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IL VIAGGIO di Maribel Plume. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

IL VIAGGIO
di Maribel Plume
Primo Livello- Corso Adulti

“Cosa sto facendo? Dove sto andando? Sto forse incamminandomi verso il reparto di psichiatria più vicino?
Avevo un lavoro. Ok non era un granché, ma mi consentiva di pagare le bollette a fine mese. Avevo anche un piccolo monolocale.
Conducevo una vita apparentemente normale…
Mi sono licenziata. Ho venduto casa.
Oddio cosa ho fatto!
E perchè? Per racimolare più denaro possibile in un progetto delirante.

… Eppure io li vedo, sono reali…”

Questi e altri pensieri rimbalzano, senza sosta, nella testa della giovane Marta, mentre il traghetto, su cui è a bordo, si allontana lentamente dalla sponda.

Il cellulare l’avvisa dell’arrivo di un SMS.
Marta s’impone di non leggere il messaggio. Spegne il telefonino e lo ricaccia in fondo alla borsa.

Un senso d’irrequietezza opprimente le toglie il respiro, il cuore a mille.

Marta s’impone di stare calma.
Inspira. Espira. Inspira. Espira
Un respiro dopo l’altro le pulsazioni tornano alla normalità.
La mente rielabora, come in un montaggio a catena, gli ultimi avvenimenti.

Tutto aveva avuto inizio con la rivelazione di Giacomo.
“Forse non ti amo più”. Queste semplici parole le avevano scatenato, interiormente, una serie di esplosioni a catena.
I tunnel oscuri che, nel corso degli anni, si erano scavati nell’anima di Marta, improvvisamente, si collegarono e il crollo fu inevitabile.

Le pareti del suo castello che, seppur in mezzo a tremendi cigolii, avevano retto, di colpo, crollarono.

Una serie di scelte sbagliate, per far fronte alle esigenze della vita, l’avevano allontanata, così tanto, dalla sua vera natura, che lei stessa stentava a riconoscersi.
Non amava più la compagnia degli amici, tutto le pesava.
Aveva l’impressione di vivere in un paese sconosciuto, con regole a lei ignote e assurde.
Ogni cosa era come se fosse creata per estirparle le ultime risorse di energia.
Non sapeva più chi era, cosa voleva.

Come incolpare Giacomo di non amarla più, quando lei stessa aveva smesso di amarsi da tempo.

Senza riferimenti, Marta era eternamente stanca.

Come una barchetta di carta, in balia delle onde, man mano che si bagna, affonda, anche lei in balia della vita, colpo dopo colpo, affondava in un mare di frustrazione.

Inerme, totalmente incapace di muoversi.
Come un burattino, senza burattinaio che tira i fili, non era nemmeno in grado di alzare la testa.

Un giorno si era imbattuta, quasi per caso, in un vecchio scatolone polveroso, nascosto sopra l’armadio color avorio della sua camera da letto.
Una scritta campeggiava sul coperchio “COSE INELIMINABILI”.

Marta incuriosita l’aveva aperta.

Una coppia di buffe vecchie ciabatte, con tanto di pon pon sulla punta, erano state la prima cosa che aveva visto.
Sotto la suola, una scritta, sbiadita dal tempo, riportava
“Partita di calcio delle grasse contro le magre”.
Nella mente di Marta apparve la scena di una partita di calcio tra due squadre femminili,  LE GRASSE CONTRO LE MAGRE.
Le prime rappresentate dalle nonne, mentre le seconde dalle giovani nipoti.
Che partita esilarante.
Incredibile a dirsi; nonostante le magre avessero più fiato, la mole delle grasse (insieme al rispetto a loro dovuto, data l’età) aveva fatto sì che fossero queste ultime a vincere e la migliore giocatrice era stata proprio la  nonna di Marta. Quelle ridicole ciabatte erano state il suo premio.
Marta ogni volta che le vedeva rideva a crepa pelle; questo era stato il motivo per cui la nonna gliele aveva donate, tempo prima, in un momento di sua profonda tristezza. Come aveva fatto a dimenticarsele?

Sotto alle ciabatte una serie di quadernetti, rilegati in svariati modi.

Marta li aveva  osservati incredula.
Quelli erano i suoi diari!
I suoi diari segreti.
Si era soffermata a leggere alcune pagine.

