inoltrò per il sentiero. Il signor Kadinski lo aspettava con Bimba sotto l’abete. L’automobile dei genitori percorse un tratto di strada e due mani si protesero dal finestrino. Leo era in cima alla collina e si sbracciò per salutarli come faceva prima dell’incidente.
<<Riuscirai a perdonarli?>> gli chiese il pittore e gli poggiò una mano sulla spalla.
<<Non sono arrabbiato>> rispose Leo colto alla sprovvista da quella domanda. Continuò ad agitare le braccia per essere sicuro che Anna e Carlo potessero vederlo.
<<Sono partiti e tu sei su una sedia a rotelle>> proseguì duro il pittore . <<La cosa non ti irrita?>> Kadinski stava cercando di smuoverlo. Di farlo riflettere, di fargli capire che ognuno di noi è responsabile della propria vita. Ma non poteva prevedere che a riflettere sarebbe stato pure lui.
<<No. I miei genitori mi amano e sono tornati al lavoro proprio perché credono in me. Credono che io possa guarire>>.
Orlando, come se il ragazzino in qualche modo avesse riaperto una ferita troppo profonda, stupito e allo stesso tempo commosso dall’incapacità di quel tredicenne di provare una qualsiasi forma di collera nei confronti dei genitori, si lasciò andare al fluire dei ricordi. Abbattendo un muro di silenzi innalzato da dieci lunghissimi anni.
<<Sono cieco dalla nascita, ma non ho mai sofferto per questo. Del resto, non occorrono occhi per vedere…>>
Pur se non comprendeva le sue parole, Leo lo ascoltò senza fiatare. Temeva di interrompere la complicità di cui il pittore lo stava rendendo partecipe.
<<Ero felice e sposato. Non sono sempre stato un vecchio solo e bisbetico>> gli disse con un sorriso e accarezzò il muso di Bimba.
<<Non l’ho mai pensato signor Kadinski>> rispose piano e fece una pausa per farlo continuare. Era bello ascoltarlo.
<<Adoravo Jacqueline, mia moglie e nostra figlia, la piccola Lorin. Aveva pressappoco la tua età quando sua madre morì. Ma Lorin ha scelto di andare a vivere con la nonna invece di restare con me, con suo padre. Sono dieci anni che non la sento. Come ha potuto?>> Il signor Kadinski tremava e per evitare che Leo se ne accorgesse riprese la tavolozza dei colori. Questa volta la tela posta sul cavalletto raffigurava il Principe.
<<Sono certo che anche Lorin sarà triste e vuole rivederla signor Kadinski>> si premurò di ricordargli Leo.
<<Nient’affatto. La verità è che mi odia>> Il pittore pronunciò secche queste ultime parole lasciando cadere il discorso.
Soltanto ora Leo capiva quell’uomo tanto solo, il perché non si fidasse di nessuno. Stava male per la figlia. Non le perdonava quel colpo basso. Intanto immerso nelle sue riflessioni il ragazzo si rese conto che sulla tela del pittore c’era, identico all’originale, l’abete. In tutta la sua maestosità.
<<Non capisco come ci riesci se…>> cercò di spiegarsi Leo.
<<Cosa?>> domandò Orlando. <<Se non ci vedo? E questo che vuoi dire? Te l’ho detto, con gli occhi della mente. È la forza dell’immaginazione Leo. È lei che mi da gli occhi per vedere e a te darà le gambe per camminare, e la gioia di sognare ancora>>.
In quel preciso istante Leo si abbrancò a Kadinski.
<<Lo voglio Kadinski! Lo voglio!>> urlò con quanto fiato in gola. E piangendo tentò di sollevarsi. Ma le sue gambe si rifiutavano di reggerlo. Erano pesanti. Ebbe la sensazione di sprofondare. La testa girava.
Il pittore lo incitava a non mollare. <<Forza Leo! Sei un vero campione!>>
Le palpitazioni accelerarono e Leo barcollante si aggrappò alla camicia di Kadinski, tenne duro.
Voleva camminare. Voleva correre. Voleva vivere. Voleva sognare.
Quella fu la prima volta che Leo riuscì a mettersi in piedi. Le lacrime rigarono anche il viso del pittore che lo tenne a lungo stretto in un abbraccio paterno. Leo provò una gioia indescrivibile. Comprese finalmente cos’era la forza che emanavano i quadri di Kadinski, lui viveva dentro quei sogni. Ed era arrivato il momento di farli diventare realtà.
A casa, Leo raccontò a Maddy, e ai suoi genitori per telefono, degli insegnamenti di Kadinski, il suo continuo incoraggiamento e soprattutto dei progressi della giornata. Seppe in cuor suo, che presto avrebbe camminato e perché no, sarebbe tornato in pista tra i favoriti. Quella pista dove un tempo si allenava per partecipare alle Olimpiadi. Poteva farcela.

La primavera a Settignano sbocciò in un’esplosione di fiori, piante e colori. Grazie all’aiuto del vicino, Leo non si era arreso. Aveva creato per se il futuro più bello che un ragazzo potesse desiderare. L’immaginazione trasformava la realtà e lui ora lo sapeva. Ora che faceva lunghe passeggiate in compagnia di Kadinski e corse furibonde con Bimba. Aveva ripreso gli allenamenti e presto sarebbe tornato in forma e forse, ancora più veloce di prima. La carrozzina era solo un ricordo.
In giugno a Roma si tennero le Olimpiadi. Leo pur partecipando non vinse ma era felice uguale. Lui era un’atleta. E dopo tutto quello che aveva passato, ora ci credeva davvero. D’altro canto, i suoi tredici anni gli permettevano di riprovarci l’anno successivo.
Di ritorno a Settignano, in una splendida mattina soleggiata, il paese organizzò una festa in suo onore. Tutti volevano festeggiarlo. Parteciparono anche Anna e Carlo Mancini tornati dalla tournèe; Maddy che preparò dei gustosissimi dolci a base di riso e cannella; i compagni di scuola, gli insegnanti, l’allenatore di atletica e pure Kadinski e Bimba, nemmeno loro vollero perdersi la festa.
E Leo, era molto riconoscente a Orlando Kadinski, perciò aveva in serbo qualcosa di molto speciale per lui. Qualcosa che doveva ancora diventare realtà.
D’improvviso Bimba sparì tra la folla. Il pittore la chiamò senza ricevere in cambio nessuna risposta.
<<È andata per di là>> fece Leo. <<Andiamo a riprenderla!>> Poi lo prese sottobraccio e insieme imboccarono il sentiero che portava alla collina.
Il corteo li seguì. Con in coda la banda musicale al completo risalirono l’altura fino all’abete. In pochi minuti un serpente di gente festante approdò sulla collina del Principe.
Di colpo quel nugolo di persone si zittì. Davanti ai loro occhi si presentarono, disposti gli uni vicini agli altri, una varietà di teli multicolore. Tavoli imbanditi di cibo, toast ripieni e caraffe piene fino all’orlo di succo d’uva e di mela. E sull’abete, i compaesani del pittore, vi appesero dei fogli dentro cui ognuno aveva scritto il proprio sogno.
Quello sarebbe stato un picnic davvero speciale per Kadinski e un giorno memorabile per l’intero paese.
D’improvviso un cane abbaiò. Una, due, tre volte. Kadinski lo riconobbe, era Bimba. La teneva al guinzaglio una donna bionda sulla ventina.
<<Papà!>> lo chiamò, baciandolo sulla guancia. <<Ho avuto paura. Non volevo abbandonarti>>.
Orlando Kadinski era commosso. Le sue labbra tremolavano.
<<Mi sono trasferita dalla nonna perché mi ricordava tanto la mamma. Ero solo una bambina… Lo sai che non sono brava con le parole!>>
<<Tu no, ma lui sì!>> fece il pittore e puntò l’indice verso Leo come se potesse vederlo. Dopo dieci interminabili anni Kadinski riabbracciò la figlia. Quel tredicenne lo aveva aiutato a realizzare il suo sogno.
Poi il pittore addentò un toast, e col cuore pieno di felicità ammise a se stesso che quello era il sogno più bello che avesse mai fatto. Era la realtà.

IO SONO IMMORTALE di Alessio Scalia. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