In un racconto in cui aveva circa nove anni, scriveva così:

Martedì 2 giugno 1982
Caro diario,
ti voglio raccontare quello che ho visto rovistando nei cassetti della mia nonna. Devi sapere che mia nonna abita in una vecchia casa e come tutte queste case ha una soffitta.
Mia nonna, non vuole che io salga, perchè il pavimento è pericolante e non solo esso, ma anche tutta la stanza comprese le scale.
Un giorno, io e mia cugina prese dalla curiosità siamo salite e meraviglia delle meraviglie sai cosa abbiamo visto?
C’erano dei grossi bauli molto belli, un grande cassettone con uno splendido specchio, tante scatole con dentro vestiti, collanine, soprammobili e qua e dei graziosi topini.
Io e mia cugina siamo entrate, senza obbedire alle famose raccomandazioni della nonna, abbiamo cominciato ad aprire i vari bauli e le scatole. C’erano moltissimi vestiti, perciò prima con un po’ di timore poi con il cuore pieno di felicità, abbiamo indossato quei magnifici vestiti. Io ho dato una  spolveratina allo specchio e via.nel mondo della fantasia.
Poi una voce allegra ci ha riportato nel mondo della realtà. Era mio cugino che ci chiamava per giocare. Io e mia cugina abbiamo messo tutto a posto e abbiamo deciso di non dire niente a nessuno della soffitta. Tutto era sistemato, stavamo scendendo quando…

BIM BUM BAM

per sbaglio avevamo messo i piedi nel buco che una volta veniva usato per gettare il fieno nella stalla sottostante. Con una velocità tremenda, senza saperlo, ci trovammo nel fienile. Eravamo spaventatissime, poi però nel guardarci e vedendo le nostre facce siamo scoppiate in una grandissima risata.
In un altro:

Sabato 24 aprile 1982
Caro diario,
oggi ti parlerò dei miei libri di scuola. Devi sapere che non gli sono molto affezionata, perchè se mi dimentico di studiarli, mi rischio una bocciatura completa.
Loro invece sono molto buoni, perchè mi sopportano sempre, senza fare sbuffi e lamenti.
Sanno molte cose e me le insegnano volentieri.
I libri non sono persone, ma talvolta sanno più cose di una persona vera e propria, come ad esempio di me.
Ricordano tutte le date e tutte le cose che ci sono e che sono esistite.
Sono molto docili e si fanno leggere.
A pensarci bene io voglio molto bene ai libri e spero che tutti abbiano occasione di leggerne almeno uno.

Quanta vita in quelle righe scritte con una stilografica blu, dal colore ormai scolorito.

Che bei tempi quelli. Ricordava ancora la serenità della sua infanzia.
In inverno, durante le vacanze natalizie, era solita fermarsi a dormire dalla nonna con i suoi cugini. Alla sera, accoccolati sul divano, al tepore emesso dalla stufa a legna, e con il profumo delle bucce dei mandarini, che si abbrustolivano sulle spire, ascoltavano con adorazione le favole della nonna, da cui ognuno traeva insegnamento.

Marta invidiava la capacità della nonna di utilizzare le parole. Era sempre in grado di alleviare le pene e di farti sorridere.
Sperava da grande di possedere lo stesso dono. La nonna le aveva consigliato di leggere e di scrivere e i diari che aveva di fronte a sé erano la prova del suo impegno.
Attraverso la scrittura, Marta sintetizzava, con ordine, ciò che la vita, di volta in volta, le proponeva; scartando ciò che le era inutile e conservando ciò che invece le sarebbe servito, per crescere forte e saggia.
Come un’enorme biblioteca Marta racchiudeva in sé ordinatamente tutte le informazioni necessarie.

Negli ultimi anni, il ritmo serrato a cui era stata sottoposta non le aveva più consentito di mantenere l’abitudine della scrittura.
La biblioteca, da cui la sua anima traeva forza e ispirazione da bambina, così ordinata allora, si ritrovava ingolfata da una serie di dati, non elaborati, incasellati a casaccio e Marta in preda al caos non riusciva ad attingere forza dalle sue risorse interiori.

Giacomo se ne era andato e il suo lavoro le pesava ogni giorno di più.

Una sera, al rientro da una delle sue estenuanti giornate lavorative, aveva provato un desiderio incredibile di scrivere.
Armata di notes e penna, si era seduta sulla sua unica poltrona a quadri scozzesi posta in prossimità del caminetto.

La vita iniziò a scorrere nuovamente a lei. Un’energia incontenibile la riempì tutta e alla fine esplose. Marta iniziò freneticamente a scrivere.
I pensieri, caoticamente compressi nell’anima, per così tanto tempo, altrettanto caoticamente fuoriuscirono e Marta non può fare a meno che trascriverli, ovunque. Brandelli di carta igienica, bordi di giornale, tovaglioli di carta, sacchetti del pane, tutto andava bene per fissare un pensiero o una storia.

Marta aveva la convinzione che, una volta trascritte tutte le informazioni costipate disordinatamente, avrebbe avuto gli strumenti per comporre, come in un puzzle, i pezzi della sua esistenza.

Le frasi però erano tantissime e non sempre il loro significato era chiaro. Anzi a volte rappresentavano dei veri e propri enigmi e Marta non sapeva spiegarsi l’esigenza di scriverli, comunque.

Ad un certo punto era successa una cosa incredibile. Le frasi scritte iniziarono a comporsi e a creare dei personaggi, in  carne e ossa agli occhi di Marta, completamente invisibili agli occhi degli altri.

Parlavano continuamente, ininterrottamente uno sopra l’altro senza rispettare nessuna precedenza. Ognuno raccontava la sua storia e voleva avere la precedenza sugli altri.
Marta a volte aveva riconosciuto in quei racconti sia stralci della sua vita, sia esperienze vissute da amici o da parenti; altre volte le rammentavano film, racconti di libri o di cronaca che in un qualche modo l’avevano coinvolta.

C’era una tale confusione.

Marta cercava di dare voce ad ognuno di loro. Ma c’era un tale frastuono.

C’era il sig. Frattilus che raccontava i suoi viaggi nel tempo, insieme alla nipote Net.

C’era una bambina, di cui Marta non conosceva il nome, che cercava la sua mamma.

C’era Rodolfo che, nonostante fosse pienamente soddisfatto dal punto di vista professionale, si sentiva così solo.

C’era Luisa che, ogni volta che stava per raggiungere la felicità, buttava tutto a gambe all’aria, perchè incapace di sopportare la tensione.

C’era poi la serie dei personaggi immaginari. Alcuni erano buoni e volevano narrare le loro storie a beneficio dei più piccoli altri erano terribili e Marta ne era terrorizzata.

Nemmeno alla notte riusciva a riposare, perchè spesso le apparivano anche in sogno.

Marta decise di organizzarsi dando ad ognuno di loro un appuntamento ad un orario concordato.

Alle 8,00 Rodolfo
Alle 10,00 Luisa e così via…

Il guaio era che le storie accumulatesi nella testa di Marta erano davvero tante, per non dire troppe, e lei per poterle scrivere aveva bisogno di tempo.

Ecco il motivo del licenziamento e della vendita della sua casa.

Ecco il perchè delle decisione di trasferirsi a casa della nonna, da poco mancata. Con i soldi ricavati dalla vendita della casa avrebbe avuto l’autonomia finanziaria sufficiente per dedicarsi esclusivamente alla scrittura di tutte le storie compresse dentro di lei.

“Ok, adesso che ho riordinato i miei pensieri, forse non è così demenziale , la mia decisione di andare a vivere a casa della nonna, una domenica mattina, alla vigilia delle feste natalizie” con questo pensiero Marta, intorpidita dal tepore e dal rollio del traghetto, con lo sguardo perso tra le acque del lago e gli abeti della costa appena imbiancati dal rigore dell’incedere dell’inverno, si addormenta stremata.

Il taxi, una vecchia Austin FX4 nera, imbuca un maestoso viale alberato.
A bordo un’anziana signora di nome Angelina ammira i colori dell’autunno. Una gamma esplosiva di giallo, rosso e arancione padroneggia quello che fino a poco tempo prima era il regno del verde, che timidamente ancora resiste punteggiando le foglie in alcuni punti.
Un desiderio irrefrenabile assale Angelina.
“Per favore, si fermi un attimo”
Il taxista, un vecchio uomo di colore, ormai avvezzo alle bizzarrie dei suoi passeggeri, lentamente accosta l’auto nei pressi di un grande platano.
Un tappeto di foglie colorate si estende da quel punto fino all’ingresso di un grande parco, per poi scorrere oltre.
Angelina lentamente apre la portiera e altrettanto lentamente scende dall’auto.
Una brezza improvvisa solleva le foglie facendole vorticare nell’aria e intraprendendo una meravigliosa danza.
Angelina, sentendosi il cuore leggero tipico di quando era bambina, inizia a correre nel manto colorato volteggiando come una farfalla. Poi, con il cuore in gola per il grande affanno, si china, riempie la sua borsetta di quante più foglie possibili e con calma ritorna al taxi.
“Grazie, adesso mi può portare a destinazione”

Lo stridio di un gabbiano lontano sveglia improvvisamente Marta.
Sono le 7,30. E’ in viaggio da mezz’ora. Manca ancora un’ora all’arrivo.
Come spesso le accade al momento del risveglio, volti e nomi, così chiari nella fase del sogno, si offuscano, perdono consistenza come in un disegno all’acquarello.  Ricorda una vecchia signora. Il volto è avvolto nella nebbia del sogno, senza lineamenti, eppure il ricordo dona a Marta una serenità intensa, inspiegabile.