IO SONO IMMORTALE
di Alessio Scalia
Primo Livello – Corso Adulti

Accarezzai i capelli lisci e biondi di Gabriel mentre sorrideva estasiato. A cinque anni è più che normale esplodere di gioia anche per una piccola escursione nel bosco. Eppure, ogni volta, quella sua reazione spontanea mi provocava sentimenti dolci e conditi di vero amore.
“Tornate presto!” disse Sasmira, dando un bacio a lui e uno a me. Era una Venere con capelli lisci neri, un fisico sottile e il nasino all’insù. Le dicevo spesso che assomigliava ad una fata, e lei ogni volta reagiva sollevando gli angoli della bocca, compiaciuta. Dopo essere stata afflitta da una lunga malattia nella zona del basso ventre, Sasmira aveva creduto di non poter avere figli, perciò ne aveva desiderato uno con tutto il cuore. Quel bambino, nato come per magia, l’aveva resa mamma e adesso eravamo la famiglia più felice del nostro villaggio.
Come quasi tutte le mattine io e Gabriel ci recavamo nel bosco. Il piccolo adorava raccogliere viole profumate per poi regalarle alla sua adorata mamma. Gli piaceva posarle delicatamente tra la sua chioma scura e osservarla incantato. A dire il vero anch’io la preferivo con un fiore fresco in testa. Gli donava davvero.
Presi in braccio Gabriel e lo portai a cavalcioni sulle mie spalle possenti per farlo sentire un vero gigante.
“Corri papà” urlò divertito.
Da grande voleva diventare un guerriero di un metro e novanta tutto muscoli come me, suo padre. Il mio viso, così come il corpo, mostrava i segni delle dure battaglie che avevo combattuto. Ma dopo la nascita di quell’angioletto avevo detto basta. Non potevo più rischiare di perdere la vita e lasciare soli moglie e figlio. Già da tre anni mantenevo fede alla mia promessa.
Intanto, alzai gli occhi e notai che il cielo era sereno e una leggera brezza smuoveva le foglie degli alberi. Il sole, ancora debole, batteva sulla pelle in modo piacevole e confortante.
L’incontro inaspettato con uno scoiattolo impressionò piacevolmente Gabriel.
“Che bello, guarda!” gongolò stupefatto, indicando il roditore che sgattaiolava.
Dopo cinque minuti di marcia in allegria e spensieratezza, mi decisi a mettere giù il piccolo e subito cominciò a scalpitare tra l’erba. Un tappeto di viole si presentò davanti ai nostri occhi. Gabriel spalancò la bocca in un sorriso puro e si chinò a raccoglierne qualcuna, ma all’improvviso lo vidi flettere le gambe e crollare a terra sovrastato dall’erba alta. Non si rialzò più.
“Gabriel!” urlai precipitandomi a raccoglierlo. Lo presi tra le braccia. Era privo di conoscenza, gli occhi serrati. Vederlo conciato a quel modo orribile mi terrorizzò a morte e pensando subito al peggio portai l’orecchio al suo torace. Il cuore batteva ancora, grazie al cielo.
Tornai di corsa al villaggio con Gabriel tra le mani e mi diressi in casa di Igan, lo stregone. Era l’unico che conosceva i segreti della guarigione e l’unico che poteva aiutarmi.
Intanto Gabriel in preda agli spasmi sudava freddo, il viso violaceo, le labbra pallide.
“Cos’è successo?” chiese lo stregone, lasciandomi entrare.
“Non lo so! È piombato al suolo di soppiatto e non si è più rialzato!” spiegai con la voce incrinata. Adagiai quel piccolo corpicino privo di energia su un letto.
Dopo una lunga visita e vari controlli Igan, si accarezzò la barba bianca chiaramente preoccupato.
“Ha pochissime speranze di sopravvivere!” disse cupo.
In quel momento era come se il mondo mi fosse crollato addosso. Non potevo accettare un verdetto del genere, mai!
Mio figlio Gabriel aveva contratto un virus sconosciuto. Per Dio, morire a cinque anni!
“Dobbiamo salvarlo!” esclamai determinato. Gabriel era ciò che di più caro avevo al mondo, non potevo perderlo.
Igan inumidì una panno nell’acqua tiepida e glielo poggiò sulla fronte, poi si voltò verso di me con lentezza.
“C’è solo un modo, Tancan” mi rivelò in tono spento. “Devi portarmi la pianta notturna!”
Quella pianta magica era in grado di guarire un umano da qualsiasi malattia. Lo sapevano tutti. Era l’unica via di salvezza per la creatura innocente.
“Dove posso trovarla?” chiesi, pronto a tutto pur di restituirgli la possibilità di vivere.
“L’unico posto dove cresce… è la caverna di Sibila: la Donnaragno!” rispose con un fil di voce.
Deglutii sconvolto.
“Maledizione!” borbottai tra i denti. Strinsi i pugni con forza fino a farli tremare.
Si diceva che quel mostro spietato, uccidesse chiunque tentasse di estirpare la pianta notturna dalla sua tana, anche i guerrieri più valorosi. Nessuno era riuscito a sopravvivere contro quella belva sanguinaria, proprio nessuno, e adesso toccava a me…
Sì, ero abile con la spada, ma non credo sarebbe bastato a darmi la vittoria, avevo bisogno di qualcos’altro, ma cosa?
Sasmira, intanto, informata da qualcuno, con il volto in lacrime e pallido, piombò in casa dello stregone. Aveva il fiatone ed era visibilmente scombussolata.
“Gabriel! Piccolo mio!” farfugliava. Le accarezzò il viso in preda alla disperazione più totale. Lui, sdraiato sul lettino, con il corpo inerme non rispondeva e respirava malamente.
Io sono il padre, ed è mio dovere tentare il tutto per tutto, pensai. Gli restavano solo due miseri giorni di vita.
Prima di lanciarmi in quella missione suicida, decisi ancora una volta di chiedere aiuto al saggio stregone.
“Igan ti prego” implorai. “Donami un grande potere. Devo sconfiggere Sibila. Farò tutto ciò che vuoi”.
Lo stregone mi fissò con i suoi occhi neri e penetranti, poi, con tutta calma bevve un sorso di tisana bollente da una tazza di porcellana bianca. Infine propose: “Ti offro l’immortalità. Ma… voglio in cambio le tue ricchezze. È un rito troppo pericoloso quello che dovrò fare per aiutarti e potrei anche morire”.
“Non puoi concederla a mio figlio, l’immortalità?”
Igan scosse la testa.“No! Questo tipo di magia è troppo potente. Lo ucciderebbe all’istante!”
Non avevo scelta. “Accetto!” dissi.
Monete e averi in confronto alla vita del mio bambino non valevano un bel nulla.
Lo stregone si spostò rapidamente in una stanza dove c’erano una miriade di vasi e alcune sedie in legno massiccio. Io ovviamente lo seguii.
“Siediti Tancan!” ordinò con voce pacata. “Rilassati e respira profondamente”.
Mi lasciai cadere su una di quelle sedie dure e scomode.
Igan scelse accuratamente un vaso in ceramica decorato e, dopo aver recitato una breve preghiera, vi immerse una mano.
“Questa è una polvere magica, è il corpo di tre guerrieri invincibili: Iderc, Etni, Ossets” dichiarò. Poi estrasse le dita impregnate di grigio e le strofinò sulla mia fronte, invocando più volte: “Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora! Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora!” E ogni volta alzava il volume della voce fino a urlare a squarciagola. Gli tremavano le mani, il viso diventò rosso porpora, sembrava fare uno sforzo immane.
A un tratto sentii un brivido freddo scorrermi lungo la spina dorsale e una potente energia vibrare nel mio corpo. Ero diventato immortale!
Igan tirò un sospiro di sollievo. “Bene!” sussurrò chinando il capo. Con la manica della tunica si asciugò la fronte imperlata di sudore.
Potevo partire per la missione.
Tornai da Sasmira per avvisarla del viaggio che avrei dovuto intraprendere. Era ancora china sul letto a cullare il suo bambino malato.
“Ti prego!” supplicò mia moglie speranzosa. “Torna vivo e portaci la pianta notturna!”
“Sta tranquilla” risposi stringendola a me. “Sono immortale adesso!”
Sasmira mi lanciò un’occhiata perplessa, però non disse nulla. Era troppo sconvolta e stremata per fare domande. E comunque lei non era al corrente del patto che avevo fatto con lo stregone.
Uscii da quella casa armato fino ai denti e a passo deciso mi incamminai verso il bosco, quando la sera calò all’improvviso.
Il cielo era una distesa oscura priva di stelle. L’aria gelida mi penetrava le ossa e il vento ululava. Dopo aver marciato per un’ora e superato un labirinto di alberi e fitti cespugli, finalmente giunsi alla caverna di Sibila.
L’ingresso era un enorme fenditura a forma di piramide.
Entrai senza esitare.
All’interno regnava l’oscurità, quindi accesi la torcia e aguzzai la vista. Determinato, avanzai lungo quel varco roccioso e mi ritrovai a calpestare un tappeto di ciottoli bianchi. Le pareti invece, erano umide, spigolose e rivestite da una sostanza biancastra appiccicaticcia.
La mente si affollò di pensieri angoscianti che mi facevano scoppiare le tempie. Non potevo essere sconfitto. Non potevo morire. Gabriel aveva bisogno di me e soprattutto della pianta notturna.
Sono immortale e invincibile, mi dissi, traboccante di coraggio.
C’era silenzio, un silenzio inquietante. L’aria puzzava di marcio e corpi in decomposizione. Infatti, sparsi per terra in un ammasso nauseabondo, scorsi scheletri umani, teste mozzate, corpi sbrindellati e fiumi di sangue. Soffocai un conato di vomito.
Sperai di trovare subito quello che cercavo e andarmene prima che la bestia mi vedesse.
Udii un rumore sinistro provenire dal profondo della grotta. Il cuore prese a martellarmi sul petto.
Poi, un sibilo terrificante echeggiò nelle pareti rocciose e il rumore di passi strascicati mi fece rabbrividire.
Un ombra sovrumana si stava avvicinando minacciosa.
Era Sibila. Aveva otto zampe piene di peli acuminati, e il volto… il volto era quello di una donna rugosa con capelli bianchi simili a ragnatele. Una fila di denti aguzzi e sporchi fuoriusciva dalle sue fauci gocciolanti di bava biancastra. Dagli occhi rosso sangue saettavano lampi maligni.
Era orrenda! Un mostro!
In quell’attimo sentii emergere dentro di me una forza immensa. Impugnai l’elsa della spada e feci vorticare la lama in avanti in segno di avvertimento.
“Come osi disturbare la mia quiete?” sibilò la bestia ibrida, sferrando il primo micidiale attacco. Si muoveva più veloce di quanto immaginassi.
Rapido mi spostai a sinistra schivandola, feci mulinare la spada in una rotazione da manuale e con un colpo perfetto gli mozzai una zampa. Rivoli di sangue e gemiti acuti.
“Sono immortale!” dichiarai in tono solenne “Stammi lontano o morirai! Mi serve solo la pianta per mio figlio!”
Ostinata, Sibila spalancò le fauci e spruzzò fili di fitta ragnatela collosa che si attorcigliarono al mio corpo, braccandomi. Tentai disperatamente di liberare un braccio, ma niente. Gemevo. Ero in trappola.
Sibila zampettava lentamente verso di me con espressione trionfante, pronta a sferrare l’attacco mortale.
Dimenandomi come un forsennato riuscii miracolosamente a sbloccare il braccio destro, sollevai la spada e trafissi quel volto terrificante. Dopo un urlo lancinante, il corpo orripilante crollò a terra, privo di vita.
“C’è l’ho fatta” esultai dentro di me.
Raccolsi la pianta notturna e cominciai a correre più forte che potevo verso la via del ritorno.
Giunsi al villaggio vittorioso.
Lo stregone selezionò accuratamente le foglie dell’arbusto magico e creò un intruglio verdastro. Lo spalmò sul torace nudo di Gabriel che, dopo un’ora finalmente riaprì gli occhi. Il colore della sua pelle tornò roseo e il respiro regolare. Sasmira e io scoppiammo a piangere. Abbracciammo il bambino come se fosse rinato. Fu una gioia immensa rivederlo sorridere e parlare.
“Mio figlio è salvo!” dissi allo stregone. “Sono immortale! Prendi pure le mie ricchezze”.
Lo stregone rise. “Tancan non sei immortale!” rispose. “Ma avevi bisogno che lo credessi”.
Rimasi allibito da ciò che udirono le mie orecchie.
“ Cos’era allora quella polvere grigia?” chiesi.
Lui si accarezzò la barba con aria di mistero. “ Come ti ho già detto era la polvere magica dei tre guerrieri invincibili, Iderc, Etni, Ossets. E se pronunci questi nomi al contrario diventano una frase: Credi In te Stesso!”
“Papà domani andiamo nel bosco a raccogliere viole e vedere scoiattoli?” ci interruppe Gabriel già in forze.
Mia moglie fece un sorriso gioioso e gli strinse le manine.
“Certo”risposi io accarezzando la fronte al mio angioletto. “E passeremo anche a salutare lo stregone Igan. Sai, grazie alla sua saggezza siamo di nuovo una famiglia felice”.

LA BELLEZZA di Paola Mutti. Secondo Livello Ragazzi. Corso di scrittura online

La Bellezza di Paola Mutti
Secondo Livello – Corso Ragazzi

La Bellezza danza leggiadramente intorno a noi, come un timido cigno bianco intimorito dal proprio aspetto.
Fa parte della nostra vita e ci regala emozioni indimenticabili.
Consciamente o inconsciamente, confrontiamo tutto ciò che ci circonda con modelli di riferimento, che possono essere personali e spontanei o appresi attraverso un’istruzione. Così nascono due tipi di bellezza: quella oggettiva, trasmessa da stereotipi, e quella soggettiva, propria della persona.
Quando parlo con gli amici mi accorgo che spesso la bellezza oggettiva-esteriore-è presa molto più in considerazione di quella interiore. Tutti vorrebbero assomigliare ai modelli delle pubblicità o agli attori dei telefilm. Questo è una delle maggiori cause di frustrazione per la maggior parte delle persone, e anche una caratteristica della nostra epoca: un ossessivo e assurdo eccesso di attenzioni all’aspetto esterno delle cose, all’apparenza, al come dovremmo apparire per poter essere… A quanto ci dicono i media, dovremmo essere più belli, più perfetti per essere normali. Ci vorrebbero tutti uomini di successo e donne bellissime, bimbi perfetti, nonni atletici e tutti rigorosamente eleganti.
Questo si tramuta ovviamente in un’affannosa ricerca per diventare come i modelli proposti, spostando la nostra attenzione alla superficialità e alla falsità. Spesso qualcuno arriva al punto di farne un’ossessione, da cui è difficile tornare indietro.
Ma per fortuna ci sono anche persone che, stanche di tutte queste inutili attenzioni, hanno deciso di pensare, di riflettere e di guardare il mondo attraverso una prospettiva più profonda… Una prospettiva che parte dalla Bellezza interiore.
Che cos’è la bellezza interiore? Si tratta di una qualità molto particolare, una caratteristica unicamente umana. È importante riuscire a comprendere la bellezza interiore di una persona, perché solo dopo esserci riusciti si può dire di conoscerla veramente. L’interiorità richiama un senso di profondità, un qualcosa di percepibile ma di misterioso. È qualcosa che comprende, ma va anche oltre, il carattere delle persone e i sentimenti espressi. Per esempio, un amico può manifestare buoni sentimenti, come amicizia, comprensione, amore, ma avere un carattere detestabile e scontroso. Scovare e interpretare la bellezza interiore è uno dei lavori degli artisti: dei pittori, dei poeti, degli scrittori, degli scultori. Attraverso una poesia, o un buon romanzo, per esempio, si possono trasmettere momenti di vita vissuti, sensazioni provate, che esprimono la bellezza interiore delle persone.
Non saprei dare una vera e propria definizione di bellezza.
È qualcosa che cambia continuamente e che non cambia mai.
La troviamo in posti completamente diversi l’uno dall’altro, però ci fa sentire sempre bene. Ci fa provare emozioni che ci sembrano sempre nuove e migliori delle precedenti.
La Bellezza interiore è come il bagliore di un riflesso, come se in ogni essere umano ci fosse uno specchio che, se girato verso il sole, ne riflette tutto il suo splendore.
In conclusione, la Bellezza esteriore ci colpisce, ma spesso viene sopravvalutata. Per esempio, la bellezza di una persona molto attraente ci colpisce, ma viene spesso ridimensionata quando quella stessa persona apre la bocca senza collegare il cervello.
Al contrario degli uomini, la natura, con la sua grande bellezza esteriore, non finisce mai di donarci grandi emozioni. Anche se è solo una bellezza esteriore, è tanto grande che ci fa provare dei sentimenti profondi.  Per questo, quando vedo un pesco in fiore, mi fermo e resto a guardarlo. E  mi struggo, pensando che è lì solo per poco e io non posso tenerlo sempre con me; così come quando mi trovo davanti ad un quadro e quello che vi è raffigurato mi accende un’emozione, gioiosa o triste.
Così scopro che per me, la Bellezza è ciò che mi regala emozioni. E cerco di rallegrarmi di tutto ciò, in modo da possedere, almeno in parte, la bellezza che ho imparato a riconoscere nella mia vita.
La Bellezza è come un giardino a primavera, come una schiera di angeli in volo, una rosa rossa appena sbocciata. La Bellezza è felicità; è la neve che cade sugli alberi d’inverno; è la brezza che trasporta le foglie d’autunno; è il sole che risplende sull’acqua color cobalto in estate; una grotta piena di pietre sfavillanti.
La Bellezza è amore per tutte le cose che ti donano emozioni.