Il traghetto attracca in una fermata intermedia. Uno scambio di passeggeri, c’è chi sale, c’è chi scende.
Marta li osserva distrattamente, la mente lontana.
Due ragazzi, seduti accanto a lei, stanno discutendo di politica locale, mentre qualche fila più avanti, due ragazzine parlottano sommessamente. Dalle risate cristalline, Marta immagina che si stiano scambiando confidenze amorose.
All’esterno, sulla prua, un uomo e una donna non più giovani si abbracciano. Quanta tenerezza, quanto amore traspare da quei semplici movimenti rallentati dall’età. Marta ne è commossa.

Sulla sponda del lago due giovani lepri si rincorrono. Il suo pensiero segue il tragitto punteggiato, che le piccole bestiole hanno tracciato nel  candore delle sponde innevate.

Il tempo scorre, avvolto nella nebbia mattutina, tipica delle fredde giornate invernali.

Il traghetto rallenta il suo incedere. Marta guarda l’orologio.
8,25 la sua fermata.

Con calma si alza, prende le valigie e si dirige verso l’uscita.

Estrae il telefonino dalla borsa e lo accende.
Una serie di suoni la informano dei messaggi ricevuti.
Sono tutti di Giacomo.

Compone il numero
“Ciao Giacomo”
“Ciao Marta, ma dove sei finita? Credevo di impazzire. Mi hanno detto che ti sei licenziata e che hai venduto  casa. Ho bisogno di parlarti. Ho bisogno di vederti. Devo chiederti scusa e lo farò fino a quando non avrò avuto il tuo perdono. Come ho potuto dirti quelle cose. Non me lo spiegare. Tu che sei la parte più bella di me. E’ come se avessi avuto bisogno di distruggerla per potere ritrovare me e per poter ritrovare te. Credi che abbia un qualche senso quello che sto cercando di dirti?”
“Sì, in maniera diversa è successa la stessa cosa a me ….” risponde Marta.
“… avrò la possibilità di incontrarti a breve?” chiede timidamente  Giacomo.

Marta riflette, si interroga silenziosamente sulla sua capacità reale di accoglierlo nuovamente. Sì adesso può, adesso è padrona della sua vita. Quindi, dopo un attimo di silenzio, aggiunge “ti ricordi quando ti raccontavo delle  vacanze invernali a casa di mia nonna?”
“Certo, ho sempre desiderato respirare l’atmosfera che mi descrivevi”
“Bene, se vuoi raggiungermi e lì che sono diretta”
Giacomo non parla, ma la tensione iniziale è ormai scemata, con entusiasmo le dice “Fra una settimana è Natale, se non è troppo presto potrei essere da te già alla vigilia …”
“Ok, verrò a prenderti al porticciolo. A presto…”

Marta riaggancia il telefono, la sua vita inizia a ricomporsi.

Nel frattempo il traghetto attracca.
Tra la folla Marta scorge una vecchia signora dall’aria familiare, le sorride.
Un brivido attraversa il corpo di Marta.
Un fiume di lacrime inizia a scorrerle sul viso.
E’ sua nonna.
La sua nonna.

Porta con sé una borsa piena zeppa di foglie colorate.
Improvvisamente Marta ricorda il sogno fatto all’inizio del suo viaggio.
Una vecchia Austin guidata da un uomo di colore.
Un’allegra ragazzina attempata che corre e danza tra le foglie di un grande parco.

Angelina aspetta che Marta le si avvicini, il suo sguardo colmo d’amore  ricopre, come una calda coperta la nipote attonita.

Marta non riesce a parlare le lacrime continuano a sgorgare e un nodo alla gola le blocca qualsiasi suono.

Poi respira profondamente e con la voce strozzata dall’emozione contempla la sua meravigliosa nonna, quanto le è mancata.

“Ciao nonna. E’ stato bellissimo vederti nel parco immersa nei colori caldi dell’autunno” le dice accarezzandole teneramente il braccio.
“E’ il parco in cui mi sono innamorata di tuo nonno.
Quei colori mi hanno riscaldato per tutta la vita. E ora voglio donarli a te.
Posso rimanere per poco, il taxi mi sta aspettando. Pensi di avere tempo per me?”

“Sempre” risponde Marta piena di riconoscenza, sa che ora, con l’aiuto della sua nonna, tutto andrà per il verso giusto.
Sorridendo la prende timidamente per mano e dice: “è meglio affrettarci, non resteremo sole a lungo; sai la tua casa sarà piuttosto popolata, nei prossimi giorni…”
“Lo so bambina mia” risponde la nonna. Poi accarezzandole dolcemente i capelli, come quando era piccola aggiunge “Vieni il viaggio è stato lungo e tutte e due ci meritiamo una buona tazza di the.”

LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
. Secondo livello Bambini. Corso di scrittura online

LO SCONOSCIUTO di Francesca Arcangeli
Corso Bambini- Secondo Livello

Era una sgargiante serata di fine ottobre. Il cielo aveva sfumature rosso cremisi e gli ultimi uccelli svolazzavano allegri verso il proprio nido. Passeggiavo per una vecchia strada di campagna fatta di sporco e consunto asfalto, per una destinazione a cui non dovevo neanche pensare. I miei piedi l’avevano percorsa così tante volte nell’estate che ormai ci avevo fatto l’abitudine. Un leggero ma gelato vento scompigliava i miei capelli gettandoli all’aria e il mio naso iniziava a congelare, ma ero troppo presa dai miei pensieri per badarci, pensieri così complicati che avrebbero mandato in tilt chiunque. La scorsa notte infatti avevo fatto il solito sogno ricorrente, ormai era un abitudine ma mi colpiva lo stesso e nel frattempo mi irritava, si mi irritava perché tutte le volte che lo facevo avevo la sensazione di essere vicina a scoprire qualcosa e che, all’ ultimo momento, mi sfuggiva. Nel sogno mi trovavo in una stanza, aveva le pareti strette e dal soffitto proveniva un illuminazione a luce violetta, senza però bisogno di un lampadario o delle lampadine per estenderla. Il pavimento era di sabbia e non c’erano finestre o porte, a eccezione di una piccola porticina fatta di marmo bianco. Nel sogno mi avvicinavo alla porta e la spalancavo. Dietro la porta trovavo un’ altra stanza, la pareti coperte di antichi ritratti di dame e cavalieri in armatura ma non era lì che dovevo andare, avevo la sensazione di dover andare urgentemente avanti. Passavo un’altra porta, questa volta di legno laccato, e giungevo in un’altra stanza, questa volta rotonda e guardavo su, sul soffitto, dove era raffigurato un sole dorato e rifinito perfettamente congiunto con una mezza luna di un bianco splendente che emanava come un magico bagliore e, dopo questa scena, il sogno finiva. Il bello era che quel simbolo mi ricordava qualcosa ma ogni volta che cercavo di ricordare c’era come una foschia nel mio cervello, come un buco vuoto. Avevo cercato quel simbolo da tutte la parti, su tutti i libri di miti e leggende su cui riuscivo a mettere le mani e tutti quelli che i miei genitori non mi confiscavano. Ma dopotutto loro non erano i miei veri genitori. Avevo vissuto per un anno insieme a mia nonna, l’unica mia parente ancora in vita e quando anche lei morì mi trasferì dal fratello di mio papà, non che non avessi potuto andarci anche prima ma la nonna voleva tenermi con se, diceva che loro non capivano quanto ero importante. Anche solo la parola suonava strana, importante come no, i miei zii neanche mi guardavano. Tutti mi trattavano come se non esistessi e io non mi sono mai lamentata, anzi, a me faceva piacere. L’unica che mi considerava, purtroppo, era la figlia dell’ amica-vicina di casa di mia zia, che non la smetteva mai di prendermi in giro perché non avevo i genitori. In realtà della mia vera madre e del mio vero padre non sapevo veramente nulla, erano scomparsi così senza lasciare traccia o almeno era quello che mi diceva sempre la nonna, eppure vedevo una strana luce nei suoi occhi quando ne parlava, una luce di nostalgia. Avevo camminato per metri e metri senza accorgermene, come sempre. Erano quasi le sette e decisi di svoltare per tornare a casa, la zia si sarebbe arrabbiata ancora di più se avessi fatto tardi per la cena. Tornavo in dietro lentamente come sperando che più tempo rimanevo su quella vecchia strada meno ne passavo nella villetta dei miei zii. Una speranza inutile, lo sapevo già, tanto avrei dovuto passarci una vita intera! Svoltai all’angolo sbagliato e mi trovai in vicolo cieco. In fondo c’era una figura bassa e incappucciata, si avvicinò zoppicando vistosamente e riuscì ad