I COLORI DI UN PIANOFORTE di Barbara Mannucci. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

I COLORI DI UN PIANOFORTE
di Barbara Mannucci
Primo Livello- Corso Adulti

La porta si chiuse.
Aveva colto il movimento di una figura alta entrare, sedendosi sul divano, poi solo il ruotare della maniglia. Piegò il cappotto nella seduta accanto e distese i lembi della gonna. Un altro clic dietro di sé: la porta che dava sull’ingresso, accostata con garbo dalla anziana segretaria. Nella quiete temporanea che seguì la spugna in gola si ritirò. Come una minaccia scampata.
Si era manifestata così la prima volta, la minaccia. Una sostanza spugnosa aveva cominciato a gonfiarsi tra collo e gola , le era sembrato che il respiro si bloccasse. Avevano chiamato l’ambulanza, si pensava a un infarto. Non le sembrava possibile poter sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. Tutta quella gente china su di lei le chiudeva quel filo di ossigeno che ancora alimentava i suoi polmoni. Poi due medici si erano fatti largo e tutti erano usciti dalla stanza. In quel momento lo sterno rilassò la contrattura e l’aria riprese a circolare. L’avevano cosparsa di elettrodi per un elettrocardiogramma, avevano gonfiato il nastro attorno al braccio per misurare la pressione ma a parte una lieve alterazione del battito non avevano riscontrato niente. Attacco di panico. Non ci aveva creduto, erano due parole di moda tra le sue amiche, un vezzo, come la corsa nel parco di domenica mattina o l’ora dell’aperitivo dall’analista, non le appartenevano. Le sembrava una sentenza scontata. Erano seguiti vari esami che il medico di base le aveva prescritto con scetticismo sotto sua insistenza e scuotendo la testa di fronte agli esiti.
La spugna seguiva un moto ondoso, si gonfiava e si ritirava alternandosi. Altre volte come l’alta marea si gonfiava appena e restava così, sull’orlo della sofferenza. Era diventata una presenza ingombrante e capricciosa che l’aveva spinta come un relitto sul divano basso dove adesso affondava in una posizione eccessivamente reclinata. Tra poco la porta si sarebbe aperta e avrebbe dovuto affrontare l’ora di colloquio con (o contro) un viso nuovo, falsamente rassicurante di cui aveva sentito fin troppi aneddoti. Aveva la sensazione della spugna che si stesse gonfiando, ma era solo la sua ombra proiettata dalla paura. La stanza vuota, piantonata a destra dalla segretaria della reception e a sinistra da quella porta, che avrebbe potuto aprirsi da un momento all’altro, le si chiuse addosso come un lenzuolo sulla testa.
Nella parete di fronte era appesa una riproduzione, una dozzinale tela a olio spessa come una crosta: con colori forti e tratti maldestri erano raffigurate due donne in un campo di fiori, due cipressi ombreggiavano le loro figure, sullo sfondo solo profili di colline e diversi toni di verde. Poco più in alto sopra al quadro, all’angolo tra le due pareti, da un altoparlante per la filodiffusione uscirono due note di piano scandite, come se la seconda aspettasse educatamente che l’eco della prima si esaurisse. Le donne nel quadro si mossero impercettibilmente, le loro figure bianche sembravano nuvole in un cielo immobile. Dall’altoparlante seguirono altre tre note di piano, veloci e allegre tenendosi per mano; dal quadro qualche nuvola si mosse. Nella stanza immobile si sentì per un attimo solo il suo respiro affannarsi ma la spugna era silente. Poi la musica uscì lieve ed educata come una fila di bambini da dietro il sipario di una recita, danzarono nell’aria e il quadro invase lo spazio. I fiori sbocciavano e appassivano mossi dal vento, riccioli di nuvole avvolgevano il cielo e i cipressi dondolavano tra le note. Il quadro entrò nella stanza, e lei si trovò stesa sul prato, un cuscino di note ottundeva la sua paura. Si alzò e prese a camminare, le due donne la guardarono senza espressione, come se potessero vederle attraverso. Le sembrò di essere brezza che aleggiava sul prato, trasportata da una forza involontaria prese a correre attraverso le colline. Seguiva un sentiero ritorto, la scia di fumo di un camino, e attraverso quella arrivò ad una casa di pietra. I suoi mattoni erano tratteggiati da pennellate di arancione acquarello con contorni offuscati. Una melodia insistente la spinse dentro attraverso il fumo lieve del camino. Atterrò sulle braci spente e una nuvola di grigio per un attimo le offuscò la vista. Il colore si dissolse e lei vide sé stessa seduta al tavolo. Era una bambina assorta. Stava scrivendo una poesia su una rosa che le stava appassendo di fronte, intrappolata nell’acqua di un bicchiere. Era caduto un petalo e poco dopo una lacrima dalla sua guancia di bambina. La finestra si aprì sospinta da un alito lieve che fece cadere uno dopo l’altro i petali della rosa. Le lacrime della bambina formarono un ruscello gorgogliante che scese sul pavimento allargandosi come una macchia che arrivò a lambire le braci del camino fino ai suoi piedi e risalì sfidando la gravità. Si sentì avvolgere da un calore che scioglieva la neve. Altre lacrime cominciarono a sgorgare, stavolta dai suoi occhi e fluirono formando un solo fiume come liquido amniotico. Si sentì sollevare senza peso dalla corrente dell’acqua che la riportò su su fino al camino e ne uscì fluttuando in una traiettoria ritorta come sbuffo di fumo. Riprese a volteggiare sulle colline e in lontananza i cipressi danzanti ancora l’attendevano avvolti nella musica che sempre più lieve rallentava il suo andamento. Planò con la traiettoria di un aliante sul prato dov’era posata poco prima e la corrente si ritirò come risacca. Le donne erano ancora lì, lo stesso mazzolino in mano ora volteggiava appena nel vento, un tremolio lieve lo avvolgeva e mentre le note tornavano a distinguersi come grani di un rosario assunse una nuova fissità. I colori si fissarono e tornarono duri. L’erba si appiattì immobile e tornò crostosa come una tela dozzinale. La parete risucchiò tutto a sé lasciandola a contare le ultime note che educate si ritiravano nel sipario dell’altoparlante. Solo il fiume caldo delle sue lacrime ancora era lì, a rigare la camicetta e una macchia larga, a forma di spugna sporcava il bavero della giacca.
Una risata scavalcò la porta chiusa seguita dal clic della maniglia. Ne uscì un uomo a testa bassa, la alzò solo per un cenno breve, forse un saluto. Rientrò quasi subito seguito dai passi lenti della segretaria che accostò appena.
La porta verso l’ingresso era rimasta spalancata e il profumo fresco e pulito di una finestra aperta le accarezzò una guancia. Rimise il cappotto abbottonandolo fino al bavero e abbandonò lo studio.
Si avviò a piedi verso il parco. Aveva un’ora vuota davanti a sé. A labbra chiuse, dalla gola libera emise un suono rapido, armonioso, un motivetto sentito altrove. Una delicata melodia di pianoforte.