intravedere appena il suo volto alla luce del tramonto. Era un uomo anziano, una cicatrice gli partiva dall’occhio destro fino ad arrivare alla piccola bocca storta e sottile. Aveva la pelle rovinata dal tempo e mi fissava con due piccoli occhi rotondi e neri come la pece. Solo quando fece un altro passo zoppicante in avanti mi accorsi che era vestito in maniera alquanto strana: portava un cappello a bombetta rosso acceso che non si intonava molto ai suoi capelli di un biondo sporco lunghi fino alle spalle. Le sua maglia era piena di strappi e cuciture, di un verde foresta e era abbinata malamente a dei pantaloni lunghi e neri rattoppati con stoffe di diversi colori come verde acido o blu notte. Qualunque persona normale di testa sarebbe scappata via urlando, ma non io, io rimasi lì a fissare quell’uomo dall’aspetto spaventoso, guardando il suo volto duro e solcato dalle rughe e dal tempo ma che, dietro a quegli occhi, nascondeva ancora qualcosa di umano. All’improvviso parlò con una voce dura e rauca: << Allora ragazza tu sai perché sono qui vero?>> mentre parlava si avvicinò ancora di qualche passo.
<>, sinceramente non ne avevo proprio idea. Non l’avevo mai visto, figuriamoci se sapevo che cosa ci faceva lì. Magari era un vecchio parente? Impossibile, me lo sarei ricordato: guarda com’era vestito! Frugai nella memoria ma alla fine mi arresi al fatto che per me era un perfetto sconosciuto e che non sapevo per quale assurda ragione si trovasse in un vicolo buio, di notte e per giunta stesse parlando con me.
A quanto pare interpretò il mio silenzio come un no perché aggiunse un po’ spazientito: << Bene, allora mi toccherà spiegarti tutto dall’inizio. Sai almeno chi sei?>>
A questo punto ero un po’ confusa, forse aveva preso una botta in testa o quella stupida bombetta gli bloccava la circolazione? Certo che sapevo chi ero! Stavo per rispondergli ma mi interruppe: <> disse con un tono di voce che sfiorava l’esasperato.
<< Tu sei un lupo.>>.
Si, a questo punto era chiaro che aveva preso una bella botta in testa. Prima che potessi dire qualcosa, però, mi interruppe di nuovo e disse: <> si frugò nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un amuleto. Quasi urlai dall’eccitazione: attaccata a un piccolo filo d’argento c’era l’immagine dei miei sogni, un sole dorato congiunto con una luna brillante. Notai poi che anche lui aveva lo stesso medaglione, ma cosa significava? Forse aveva veramente ragione, ero davvero un lupo? Ormai tutto era possibile. Lo presi tra le mie dita tremanti e me lo infilai al collo, l’effetto fu immediato. Di colpo mi sentì forte e non più fragile come ero prima. Una bellissima sensazione di libertà mi invase da capo a piedi.
<> all’improvviso si trasformò in un grosso lupo marrone e sparì correndo per la strada ormai illuminata solo dal chiaro della luna. Il giorno dopo lo rincontrai e il giorno dopo ancora e, dopo una serie di dettagliate istruzioni, decisi che la sera del giorno seguente avrei provato a trasformarmi.
Così, a mezzanotte di sabato, corsi fuori e andai in un bosco lì vicino. La luce della luna si risplendeva nei miei occhi preoccupati. Magari era stato tutto uno scherzo, impossibile, lui si era trasformato no? Mi concentrai, come aveva detto lui, su un ricordo sereno, il più bello che avessi mai concepito. Pensa, pensa e poi un’ immagine mi venne in mente: la foto dei miei genitori nel salotto della nonna tanti anni prima, sorridenti e felici. Un istante prima ero lì a pensare e un istante dopo correvo. Le mie zampe grandi e bianche come la neve solcavano il terreno veloci e sicure, i tagli dei rovi si rimarginavano subito e sentivo delle voci nella mia testa, dei sussurri. Dopo un po’ che gli ascoltavo capì che erano pensieri, pensieri di persone vicine e lontane da me. Quindi riuscivo a leggere nella mente, ecco il mio potere unico. Mentre provavo a concentrarmi su un singolo pensiero per ascoltarlo scorsi il mio riflesso in un laghetto lì vicino: una grande, bellissima lupa bianca come la luna mi restituiva lo sguardo fiero e poi un ululato lacerò la notte, il mio ululato, un urlo di trionfo per il fatto che finalmente non mi sentivo più fuori posto, che finalmente ero libera. Nelle settimane seguenti appresi che esisteva un posto dove tutti i muta-forma vivevano insieme. Lasciai la mia vecchia e odiata casa per raggiungere quel luogo, un luogo in cui c’erano persone che mi accolsero come un’amica. Il vecchio che avevo conosciuto mi seguì, restammo amici per sempre perché lui mi aveva dato una mano, lui mi aveva portato in un mondo dove finalmente mi sentivo a casa, il mio mondo, il mondo da dove non sarei mai uscita.