MAA LUONNON di Gaia Bigoni. Terzo Livello Bambini. Corso di scrittura online

MAA LUONNON
di Gaia Bigoni
Corso Bambini – Terzo Livello

“Sta per cominciare!”, esulta Serena, battendo le mani.
Lei e Kim sono sedute in prima fila, in teatro, per assistere allo spettacolo della presunta “strega” del Calice Rosso. Le tende rosso fuoco si scostano piano piano, rivelando una donna di mezza età, con un elegante abito blu notte e un paio di scarpe azzurre con tacchi di cinque centimetri. Cammina disinvolta come se su quel palco ci fosse nata, scruta gli spettatori uno ad uno coi profondi occhi verdi, che assomigliano molto a quelli di Serena, finché lo sguardo non si posa proprio sulle due ragazze.
Zelda fa un bel sorriso e, dopo un gesto fulmineo della mano destra, Kim e Serena si alzano di scatto e si dirigono verso il palcoscenico.
“Ma che stiamo facendo?”, sussurra Serena, con gli occhi sbarrati, mentre le gambe si muovono contro la sua volontà.
Kim si chiede lo stesso e in poco tempo si ritrovano accanto alla donna, che sorride maliziosamente.
“Bene bene.. allora, queste due belle ragazze mi faranno da assistenti!>”, decreta Zelda prendendo la mano alle due che, imbarazzate, se ne stanno lì in piedi ad attendere spiegazioni. Zelda scompare e riappare appena due secondi dopo, con in mano una fune marroncina. Serena fissa la scena, allibita, mentre la strega fa roteare la corda come se fosse rigida. Poi la passa a Kim, che la tiene con entrambe le mani. Zelda le dice di lanciarla in aria e lei esegue. Fra lo stupore degli ospiti e delle stesse aiutanti la corda si ferma a mezz’ aria, diritta come un palo. La strega, con un sorrisetto enigmatico stampato sul viso, ci si arrampica fino a raggiungerne la fine. A questo punto sussurra qualcosa di incomprensibile e la corda inizia a dimenarsi, mentre Zelda resta “in groppa” come fanno ai rodei. Dopo altri trucchi magici fantastici e sconvolgenti, la serata si conclude con gli applausi che durano ben dieci minuti filati. Le aiutanti fanno qualche inchino, poi abbandonano il palco accompagnate dalla “strega di teatro”.
Appena sono dietro le quinte, entrambe le ragazze non riescono a trattenere un sospiro di sollievo. Poi si rivolgono a Zelda: “Ma.. come hai fatto a far fluttuare la corda in quel modo? E poi.. quel gioco con gli specchi.. non avevo mai visto niente di simile!”, esclama Serena al culmine della curiosità. Zelda ridacchia sotto i baffi, ma poi torna subito seria. Non deve dimenticare il vero motivo per cui le ha invitate a teatro, che non era certo quello di farle diventare le sue assistenti magiche.
“Scusa, ma.. tu, con quel biglietto.. ti eri presentata come “strega”.. è una specie di.. nome d’arte?”, domanda Kim, che vorrebbe saperne di più su questa strana signora dal vestito luccicante. In fondo non la conoscono nemmeno, potrebbe anche essere pericolosa!
“No, piccola.. niente nomi d’arte! Sono davvero una strega, ma guardate come mi sono ridotta!”, esclama Zelda indicando il teatro oramai vuoto e le luci, in alto, ancora accese. Poi riprende il discorso, sotto lo sguardo sempre più allibito delle ragazze: “Dovete sapere che io vi avevo scelte da ormai molto tempo. Vi avevo osservate, anche se non ve ne siete mai accorte. Sapevo già che dovevate essere voi a riportarmi il mio caro Calice Rosso. Io non vengo dalla terra, ma da un luogo molto più misterioso, di cui nessun umano è a conoscenza. Non potranno mai scoprirlo, a meno che un essere di quel luogo non gliene parli.. e questo sarebbe proibito. Quindi potrete capire da sole che sto correndo un grave rischio, raccontandovi queste cose..” Zelda, adesso, sembra un fiume in piena. Non sta semplicemente raccontando, si sta sfogando. Deve togliersi un peso, un macigno che è molto più grande di lei e che la stava lentamente ma costantemente schiacciando. “Stop!”, la frena Kim, portando entrambe le mani davanti al viso. Ora è quasi convinta che quella che hanno davanti è una pazza. In fondo come biasimarla: non è facile digerire in un singolo minuto che una signora di mezza età è una strega che viene da un altro mondo.
“Dunque.. ricapitolando: affermi di avere davvero dei poteri fuori dal normale e che quelli che abbiamo visto sul palco non sono stati semplici trucchi? E poi.. che storia è quella del mondo che noi non dovremmo scoprire? Se fosse vero perché mai ce lo stai raccontando?”, una valanga di domande investe Zelda, come un fiume di acqua gelida in inverno. Serena blocca l’amica. E’ difficile credere a quello che aveva sentito anche per lei, ma in ogni caso aggredirla in quel modo non le sembra giusto, così le chiede di spiegare tutto dall’inizio, in modo da poter capire meglio la storia. 
”Certo, certo, avete ragione. Il fatto è che il mio mondo è in serio pericolo. Dovete sapere che molti anni orsono era una specie di enorme giardino fiorito. C’erano fiori, alberi, arbusti, erba e si viveva benissimo. Adesso, però.. un essere malvagio, di cui nessuno conosce il nome o il volto, si sta impossessando di tutti i Calici Rossi del nostro mondo, perché ha in mente di conquistarlo e assorbire tutta l’energia magica, in modo da diventare invincibile. Se questo dovesse accadere.. sarà la fine e non solo per il nostro mondo, anche per tutti gli altri. Compreso il vostro”, a sentire queste ultime parole le due ragazze rabbrividiscono.
“No, no, no.. aspetta un secondo! Io mi sono persa già dall’inizio! Ci sono altri Calici Rossi? E a che cosa servono esattamente? Nel biglietto sei stata piuttosto vaga.. e poi che significa che sarà la fine di tutti i mondi?”, questa volta neanche Serena riesce a trattenersi dal chiedere mille cose, tutte assieme. Zelda alza la mano destra e la ragazza si zittisce, senza bisogno di alcuna magia. La presunta strega si mette a sedere, con le gambe a penzoloni giù dal palco e invita le ragazze a fare lo stesso. Queste obbediscono, ma con un certo timore.
“Avete ragione a non fidarvi completamente di me. So che sono cose molto difficili da accettare e che tutto questo potrebbe assomigliare a una di quelle favole che leggevate da bambine. Ma dovete credermi: è la verità! Nei Calici Rossi c’è l’energia magica di ogni essere vivente del mio mondo, compresi i vegetali. Se il piano di quel mostro dovesse realizzarsi e se riuscisse davvero ad impossessarsi di tutti i Calici.. grazie al loro potere di apparizione e sparizione di certo farebbe volatilizzare nell’aria tutto ciò che di bello caratterizza il mio mondo. Su Maa Luonnon non ci sarebbe più nulla, diventerebbe un deserto di tristezza e odio. Il buio regnerebbe sovrano all’Infinito”, queste parole colpiscono le ragazze come frecce e in una sola lacrima Zelda racchiude tutta la sua frustrazione e il suo timore.
Serena ora sa che sta dicendo la verità.
“Ti credo. Però, per favore, spiegaci di più sul tuo mondo. Immagino che “Maa Luonnon” sia il suo nome.. Ti aiuteremo volentieri, vero?”, la ragazza cerca l’approvazione dell’amica.
“Certo, non possiamo permettere che tutto questo accada!”, le da manforte Kim, battagliera.
“Vi ringrazio molto per il vostro appoggio. Sì, Serena, Maa Luonnon significa “Terra della Natura” in finlandese. Sapete, potreste fare molto per me, ma non voglio farvi correre dei rischi inutili e non voglio nascondervi che sarà un viaggio rischioso”, le informa, facendo apparire dal nulla una carta geografica che rappresenta terre mai viste.
“Questa è Maa Luonnon?”, domanda affascinata Kim, sfiorando la cartina con l’indice della mano sinistra. Zelda fa cenno di sì col capo e un’espressione di nostalgia riempie i suoi già tristi occhi verdi, guardando con tenerezza ogni piccolo angolo della cartina, che conosceva minuziosamente. Luoghi di antica bellezza sconvolti da chissà quale essere mostruoso. Serena si accorge della totale assenza di Zelda, la quale si era persa nei ricordi, così le tocca leggermente la spalla con la mano un paio di volte, riportandola alla realtà.
“Scusate, ragazze, volevo farvi vedere alcuni luoghi, dovete tenerli bene in mente, mi raccomando”, così dicendo posa l’indice della mano destra in un punto che si alza come fosse in tridimensione, rivelandosi una parete rocciosa piuttosto alta . “Ecco, qui c’è il monte Kukka Maan, cioè “Fiore di Terra”. E’ ripidissimo, tanto che, come potete vedere, sembra proprio una parete. All’apice crescono i fiori di terra, e se vengono mangiati da persone senza magia, donano molti poteri. L’effetto dura 24 ore, al termine delle quali se si vuole prolungare l’effetto per altrettanto tempo, bisogna mangiarne altri”, Zelda continua a spiegare e passa la secondo luogo: “Questo posto si chiama, invece, Light Tulessa, ovvero “Brezza Infuocata”. Non è un nome a caso. Infatti quando tira vento forte, specialmente in questa stagione, ti puoi ustionare facilmente e anche molto gravemente. Sarebbe bene tenersene alla larga, durante il vostro soggiorno a Maa Luonnon. Infine questo luogo è il più importante di tutti. E’ il Triumph of Green, in italiano il “Trionfo del Verde”. Questa è la zona più bella di tutte, con le piante più rare e gli arbusti più profumati. E’ talmente carica di energia magica che basta sfiorarle per ricaricarsi completamente e guarire qualsiasi ferita. L’ Aurungonkukka on Kohtalon (Girasole del Destino) è il fiore più raro di tutti e può addirittura far rivivere delle persone morte. Ce ne sono pochissimi anche in quest’area, infatti vengono usati solo in casi di estrema urgenza. Tra l’altro è anche il posto in cui dimora il nostro re attuale, Henry Hurmus, una persona molto fedele e corretta, che però non riesce a reggere il confronto con quel mostro malvagio senza volto e senza nome. Ecco, questi sono i posti più importanti”, conclude Zelda, ripiegando la cartina e facendola scomparire nuovamente.
Le ragazze rimangono a bocca aperta.
“Ma se neanche il vostro re riesce a tener testa a quel mostro, come speri che potremo farlo noi? Siamo solo due ragazzine che, fino a pochi giorni fa, vivevano una vita normale.. non sappiamo nulla di magia!”, commenta Kim, che si guarda le mani come se da un momento all’altro potessero formare fulmini per colpire i nemici, un po’ come nei cartoni animati.
Anche Serena è della stessa opinione e poi ha anche una certa paura. “Zelda è abituata a fare magie, per lei questi luoghi dai nomi bizzarri sono completamente normali.. ma per noi..”, pensa, abbassando lo sguardo. “Voi potete fare moltissimo, ve l’ho già detto! Non siete come le altre ragazze della vostra età, voi siete speciali. Un po’ di magia scorre già dentro alle vostre vene, fidatevi di me! Non so esattamente per quale motivo, ma sento una grande forza magica che vi circonda e non è certo una cosa da ragazze qualunque”, afferma convinta la strega.
A questo punto le due amiche non sanno che cosa dire. Non hanno mai fatto magie, ma si fidano di Zelda.
“La vostra magia non è comunque abbastanza forte da manifestarsi senza un piccolo aiuto”, puntualizza la donna, che adesso è sospesa in aria a tre palmi da terra , “in fondo avete sempre vissuto in un mondo umano e non avete mai allenato i vostri piccoli poteri. Allora, accettate di aiutarmi?”, domanda a bruciapelo Zelda.
Non può perdere altro tempo, sa che Maa Luonnon è in gravissimo pericolo. Le due ragazzine si scambiano uno sguardo timoroso. Poi respirano a fondo, si prendono per mano e pronunciano la parola che le sta per trasportare in un avventura che non ha precedenti: 
”Sì”.
“Perfetto! Allora tenetevi per mano e prendete anche la mia”, intima, piena di nuova energia, la strega. Senza stare a farsi troppe domande le ragazze obbediscono e si ritrovano avvolte in un vortice di energia positiva luccicante. Di colpo vengono come risucchiate da un enorme buco giallo e arancio, che le getta lontano, in un posto mai visto. Alzando gli occhi vedono solo vegetazione fittissima, con alberi possenti, fiori colorati e molte altre piante dall’aspetto curioso. Stupite, Serena e Kim si alzano da terra e si guardano intorno. Si trovano proprio ai piedi del Kukka Maan. Vista in tridimensione sulla cartina non rendeva davvero l’idea, vista dal vivo fa ancora più impressione. E’ altissima e con piccole ma stabili sporgenze qui e là.
“E noi dovremmo.. scalarla? Non poteva teletrasportarci direttamente in cima?”, domanda Kim, atterrita da quell’insolito scenario.
Zelda scuote la testa un paio di volte: “Mi dispiace, ma non è possibile.. è proibito usare la magia per oltrepassare il monte Kukka Maan”, rivela Zelda, mentre inizia ad arrampicarsi. Adesso non indossa più il vestito luccicante, ma una divisa sportiva con tanto di funi per legarsi l’una all’altra. Le ragazze respirano l’aria pulita del luogo per darsi forza e afferrano le corde, muovendo i primi passi in verticale. Kim è l’ultima e posa male un piede su una sporgenza: scivola e resta appesa alla fune solo grazie allo stretto nodo magico fatto da Zelda all’altezza della vita.
“Kim! Tieniti stretta a questa corda!”, grida Serena, lanciandole una seconda fune che ha accuratamente legato a una roccia più sporgente delle altre. L’amica si aggrappa con tutte le sue forze e Zelda, già arrivata in cima, la tira su con un po’ di magia. Poi fa lo stesso con Serena, che è spossata per la lunga salita.
“Grazie!”, esclama Kim, appena posa i piedi a terra, al sicuro. Poi, però, si deve sedere perché le fa molto male la caviglia. Zelda tenta di curarla, ma non riesce a trovare la formula magica corretta. Serena prende da uno zainetto (fatto comparire dal nulla grazie a Zelda) una bottiglietta di acqua fresca. La porge all’amica che ne beve qualche sorso.
“Temo che per guarire questa brutta ferita non basti la mia magia. Purtroppo negli incantesimi curativi sono un disastro!”, la strega si rimprovera per non aver seguito più attentamente gli esami Parantava (curativi).
Kim le sorride, anche se il dolore è forte: “Calmati, non è niente di preoccupante. Tra poco potrò camminare nuovamente!”,
la tranquillizza, anche se non ne è davvero molto sicura. Ha un male insopportabile, come se ci fosse un coltello che le pugnala la caviglia ogni cinque secondi. Ma sa di dovercela fare.
“Forza, continuiamo..”, decide dopo qualche minuto, mettendosi in piedi a stento. Serena la sorregge e camminano lentamente verso il campo dei “fiori di terra”. Ce ne saranno miliardi e ognuno ha una tonalità diversa dall’altra, sono magnifici.
Zelda ne coglie sei e ne passa tre a Serena e altrettanti a Kim. “Mangiateli, dal primo all’ultimo petalo. Come vi ho detto vi doneranno poteri magici che vi insegnerò a gestire. Io intanto ne prendo qualcun altro di scorta..”, dice allontanandosi di qualche metro dalle ragazze, che intanto mangiano velocemente i fiori. Hanno un buon sapore, assomiglia al cioccolato bianco! Di colpo si sentono più potenti, invincibili. Una strana, nuova forza scorre nelle loro vene. Un’energia calda che le avvolge interamente. Le due amiche chiudono gli occhi e si lasciano trasportare in quel nuovo mondo, finché la trasformazione finisce e loro riaprono gli occhi. Zelda è li, in piedi, con le mani sui fianchi e l’aria soddisfatta.
“Bene.. sembra che i fiori abbiano fatto il loro dovere! Adesso provatemelo! Fate qualche magia, forza!”, le incita la strega. Serena e Kim strabuzzano gli occhi.
“Ma noi non abbiamo idea di come si facciano gli incantesimi!”, Serena non riesce neanche a finire di parlare, quando un’energia bianca esce dal suo palmo destro, aperto, e colpisce il terreno a pochi passi da lei. Si ferma e guarda il buco fangoso che aveva appena creato.
“Come hai fatto?”, le chiede, incredula, Kim. Per tutta risposta Serena scrolla le spalle e attende spiegazioni da Zelda, che sorride, compiaciuta, mentre osserva il buco come se lo dovesse analizzare dettagliatamente. “La riuscita degli incantesimi dipende da voi. Dovete pensare bene prima di agire e poi concentrarvi al massimo per non fare errori. Siete voi a gestire i poteri, per queste 24 ore, non dimenticatevelo! Potete fare ciò che volete, ma usateli con prudenza, potrebbero essere pericolosi!”, le avverte, mentre si sta già rimettendo in cammino. La discesa, adesso, è molto più facile e meno faticosa rispetto alla salita e riesce a calarsi dalla fune anche Kim.
Ora devono scegliere che strada prendere: quella più lunga ma sicura oppure la scorciatoia, decisamente più corta ma occorre percorrere la Light Tulessa. Le tre ci pensano su. Zelda sa perfettamente che per ogni minuto che passava una decina di piante sarebbero morte per colpa di quell’essere mostruoso, ma non vuole far rischiare niente alle sue giovani amiche.
Mentre Serena e Kim sono sicure di poter prendere la strada più breve: non possono permettere che succeda qualcosa di male a quel mondo meraviglioso. Alla fine Zelda si lascia convincere, con la promessa da parte di Kim che se si fosse sentita troppo male avrebbero intrapreso l’altra strada. Si incamminano verso un viale alberato, all’apparenza innocuo, ma dopo una cinquantina di metri sentono una fastidiosa brezza calda. Troppo calda. Serena mette una mano davanti al viso e sente un dolore penetrante al polso. Lo guarda velocemente: una piccola bruciatura le segna la pelle, come un taglio netto. Le fa malissimo, ma sopporta come fa Kim con la caviglia dolorante. Passo dopo passo il caldo aumenta e più di una volta hanno rischiato di bruciarsi anche molto gravemente. Per ora, fortunatamente, hanno solo qualche scottatura qui e la, ma la strega conosce bene quel luogo e sa che di lì a pochi metri sarebbe stato davvero difficile superare il calore della brezza. Camminano a testa bassa, finché Kim non riesce più a muovere un passo e si accascia a terra. Lì il calore è ancora più soffocante e la ragazza inizia a tossire. Serena la prende delicatamente tra le braccia e si concentra al massimo. Con uno sforzo immane riesce a tener sospesa in aria l’amica e sé stessa, trasportandosi faticosamente dietro ad un albero più grande degli altri. Lì la brezza non passa e la temperatura torna mite.
Zelda le segue e prepara con dei fiorellini e delle foglie secche trovate a terra una bevanda rinfrescante e riattivante. La fa bere per prima a Kim, che si riprende in un battibaleno, poi anche a Serena che è quasi priva di energie. La caviglia e il polso fanno ancora molto male alle ragazze, ma cercano di pensare solo all’insolita missione che devono svolgere.
Dopo essersi riposate per un po’, decidono di ripartire. Adesso sono piene di forze e, grazie a degli scudi creati con l’unione dei tre poteri magici, riescono a superare la terribile Light Tulessa. Ce l’hanno fatta!
Si accasciano a terra, esauste, e riprendono fiato. Poi Zelda si complimenta con le ragazze: “Non è da tutti oltrepassare un pericolo del genere!”, dice, soddisfatta. Ora, più che mai, è sicura di avere scelto le ragazze giuste. Si rilassano per qualche ora, all’ombra della tranquillità degli alberi fioriti. Procedono verso foreste impervie e attraversano un lago a nuoto, finché scorgono un luogo paradisiaco. Una specie di valle, circondata da querce che proteggono l’area dal vento e all’interno una specie di eccezionale moltitudine di colori. Era proprio come Serena e Kim l’avevano immaginato dai brevi racconti della strega: il Triumph of Green. Poi però il loro sguardo estasiato diventa triste: vedono un trono, nero come la pece, circondato dalla desolazione totale. E’ come un buco buio nella luce, impressionante e particolarmente pauroso. Ogni secondo che passa, una foglia o un fiore degli arbusti più vicini al trono, cade o appassisce. Poi scompare nel nulla, probabilmente grazie all’effetto di qualche Calice. E’ uno spettacolo orribile. La natura del posto più bello di Maa Luonnon sta morendo!
Il responsabile è seduto sul trono: un uomo avvolto da un mantello, anch’esso nero. Una figura incappucciata e minacciosa, che guarda fisso davanti a sé. Nel cuore di Zelda cresce l’odio per quell’essere meschino. E cresce ancora di più quando sposta lo sguardo verso il retro del trono: una gabbia in cui c’è rinchiuso un corpo umano, disteso a terra e con gli occhi chiusi. La strega impallidisce. E’ Henry, il re! Non da alcun segno di vita. “No, non è possibile..”, pensa, portandosi le mani alla bocca.
Quando le ragazze guardano nella stessa direzione non possono far altro che rabbrividire.
“Non può finire così!”, pensano nello stesso istante le due amiche che, senza dare alcun preavviso l’una all’altra, si alzano in volo e si dirigono velocemente verso il trono nero. Atterrano alle sue spalle e lo fanno con tanta precisione e agilità che il mostro non si accorge di nulla. Si scambiano uno sguardo di complicità e si concentrano al massimo. Un’energia potentissima si sprigiona dalle mani di entrambe e colpisce la schiena dell’uomo incappucciato che cade a terra, ma si rialza dopo pochi istanti.
Serena non crede ai suoi occhi: il loro colpo non è servito proprio a nulla! Pieno d’ira l’uomo si gira verso di loro. Non riescono a vederne il volto, solo il buio più totale. Cercano di correre però ma Kim cade a terra. Senza neanche pensare alle conseguenze, Serena si blocca e aiuta l’amica ad alzarsi, la quale invece la incita a scappare via. No, questo non l’avrebbe mai fatto. Intanto Zelda cerca di distrarre l’uomo incappucciato con qualche colpo magico, ma le forze le mancano. Ormai non è più giovane come una volta e i suoi poteri non gli fanno altro che il solletico. La strega si sente impotente davanti a quella che sembrava l’oscurità in persona. Si arrende dopo l’ennesimo incantesimo andato in fumo e non incassa molto bene quello potentissimo che arriva dall’essere demoniaco.
Cade a terra, completamente stremata. Adesso le ragazze sono davvero sole. Serena cerca di reggere Kim come può, ma non è tanto forte. Sente che sta per cedere anche lei, le 24 ore stanno per scadere! Presto sarebbero tornate ragazzine qualunque e i fiori di scorta li aveva ancora Zelda, a più di trenta metri da loro.
“E’ la fine..”, pensa sconsolata Serena. Non dovevano essere tanto precipitose. Le amiche chiudono gli occhi e si prendono per mano. Tengono stretta l’una quella dell’altra, mentre i loro corpi tremano. Succede l’impensabile. Una luce calda, più potente di qualsiasi altro incantesimo mai sperimentato, investe l’uomo incappucciato che finisce a terra. La figura minacciosa scompare e il trono ritorna d’oro brillante. Serena e Kim aprono timorosamente gli occhi. Sono tornate le ragazze normali di sempre, senza più alcun potere. Non sentono più l’energia di prima. La magia è finita. E loro sono salve. Si stringono in un abbraccio che vale più di mille parole e stanno così strette per qualche minuto. Poi, come catapultate nel mondo che le circonda, corrono verso Zelda. La strega è im
mobile e non respira più.
“Chi siete voi due, ragazzine?”, la domanda arriva come un fulmine alle amiche, che si voltano, impaurite. L’uomo che prima era in gabbia e che sembrava morto è lì, davanti a loro. Era semplicemente svenuto, nulla di più. E’ riuscito a liberarsi grazie ai Calici Rossi che il mostro aveva sottratto a diverse creature e che aveva erroneamente lasciato in gabbia insieme a lui. Le due raccontano brevemente la storia, poi a entrambe, contemporaneamente, vengono in mente i Girasoli del Destino.
Ne chiedono uno al re per salvare la vita della strega, ma lui, addolorato, risponde che purtroppo il mostro li ha distrutti tutti.
Non ne è sopravvissuto neanche uno. “Quell’essere che adesso è scomparso per sempre ha lasciato dietro di sé una scia di odio e distruzione che ora non potrò riempire. Mi dispiace”, dice sinceramente Henry.
“No, no.. no!”, gridano le ragazze, stringendo i pugni e inginocchiandosi vicino al corpo inerme della loro amica. Un’amica preziosa, una di quelle amiche che non puoi dimenticare. Nello stesso istante una lacrima scivola dai visi di Serena e Kim. Una lacrima che cade sul suolo e che si congiunge in una sola piccola pozzetta d’acqua. In questo piccolo punto cresce dell’erbetta nuova, verde e rigogliosa e all’esatto centro in pochi secondi appare uno splendido girasole dorato. Il re non riesce a crederci: da quelle due lacrime è nato un Aurungonkukka on Kohtalon! Una fiammella flebile di speranza si riaccende nei cuori delle due ragazze, che, sotto istruzioni del re, colgono il particolare girasole e staccano ad uno ad uno i cinque petali, posandone due sulle braccia, due sulle gambe e uno al centro della fronte.
Poi si danno nuovamente la mano e recitano, in coro, l’incantesimo della guarigione profonda: Loitsu Syva Parantasvaa! Zelda viene avvolta da una luce bianca, tanto abbagliante che le ragazze devono coprirsi gli occhi.
La magia dura pochi secondi e, sotto lo sguardo vigile del re, la strega finalmente ricomincia a respirare regolarmente.
Appena si riprende del tutto Serena e Kim la sommergono in un abbraccio strettissimo e pieno di affetto reciproco. Zelda non riesce a dire altro che: “Grazie”.
“Le ragazze sono riuscite a salvare Zelda grazie alla loro amicizia. Sono unite, si aiutano a vicenda, si vogliono bene come fossero sorelle. E so che continueranno a farlo”, sussurra Henry.
La vita a Maa Luonnon riprende il suo normale circolo. La magia continua a vivere in ogni angolo e la natura è ancora più vigorosa di prima. Grazie alle lacrime delle ragazze i Girasoli del Destino hanno ripreso a crescere e non saranno più tanto rari come una volta.
“Ragazze.. visto che avete salvato il nostro mondo avete il permesso di tornare a trovarci quando volete! Vi saremo eternamente riconoscenti”, dichiara Zelda, al momento dei saluti.
“Grazie.. e tu sei sempre la benvenuta nel nostro mondo. Non sarà magico, ma ha degli splendidi posti da visitare. E comunque.. sappi che ti aspettiamo per fare ancora le tue aiutanti!”, ride Serena, entrando dentro al portale colorato che le trasporta direttamente a casa. Questa, sicuramente, è un’avventura che rimarrà sempre impressa nei loro cuori.
In quei due cuori così uniti che sono riusciti a sconfiggere il Buio in persona.