Francesca Arcangeli

LA CASA DEI MISTERI di Isabel Sacchetti. Primo livello Bambini. Corso di scrittura online

La Casa dei Misteri di Isabel Sacchetti

Corso di scrittura bambini – Primo Livello

 

Siamo a Londra nel 1871.
A ovest, nascosta alla città dagli alberi di Regent’s Park, c’era una casa che tutti chiamavano “Casa dei misteri”.
Era una villetta con tante stanze: due camere da letto con letti a baldacchino, due comodini di legno e vecchie lampade a gas, un ampio salotto con un camino sporco di cenere e c’era anche un grosso divano con la copertura blu bucata, due sedie di pelle ormai graffiata, una grossa soffitta polverosa con nascoste strane mappe e lenzuoli strappati, una scala portava giù in una grande cucina, con un ghiacciaio una dispensa con dentro solo farfalle e insetti morti e una scatola di pane ammuffito. Un’altra immensa scala  portava ad altre stanze sempre chiuse a chiave con delle porte di legno  diroccate. Fuori c’era un grosso cortile d’erba con pochi alberi morti e fiori secchi anche in piena estate.
La chiamavano casa dei misteri perché, ogni notte, a mezzanotte in punto dalla casa provenivano ululati e rumori sinistri, che spaventavano la città.
Era abitata da un vecchio fantasma che stava in soffitta tutto il giorno e faceva altri rumori che la gente non gradiva affatto.
Un giorno iniziò a girar voce che qualcuno sarebbe andato ad abitare in quella casa, e infatti qualcuno arrivò. Era una famiglia, composta dal signor Bartolomeo Wordigan, da madam Maria Mistrò e da un bambino curioso di nome Fabian Wordigan. Il signor Wordigan era una persona un po’ cicciotta con pochi capelli ed era molto spiritoso, la signora Mistrò era una signora magra coi capelli corti biondi e ricci, pensava sempre in modo positivo, come si vedrà nel corso della storia e il signorino Fabian era  un bambino alto con capelli castani e con una personalità veramente vivace. Tutti li guardavano male, perché nessuno era mai andato ad abitare in quella casa.
Appena entrarono una nuvola di polvere gli coprì gli occhi e quando riuscirono a riaprirli davanti a loro si presentò uno spettacolo tremendo: tavoli e sedie ribaltate, vasi di fiori rovesciati, acqua dappertutto, perfino topi che zampettavano e si infilavano nei buchi della parete.
Ma madame Mistrò non si scoraggiò e disse in tono solenne: -Noi la rimetteremo a posto e scacceremo via tutti quei brutti topastri!-. Bartolomeo Wordigan e Fabian non erano tanto convinti ma annuirono lentamente con il capo.
La casa era un vero disastro e per riordinarla correttamente ci sarebbe voluta almeno una settimana e madame Mistrò ne era consapevole.
Quel curiosone di Fabian andò subito ai piani superiori  a sbirciare le stanze chiuse a chiave e quando provò ad aprirle e  le trovò chiuse ci rimase molto male. Allora sbirciò nel buco della serratura e vide una cosa che lo colpì molto: da una parte lo spaventava e dall’altra lo incuriosiva sempre più.
Dentro la stanza c’era nientemeno che…….una grossa sfera rossa che lampeggiava ad intermittenza, poggiata su un tavolo di legno d’ebano. Appena la mise a fuoco subito distolse lo sguardo dalla sfera, o meglio dire cercò di distogliere lo sguardo dalla sfera. Era come se quella sfera lo tenesse imprigionato lì, per punirlo di aver  ingordamente  spiato dalla serratura.
Intanto ai piani bassi, madame Mistrò  e suo marito stavano cominciando a rimettere in ordine la casa partendo dal salotto. Erano le 20,00 quando avevano appena finito di spazzare la polvere e tirare su l’acqua e i vasi rovesciati e gli venne fame. Decisero di mangiare del pane con spalmato del pomodoro e dissero:- Fabian vieni a mangiare!- Fabian sentì ma non riusciva a parlare perché quella sfera lo teneva imprigionato lì a guardarla. Quando Maria andò a cercare Fabian e lo vide imprigionato lì mancò poco che svenne. Chiamò suo marito e insieme decisero di chiamare il dottor Buramon, che era specializzato in: casi senza ipotesi. Era molto ricco ed abitava a Kensington.  Il dottor Buramon era un vecchio signore coi capelli bianchi, gli occhiali quadrati e due baffetti anch’essi bianchi. Portava un camice bianco con una taschina da dove spuntavano un block-notes e un tappo di biro che lui portava sempre con se. Appena arrivato alla casa rimase sbalordito dal disordine ma fece finta di non notarlo.
Quando vide il bambino attaccato alla sfera lo staccò con la forza  e vide che i suoi occhi erano rosso sangue fissi sulla serratura e il corpo tremava tutto. Gli diede subito una medicina di nome: “Scindie  per casi disperati”.
Poi disse ai genitori: – Fra qualche ora tornerà come prima- questa frase rassicurò  madam Mistrò e il signor Wordigan, ma non li tranquillizzo del tutto.
Un  paio d’ore dopo come previsto Fabian si svegliò e si promise di non spiare più nel buco della serratura.
Scese e trovò il dottor Buramon che parlava coi suoi genitori, si nascose sotto la scala per ascoltare senza essere visto. Stavano parlando del fatto che in giro per la città girovagava un vagabondo; nessuno sapeva il suo nome si sapeva solo  che abitava a  Lambeth.  La mattina dopo Fabian uscì per dare un’occhiata alla sua nuova città. Stava passeggiando a Leicester Square quando si scontrò con una bambina – Ciao io sono Penny, Penny Lisley. E tu?-  chiese la bambina. – Io sono Fabian Wordigan, piacere di conoscerti Penny.- Penny Lisley era una bambina alta con dei  capelli corti biondi, due grandi occhi marroni e delle lentiggini marroncine. Lei era molto originale, si vestiva stravagante anche se i suoi  genitori erano molto ricchi. Penny era molto simpatica e chiese: – Oggi posso venire a casa tua?-  -Certo! Dai vieni, non abito molto lontano.-
Appena Penny arrivò davanti alla casa  per poco non urlò poi chiese:-Ehm tu….abiti qui?-
-Sì- rispose Fabian – La mia mamma l’ha messa a posto insieme a mio papà, ora e bella, oggi volevo vedere il fantasma. Ti va?-  Penny annuì e con un po’ di timore entrò con il suo nuovo amico nella casa.