GIULIA di Anna Maria Benone. Secondo Livello Adulti. Corso di scrittura online.

GIULIA
di Anna Maria Benone
Secondo Livello – Corso Adulti

Era sempre stata sicura di sé. Perfetta in ogni azione aveva sempre ottenuto tutto dalla vita, eppure qualcosa aveva sempre offuscato il suo splendore: qualcosa nel suo dentro. Figlia di una famiglia agiata, 32 anni appena compiuti, Giulia era già una ricercatrice universitaria affermata, grazie ai vari ganci e agganci italiani, e anche grazie alle proprie capacità. Il suo aspetto fisico l’aveva sempre aiutata, forse troppo. Capelli neri, lunghi, leggermente mossi, sopracciglia lunghe e sottili, di quelle che nemmeno una brava estetista riesce a rendere perfette, scure su una carnagione candida. Nasino delicato e discreto, labbra carnose dal sorriso enigmatico; altezza media, corpo esile. Più che a Mortisia assomigliava ad Audrey Hepburn, così dicevano in giro; forse per lo sguardo a volte svampito, a volte dolcemente penetrante; forse per la delicatezza dei suoi lineamenti. Giulia non era consapevole di tali somiglianze, tanto meno di possedere tanta bellezza.

Quell’ultima settimana di settembre fu proficua per lei. La conferenza di Londra era andata bene, in modo perfetto, con ottimi risultati, com’era stato programmato da lei e dai suoi capi. L’aereo era atterrato e mentre Giulia attendeva paziente di prendere le sue valigie di pelle scura, pensava a quanto fosse fortunata. La sua vita procedeva, lei procedeva con la sua vita, eppure non si sentiva felice. Presi i bagagli mandò velocemente a Marco un sms per informarlo che era atterrata e che il viaggio era andato bene. Aveva pensato di chiamarlo, ma in cuor suo sapeva che non desiderava sentirlo in quel momento. Sorrise da sola, come se si fosse fatta un rapido esame di coscienza e si fosse resa conto di amare il suo Marco, ma contemporaneamente di volere in quel momento stare nel silenzio dell’affollato aeroporto di Malpensa, per mescolarsi tra la gente che partiva e che tornava.  Si sentiva strana quel giorno, si diresse verso l’uscita. Improvvisamente sentì chiamare più volte, da una voce maschile, il suo nome. La voce insisteva. Giulia finalmente si voltò e si trovò di fronte chi non avrebbe mai pensato di rivedere. Un passato che credeva ormai sepolto si impose nella mente della giovane donna. Non poteva credere a ciò che gli occhi avevano davanti.

“Non posso crederci? Sei tu? Sei proprio tu? E la Barba? I capelli lunghi? Faccio fatica a riconoscerti. Giacomo?”disse meravigliata.

“Certo che sono io e tu non sei cambiata affatto. Tajer, pantalone invece della classica gonna, tacchetti, i capelli raccolti, quindi immagino siano ancora lunghi. Sempre perfetta. Sempre bella. Ti ho intravista e seguita. Anch’io non posso crederci. Sono in partenza, mentre tu sei di ritorno mi sembra di capire” rispose Giacomo.

Giulia annuì e non disse nulla, non riusciva a parlare, continuava a guardarlo, riflettendo sul suo volto dai lineamenti diversi. Lo guardava senza dire una parola, incrociò il suo sguardo e di colpo sentì un sussulto nel cuore, lo stesso di 10 anni prima. Giacomo impulsivamente l’abbracciò e la tenne stretta. In quel momento tutto sembrò fermarsi, anche la gente che affollava l’aeroporto si era dileguata. Non si sentiva alcun rumore, nemmeno quello degli aerei;  i ricordi presero il sopravvento. “Giacomo, sono tra le braccia di Giacomo” pensò Giulia irrigidendosi come uno stoccafisso, mentre lui la teneva stretta come se in quel momento prezioso volesse farle sentire tutto ciò che aveva dentro per lei e che in questi anni aveva, in qualche modo, conservato.

“Sento il mio respiro nel tuo, era da tanto che non sentivo più il mio respiro” pensò Giulia mentre iniziava a lasciarsi abbracciare.

Un raggio di sole nel buio di lei era arrivato, lo stesso raggio di sole a cui lei anni fa aveva rinunciato. Quante cose le vennero in mente in  quell’attimo, quel prezioso attimo. L’aveva ritrovato ed è come se nulla, nemmeno il tempo, tra loro, fosse mai passato. Era stato l’unico che l’aveva sempre letta dentro, forse troppo. Lui, un folle, innamorato dell’arte, della poesia, della diversità. Mentre lei era la studentessa modello che ascoltava il professore e rispondeva a tutte le domande, lui blaterava con i suoi amici, commentando e ironizzando sul suo modo di porsi e di fare.

“Dicevi che ero perfettamente interessante, poiché nella mia perfezione ero imperfetta. Come poter dimenticare! Credevo di aver dimenticato” pensò ed iniziò a ricambiare anche lei l’abbraccio e a stringersi nel corpo di lui, come se volesse aggrapparsi a qualcosa.

Di nuovo i ricordi la pervasero:

“mi scrutavi in ogni dove, in ogni tempo e anch’io scrutavo te, tenendoti a distanza, poiché sapevo che eri troppo diverso da me e mi facevi paura. L’anno accademico si era concluso e giugno fu galeotto per noi, un esame che non ho mai superato. Ed ora sono qui. Ricordo tutto. Mi invitasti ad uscire con la scusa di andare a vedere una mostra. Rimasi sorpresa nel rendermi conto che eri tu l’artista in questione. Ricordo tutto perfettamente: le tue sculture, i tuoi quadri astratti, per me assurdi, fatti con materiali diversi e strampalati. Era questa la tua genialità. Riuscivi a trarre l’armonia, la perfezione, il bello anche da un semplice barattolo di fagioli ormai vuoto e consumato. Rimasi stupefatta dalla bellezza delle tue opere. Alcune erano tristi e comunicavano devastazione, altre invece erano armoniose, romantiche. Quel giorno, alla mostra, eravamo da soli. Furbo! Ti eri messo d’accordo con il proprietario della galleria per rimanere da solo con me. Mi irritai alquanto. Mi sentii in trappola, tu eri la mia trappola.”

Avrebbe voluto confessargli tutti i suoi ricordi, ma non c’erano parole degne di comunicare l’emozione che la donna stava ora provando e così continuò nei suoi pensieri.

“Quel giorno mi prendesti estremamente in giro per com’ero vestita, avevo solo 20 anni e mi facesti notare che ne dimostravo 32. Ecco perché mi dici che non sono cambiata affatto. Facesti il pazzo, come il tuo solito. Fosti un giullare. Mi presentasti ogni tua opera nel dettaglio, come solo i folli sanno fare. Un’opera attirò la mia attenzione. Rimasi incantata a vedere il volto di donna dipinto su una tela rialzata da una piattaforma in acciaio. Ti avvicinasti a me. Il tuo corpo vibrò nel mio, in quell’abbraccio, lo stesso di ora. Mi turbai, come in questo momento. Tu invece mi stringevi dolcemente, voltasti il mio viso verso di te accompagnando il mio corpo che inaspettatamente si avvicinava al tuo sempre di più. Lasciati andare, mi sussurrasti, vivi Giulia, vivi. Non feci in tempo a risponderti e a respingerti che sentii le tue calde labbra morbide sulle mie. La tua barba e i tuoi baffi mi solleticavano, ma il calore del tuo bacio mi fece perdere. Non respirai, ma respirai finalmente un senso di libertà. Fu solo un attimo, lo stesso che ora sto provando, ora dopo 10 anni. Mi sciogliesti i capelli e il nostro bacio proseguì per diverse ore. Mi ritrovai a terra, accanto a te che mi fissavi sorridendomi e mi sfioravi delicatamente il volto. Mi dicesti che mi amavi e che amavi soprattutto ciò che non ero, ciò che nascondevo, ma che tu leggevi. Ricordo ancora le tue parole, parole che mi fecero paura. Continuavo a fissarti e ad ascoltarti, ma non parlavo, non riuscivo. Non facemmo l’amore, dicesti che non ero pronta. Rimanemmo distesi per un po’, l’uno accanto all’altra. Il mio sguardo cadde su quel volto di donna e mi rividi: ero io e tu lo confermasti. Rimanemmo in silenzio, abbracciati fino all’alba. Mi riaccompagnasti a casa e da lì, mi negai. Eri uno squattrinato, un genio pazzo adorabile e soprattutto colui che aveva visto di me troppo, anche quello che io stessa non avevo visto.”

L’annuncio dell’aereo per Berlino distolse Giulia dai suoi pensieri, dai suoi ricordi. “E’ il mio volo” sussurrò Giacomo nell’orecchio di lei.

Si distaccarono a fatica. Un lieve bacio sulla guancia, lo sguardo di Giulia incrociò nuovamente quello di Giacomo. Tra loro, le non parole di un dialogo d’amore. L’aeroporto era nuovamente affollato.

Giacomo si allontanò senza voltarsi indietro, mentre Giulia iniziò a sentire che qualcosa dentro di lei stava iniziando ad affacciarsi e a chiederle aiuto. Lo scrigno perfetto, dorato, decorato da pietre preziose colorate, non grezze, già lavorate, armoniose e perfette era stanco di rimanere chiuso.

Trascorsero due settimane dall’incontro con Giacomo, Giulia non faceva altro che pensarci. Rifletteva su come a volte la vita faccia dei giri strani. Giacomo era l’ultima persona che lei avrebbe pensato di rivedere. I giorni passavano veloci insieme al solito tran tran quotidiano, con essi i mesi. Tutto andava in avanti: il mattino, il pomeriggio, la sera, la notte. Il lavoro procedeva bene sempre in modo perfetto e il rapporto con Marco era splendido. Lui era sempre molto dolce con lei, anche quando per motivi di lavoro era via le faceva sentire la sua presenza. Giulia continuava a ripetere a se stessa quanto fosse fortunata ad avere accanto persone amabili che l’amavano: eppure lei non si sentiva più all’altezza di nulla, si sentiva stressata, osservata e sottopressione, pur non essendo così. Pensava a Giacomo e faceva l’amore con Marco, nel lavoro si impegnava al massimo, l’unica pausa era il caffè delle ore 15.00. Alle 15.05 non lo prendeva già più. Si rendeva conto che stava iniziando a perdere il controllo di tutto, soprattutto di lei. La Pasqua era ormai alle porte e Giulia, come da tradizione, iniziava ad organizzarsi per il pranzo pasquale che però questa volta si sarebbe svolto a casa sua e non dei suoi genitori. Il giovedì santo, dopo la messa di rito alla quale la giovane donna assisteva ogni anno per fare compagnia alla madre, andò con mamma Miriam a fare la spesa necessaria per il pranzo della domenica successiva. Fu proprio quel giovedì che Giulia si rese conto che il suo scrigno era stato scosso e lei non poteva più fingere. Doveva richiuderlo, sopprimerlo di nuovo. Lei doveva fare qualcosa. Quel giorno, dopo aver salutato velocemente Miriam, ritornò in casa. Il vuoto fu la sua voce. Sapeva che stava ricominciando di nuovo, sapeva che in realtà non aveva mai smesso, non poteva smettere, non riusciva, non voleva. Sapeva che lei non poteva più reggere certi ritmi, certe pretese. Conosceva bene gli amori che aveva intorno, specie l’amore di sua madre, forse l’unica della famiglia che aveva effettivamente intuito il suo qualcosa, quel qualcosa che la turbava.

Entrata in casa, sistemata la spesa, prese il vecchio videoproiettore che i suoi genitori le avevano donato in eredità ed iniziò a rivedere i vecchi filmini: la sua fanciullezza, la sua infanzia, la spensieratezza.

“Quanto sorridevi Giulia e quanto eri imbronciata! Eri bella, bimba! Bimba” disse tra sé e sé.

Continuava a vedere e rivedere i filmini.

“Devo ricominciare, è il momento. La Santa Pasqua di rinascita. Quale rinascita?” bisbigliò.

Dopo aver detto queste parole, accese una candela, poi un’altra, poi un’altra e un’altra ancora fino ad illuminare la camera da letto in cui si trovava. Iniziò a denudarsi.

“Sono perfetta, sono perfetta” ripeteva più volte variando il volume ed il tono di voce.

Iniziò a versare sul proprio corpo la calda cera. Rabbia negli occhi, dolore immenso da esorcizzare.

“Non sono nulla e sono tutto” disse.

“Nessuno si è mai accorto di niente. Nessuno si è mai accorto delle mie piccole ustioni, copro tutto in modo perfetto con  correttori e creme colorate. Sono brava, molto brava a mascherare le mie ferite, ferite di cui ho bisogno. Il mio dolore, dolore di cui ho bisogno. La mia bellezza, bellezza incollata al mio corpo. Io, la perfetta.”  Commentò guardandosi allo specchio.

Distesasi sul freddo pavimento, iniziò a bruciarsi in vari punti: la parte mediale del polso sinistro, il palmo della mano destra, una parte della glabra ascella sinistra e una parte di quella destra, il centro del  fondoschiena, dal basso verso l’alto; fin dove riusciva ad arrivare con il braccio.  L’inguine. Lì sì che sentiva dolore. Versava a ritmo lento gocce di cera, goccia dopo goccia per le volte che non si era sentita all’altezza, goccia dopo goccia per le volte che non aveva sbagliato, goccia dopo goccia per le volte che era stata perfetta. Urlava dentro, si guardava e faceva scivolare in ogni parte la fluida cera bollente che poi, una volta divenuta solida, lei stessa distaccava dalla setosa pelle.

“Era un mese che non lo facevi più” disse a se stessa, all’altra se stessa.

“Sei stata troppo brava, è ora di ricominciare a sentire il piacere del dolore” proseguì con il suo folle dialogo corpo-voce.

Quella sera, però, qualcosa era differente. Bruciarsi non bastava più. Giacomo le aveva scosso nuovamente il cuore e le aveva fatto vedere che forse in lei non era tutto marcio, ma lei non voleva ancora vedere. Voleva sentire. Non poteva accogliere alcun amore, non sapeva cosa fosse l’amore, non sapeva cosa fosse lei. Doveva sentire il dolore per esorcizzarlo. Prese un temperino, ne estrasse la lametta ed iniziò il nuovo rituale. Il vecchio non era più sufficiente. Seduta a terra, iniziò a farsi dei piccoli tagli sulle gambe, poi sulle cosce, alternando cera e taglio. Una piccola goccia e un taglio superficiale, una grande goccia e un taglio profondo. Le lacrime si impadronirono del suo bel viso, la disperazione si impadronì di lei. Ad un tratto un rumore di chiavi e dei passi veloci distolsero Giulia dalla sua follia.

Una luce in cucina ed una voce: “Giulia sei in casa? Avevi dimenticato il notebook in auto, così te l’ho riportato. So quanto è importante per te e per il tuo lavoro.”

“Anch’io ho una testa in questo periodo! Allora per Pasqua si fa l’agnello? Giulia? Giulia? Ci sei?” -continuò la voce-

“Dove sei? Ah, sei di là, intravedo delle candele. Giulia?” nessuno rispondeva.

“Giulia?” un nuovo richiamo.

I passi avanzavano.

“Giulia!” urlò la madre.

Miriam non poteva credere ai suoi occhi, si trovò di fronte una scena orribile.

Si precipitò verso sua figlia.

“Perché? Perché Giulia!” gridò la donna irata.

“Ti fai del male? Da quanto? Da quanto tempo!” chiese urlando e piangendo, sentendosi impotente davanti a quella sgradevole sorpresa.

Giulia era accovacciata al muro, in lacrime, continuava a tagliuzzarsi. Guardò la madre con occhi disperati, le sorrise come solo chi ha perso il senno sa fare e  disse:

“Mamma, non sono la figlia che pensi. Non sono perfetta, sono fallita. Non sono come te. Non amo Marco, non amo me. Chi sono?”

E continuò a tagliarsi in modo sempre più profondo.

La madre dopo un primo momento d’ira mista a paura, vedendo la figlia in quelle condizioni si calmò, e l’amore di mamma iniziò a guidarla. Si inginocchiò davanti a lei, l’abbracciò teneramente, delicatamente le tolse dalla mano la lametta. Prese dalla poltrona vicina il plaid blu e l’avvolse dolcemente stringendola in grembo.

“Ne uscirai Giulia, ne usciremo” disse Miriam.

Le certezze di chi è madre erano crollate. Il segreto di Giulia era stato scoperto. Lo scrigno era ormai aperto.

In casa, il silenzio. Sguardi intermittenti e analitici, semisorrisi in una gelida atmosfera tagliata da un raggio di sole, incanto di una speranza, quella di Giulia, nella corsa folle del demone che ormai la possedeva. Tutta la famiglia era a conoscenza del suo segreto. Lei, ormai, entrava e usciva da cliniche specialistiche, ascoltava psicologi e psichiatri rispondendo ad ogni loro test in modo perfetto. Dopo aver eseguito la procedura ritornava nel suo tormento con disinvoltura come se nulla la turbasse. Marco cercava di starle vicino, Miriam era distrutta e non sapeva più cosa fare, il muro alzato da Giulia era ormai irto.

La paziente è cosciente e lucida, non è folle, è vigile in ogni sua azione, conosce in ogni sfaccettatura il proprio autolesionismo. E’ la macchina di se stessa, ha un’autostima alta, la stessa autostima che la porta a farsi del male in modo estremamente lucido e razionale. Non è pericolosa per gli altri, ma per sé. Non c’è farmaco che possa aiutarla, le terapie funzionerebbero solo se la sua volontà si risvegliasse verso il bene e la portasse a non farsi del male. Unica possibilità è monitorare la paziente e tenerla impegnata nei momenti di crisi autolesioniste.

Questa la diagnosi degli psichiatri. Diagnosi per nulla incoraggiante per la famiglia e completamente indifferente per la donna che sembrava impassibile a qualsiasi giudizio medico. Il silenzio era la voce di Giulia, un silenzio freddo per gli altri, familiare e rassicurante per lei. Miriam andava a trovarla ogni giorno, cercava di parlarle, di farla sorridere; era inutile, nella casa tutto sembrava vuoto ed inespresso. L’unico pensiero di Giulia era, ora, Giacomo, il suo sorriso, la sua dolcezza, il suo amore non vissuto. La donna sapeva in cuor suo che doveva fare qualcosa, qualcosa per sé; non sapeva ancora cosa e soprattutto dove trovare la forza per farla. Giugno era arrivato caldo e solare, l’estate era ormai vicina. Giulia uscì di casa e decise di non andare al solito appuntamento terapeutico, ritenuto da lei inutile,  solo una gran perdita di tempo che andava fatta perché rientrava nel programma stabilito. Fece un giro a piedi intorno all’alto palazzo a vetri dove abitava. Si fermò a comprare il giornale dal giornalaio in fondo la strada principale che portava alla sua casa. Si sentiva strana quel giorno, percepiva la stessa stranezza che aveva provato quando mesi prima aveva incontrato Giacomo all’aeroporto. Si guardò intorno come a cercare qualcosa, qualcuno; non c’era nessuno. Sospirò. Comprò il solito quotidiano e lesse d’impulso i titoli principali, il suo sguardo cadde sul titolo centrale: Aneurisma uccide il giovane artista Giacomo Lumezia. Non poteva credere ai suoi occhi, Giacomo, il suo Giacomo era morto. Giulia rimase di pietra nel leggere tale tragedia. Occhi sbarrati, iniziò a tremare finché di colpo, in lacrime, scappò velocemente a casa dove lesse per intero l’articolo.

A pochi mesi dall’esposizione presso la galleria d’arte di Berlino (grande successo per l’artista contemporaneo dalla straordinaria sensibilità e stravaganza espressa in opere follemente realistiche) Giacomo Lumezia, colpito da aneurisma aortico addominale, si spegne prematuramente. Lascia moglie e una bambina di sei anni, Giulia. Il Lumezia stava ultimando la sua ultima opera LA GIOIA DELLA VITA IMPERFETTA, quadro conclusivo del ciclo giovanile iniziato durante il periodo universitario con la tela su piattaforma in acciaio IL VOLTO.

La donna leggeva e lo sconforto, la rabbia, il dolore e soprattutto i ricordi invasero il suo cuore, un cuore tradito da se stessa. Giacomo si era sposato e aveva chiamato sua figlia come lei. Concluse di leggere l’articolo che riportava anche la foto di un Giacomo sorridente, quello che lei aveva sempre amato. Richiuso il giornale, il cuore sussultò dello stesso sussulto che la donna aveva provato quel giorno in aeroporto e dieci anni prima.

“Era lì che stavi andando Giacomo, a Berlino” pensò Giulia.

“Eri conosciuto nel campo artistico ed io nemmeno lo immaginavo. Ma dove sono vissuta? Cosa ho fatto? Tua figlia si chiama Giulia” continuava a ripetere a se stessa.

“Giacomo, Giacomo!” urlò.

Era sconvolta e persa. Trascorse tre giorni nell’oscurità e nel silenzio. Il cellulare, il telefono fisso, il campanello di casa suonavano senza ricevere risposta. Giulia era immersa nel profondo dolore. Il buio e il vuoto erano i suoi compagni. Le lacrime ora scendevano lente, taglienti; con esse la memoria di lui e della vita che lei non aveva vissuto, saputo vivere.

Miriam e Marco avevano provato ad entrare, ma Giulia  si era barricata in casa tra le proprie ombre, con il nome di Giacomo in bocca e l’amarezza di ricordi di un amore tradito da lei stessa.

Accese una candela, la tentazione di bruciarsi era ritornata più forte che mai. Sfiorò più volte con la mano destra la fiamma e disse: “Giacomo sei stato l’unico ad avere intuito il mio disagio. Sono perfettamente interessante e nella mia perfezione sono imperfetta, così mi dicevi sempre. La mia apparente perfezione. Avevi capito tutto di me e mi amavi. Ti ho amato anch’io e non ho mai smesso di amarti, pur non amandoti perché incapace di amarmi. Le nostre vite sono andate avanti, abbiamo amato altri non dimenticando mai il nostro amore non vissuto. Io non ho mai vissuto.”

Continuò il suo soliloquio guardando fissa la fiamma, sfidando la tentazione e il desiderio di punirsi, lo squallido gioco del piacere facendosi male.

Avvicinò la candela al suo bel viso e disse ancora: “Tu sei andato via per sempre e prematuramente, Signora Morte ha bisogno di rallegrarsi con il tuo sorriso, con i colori che lascerai tra nuvole sparse.”

Fissava la candela la cui luce si avvicinava sempre di più, “potrei raggiungerti” sospirò.

Le lacrime solcavano il viso provato dal grande dolore.

“Sei morto nei tuoi migliori anni” continuò “ma hai lasciato traccia di te, di ciò che eri, che sei e continuerai ad essere nei ricordi, nelle tue opere: luci e colori pullulanti di vite.”

Silenzio nella stanza, la fiamma era ormai vicinissima al ciuffo scuro di capelli che divideva la fronte alta e chiara di Giulia. La tentazione di darsi fuoco e farla finita era attraente e superiore alla forza di fermarsi, ma in quel silenzio gelido e profondo, sentì qualcosa, qualcosa che non era abituata più ad ascoltare, il suo respiro. Lo stesso che ella ascoltò quel giorno in aeroporto, nell’abbraccio di Giacomo. Il respiro di vita l’aveva richiamata. Allontanò con mano tremante la candela dal viso, con un faticoso soffio la spense. Accese la luce, prese le forbici dalla cucina e si tagliò i capelli.

Si sentì morire anche lei, ma in quel momento si sentì rinascere. Qualcosa era cambiato. Una forza sconosciuta, sopita da troppo tempo, si era risvegliata. Giulia sapeva che sarebbe stata dura, ma sapeva soprattutto che doveva ritrovarsi e capire chi era. L’autolesionismo compagno da sempre non era più necessario. Era consapevole che le crisi maledette l’attendevano a braccia aperte, ma era pronta. Il suo castello di cristallo era crollato e lei tra i frammenti infranti non si tagliava più. La morte le aveva insegnato.

“Giacomo, hai abbandonato il tuo corpo, la materia di qui. Sei nella stanza accanto. La tua vita è andata avanti ed anche nel trapasso sei avanti. Il nostro legame non si è mai spezzato, il nostro amore è sempre andato oltre. Quanto ho imparato da te, caro Giacomo. Mi hai insegnato l’amore, un amore che non avevo mai compreso prima, l’amore che non avevo mai dato a me stessa, l’amore della mia non perfezione. E’ ora di morire per rinascere. Mi hai fatto sentire, di nuovo, il mio respiro, la mia vita ancora in grembo. Non ho più sentieri da seguire se non i miei da trovare. E’ ora di affrontare, è ora di andare” disse.

Un biglietto alla madre (ti voglio bene).

Prese dall’armadio qualche indumento che infilò disordinatamente nel primo zaino che trovò e si allontanò dalla città, nel silenzio della notte.

Trascorsero le ore, il sole stava ormai sorgendo, il paesaggio era cambiato, non era più grigio e all’orizzonte si intravedeva il mare. Il respiro di Giulia diventava sempre più profondo e più calmo. Le campagne intorno erano silenziosamente avvolte dal delicato cinguettìo degli uccellini appena risvegliati. Gli occhi di Giulia iniziavano a colmarsi di una nuova luce. Finalmente era arrivata. La pace della terra l’accolse. Sorrise davanti alla porta dell’antica casa della nonna materna, una vecchia pagghiara piccola e accogliente, nel profondo tacco d’Italia. In casa si sentiva l’odore tipico del chiuso. Giulia era distrutta dal lungo viaggio e si assopì sul letto spoglio. Dormì tutto il giorno e avrebbe dormito ancora se non fosse stato per dei rumori che la svegliarono il mattino seguente. I contadini della campagna vicina si erano messi già a lavoro. Si alzò, si guardò allo specchio e rimase impressionata dai propri occhi nascosti da fosse profonde, devastate dal dolore della sua perdita. Aprì le ante delle finestre e fu subito accecata dal già cocente sole di giugno. Accese il cellulare e si trovò 10 messaggi e chiamate della famiglia, preoccupata per lei.

Rispose solo alla madre con un semplice sms: sono dove tu conosci i nostri segreti, sto bene, ma ho bisogno di solitudine. Ti prego, non cercarmi. So che lo farai, perché sei mia madre e conosci di me anche il rovescio che non hai voluto vedere. Il nostro legame è viscerale, so che saprai aspettare e rispettare, tenendo a bada e nel silenzio il dolore che ti ho causato. Perdonami. Ti voglio bene.

Non fece riferimento a Giacomo, tanto meno ebbe un pensiero per Marco. Sapeva in cuor suo che il suo ragazzo l’amava, ma era consapevole della propria fragilità, una fragilità di una nuova forza tutta da scoprire. Aveva bisogno di capire e di capirsi, di trovare se stessa, sapeva che doveva fare un passo per volta come fa il bimbo che impara a camminare. Se doveva cadere di nuovo, doveva cadere da sola.

Passarono le ore e le lacrime iniziarono a colmare i sacchi degli occhi divenuti sempre più piccoli; con esse si riaffacciarono i tormenti. Il desiderio di ricominciare a ferirsi iniziò a prendere forma, i suoi fantasmi erano ritornati.  Trovò in cucina dei cerini sigillati, dovevano essere di qualche contadino che ogni tanto apriva la casa per far entrare nuova aria e luce. Con essi trovò delle candele e in cucina, a portata di mano, c’erano coltelli e altri utensili appuntiti, perfino il caturo utilizzato dalla nonna per fare i maritati freschi. Giulia si guardò intorno, tra la luce del sole riconobbe le sue ombre. Il desiderio di farsi del male non era sparito, le sue paure, le sue ansie prendevano sempre più forma tra i ricordi di Giacomo che non c’era più e della vita che non aveva vissuto.

“Devo reagire” pensò.

Iniziò a muoversi in casa, a lavare il pavimento, i vetri, a fare e disfare il letto più volte con le lenzuola bianche di cotone, ancora  profumate di naftalina. Si muoveva velocemente, cercando di distogliere il pensiero dal piacere di lesionarsi. Spostava ogni oggetto che trovava in casa per poi rimetterlo dove l’aveva trovato. Creava confusione per trovare in lei l’ordine. Ripeteva gli stessi movimenti più volte, ma tutto questo iniziò a non bastare. Trovò, nel piccolo bagno, dei vecchi rasoi arrugginiti; li fissò, ne prese uno in mano e ne estrasse la lametta. La tentazione aumentava.

“Deve essere del nonno che ha vissuto con la nonna l’ultimo periodo della vita in serenità. Deve essere suo” pensò.

Tale pensiero la fece momentaneamente rinsavire. Ripose la lametta sul lavandino e attraversata la piccola camera da letto,  rapidamente si diresse in cucina.

Si sedette sulla sedia, si aggrappò con forza al grande tavolo di legno dove la famiglia spesso si riuniva in felici banchetti. Sembrava stesse abbracciando qualcuno, qualcosa, se stessa. Si lasciò andare nelle sue emozioni, nei suoi tormenti, facendosi attraversare totalmente. Affrontò la sua prima crisi di astinenza. I medici l’avevano avvertita e le avevano spiegato che quando avrebbe smesso di assumere la dose masochista, avrebbe iniziato ad interrompere le dinamiche e la danza del folletto sarebbe iniziata. Così fu. Passarono i giorni e le crisi aumentavano. Giulia non riusciva ancora ad uscire di casa. Tutto sembrava non cambiare, la danza del folletto si ripeteva ogni giorno. Le crisi continuavano  a persistere e Giulia persisteva con esse in una lotta che sembrava non finire mai. La notte e il giorno erano ormai uguali per lei, finché la mattina del 21 giugno, la donna fu risvegliata da suoni diversamente melodici: campane eoliche. Il suono era talmente delicato e profondo che la portò ad uscire finalmente di casa, come a voler seguire quella lontana melodia che le stava già donando un  po’ di tregua in quella lotta continua ed infinita. Il sole era accecante, l’estate era ormai protagonista. Camminò per un’ora, senza meta, cercando di comprendere da dove provenisse quel suono. La brezza marina le accarezzò dolcemente il volto. Si ritrovò davanti a un mare calmo, cristallino, acquietato da un blu sfumato.  Non c’era nessuno intorno. Giulia si sedette, affondò le mani nella calda sabbia e pianse tutto il suo dolore. Un gabbiano in volo rasoterra tagliò lo sguardo della donna, mentre il leggero venticello le asciugava le lacrime. La natura le parlava e il coraggio di ritrovare la vita iniziò a farsi strada nel suo ventre. Da lontano, il ritorno di un’eco, il suono di campane eoliche ritornò a farsi sentire accompagnato da voci bianche di bimbi in festa. Giulia riprese il cammino e si ritrovò, non molto lontano dalla spiaggia, nel paesino dell’antica torre. Il paese festeggiava l’estate e l’inizio della stagione balneare. Le case erano allietate da fiocchi colorati, campane eoliche di varie dimensioni. Giulia osservava sbalordita la vita e i suoi colori mentre si perdeva tra la gente di un mercato sovrappopolato da voci che si accavallavano e da bambini che giocavano.

Una donna di età avanzata le si avvicinò e disse: “Signorina, sta bene? La vedo persa.”

“Sono persa” rispose Giulia, senza nemmeno guardarla in faccia.

“Ma io l’ho vista! Lei abita nella campagna vicino la mia, è arrivata qualche settimana fa ormai.  Ma nessuno l’ha vista in giro. Ha visto che bello oggi? La bella caciara che c’è?” Giulia ascoltava ma continuava a fissare i colori del luogo e il pullulare di vite, come se si stesse nutrendo. Era avvolta da un incanto.

“ Ormai è estate” continuò la donna, mentre Giulia continuava a non rispondere.

“La campana eolica riporta armonia nei cuori e nelle menti, così si dice. Essa guarisce profonde ferite” aggiunse.

Tali parole distolsero la ragazza che si voltò e incrociò lo sguardo dolce e luminoso nel viso rugoso dell’anziana signora, che gentilmente la portò a casa sua e le preparò una buona colazione: pane caldo appena sfornato, burro, marmellata di fichi fatta in casa, latte e un ottimo caffè. Per la prima volta Giulia si sentì a suo agio, in famiglia. La casa di Carmela, questo era il nome della vecchia signora, non era molto lontana da quella di lei. Giulia si sorprese perché non si apriva mai con nessuno, poco anche con sua madre, ma parlare a Carmela era come parlare a se stessa. Le raccontò la sua storia, la sua vita. La canuta signora l’ascoltò attentamente senza giudicare; anche lei era sola, aveva perso il marito ormai da una decina di anni. Viveva con la pensione di lui, nella semplicità, facendo della propria esperienza di vita e delle proprie sofferenze la via maestra per vivere in pace quello che le restava da vivere. Con l’aiuto dei suoi figlie e nipoti, coltivava prodotti biologici che le permettevano di nutrirsi, di pagare le tasse e di sopravvivere nella terra che l’aveva partorita e dove lei sarebbe ritornata dopo la morte. Le due donne parlarono a lungo e i loro colloqui iniziarono a divenire quotidiani e lieti. Oltre alle chiacchiere, Giulia iniziò ad aiutare Carmela in campagna; lì riscoprì la terra, le zolle rosse, le proprie radici, le origini della famiglia, l’amore verso se stessa. Decise di mettere mano anche al piccolo pezzo di terra dei nonni vicino la sua casa, abbandonato e apparentemente privo di vita. Iniziò a zappare, a rimuovere la terra, a toccarla, a seminarla.

Zappava con forza, specie le zolle più aride. In quella forza iniziò a buttare fuori la sua rabbia, il suo rancore, il suo autolesionismo. Si stancava sempre di più. Zappava anche con il sole rovente, sfidando la paura di sfidarsi.

Ad ogni crisi che aveva, lei zappava e seminava ascoltando i suoni, gli odori di una natura che le parlava. Iniziò a riconciliarsi con Madre Terra, iniziò a ritrovarsi, a trovare il coraggio, la volontà di affrontare, di cambiare. Mise tutta se stessa in ogni seme donato alla terra, sciogliendo il ricordo, il dolore, l’abbandono, la sua non vita per una nuova vita.

Le crisi diminuirono e con esse anche il desiderio di farsi del male.

La campagna e il mare le parlavano ogni giorno. Nuova aria nelle narici.

Il ricordo di Giacomo era in lei, ma con esso c’era anche l’accettazione della morte compagna naturale della vita.

“Mamma, domani sono a Milano, starò una settimana, il tempo di chiudere alcune cose sospese. Ti racconterò al mio rientro. Non sono ancora guarita, le ombre a volte sono in agguato, ma ora ho scoperto la mia luce. Non è mai stata colpa tua. Ero, sono io. Ti voglio bene mamma” scrisse Giulia in un sms.

Si guardò allo specchio, per la prima volta si vide bella.

L’estate era ormai trascorsa, l’aria settembrina sfumava i forti colori della terra del sud, la rinascita di Giulia era iniziata.