Fabian entrò e disse:- Mamma ho una nuova amica- Penny e madame Maria si presentarono e andarono subito molto d’accordo, tutti insieme bevvero una cioccolata calda, senza papà perché era andato a Pentonville a cercar lavoro.
Penny e Fabian andarono  in soffitta a cercare il fantasma, quando salirono e non lo trovarono stavano per tornare indietro quando eccolo lì sbucare fuori! Era proprio trasparente, aveva un mantello e aveva due grossi baffi. Penny e Fabian urlarono e scapparono di sotto.
La mattina dopo Fabian si alzò di buon ora e andò a suonare a casa di Penny. Lei scese subito e insieme andarono a passeggiare a Trafalgar Square. Fabian raccontò che il fantasma era sparito ed aveva infestato un’altra casa. Penny batté le mani  felice.
Poi però videro il vagabondo, iniziarono a correre verso la casa di Penny ma lì c’erano troppe carrozze e non si riusciva a passare andarono allora verso la casa dei misteri entrarono chiusero il chiavistello e raccontarono tutto a madame Maria Mistrò che li fece sedere sul nuovo divano a bere una tazza di thè. Poi videro a parlare con il signor Wordigan  il dottor Buramon, ma in un angolo della cucina c’era il vagobondo legato e imbavagliato anche il signor Bartolomeo era legato alla seggiola chiamarono madame Mistrò che appena vide la scena svenne.
Il dottor Buramon fece una risata maligna e gli occhi gli uscirono fuori dalle orbite.
Poi si gettò al loro inseguimento, Penny e Fabian scapparono corsero dentro Hyde Park  si nascosero dietro un albero sperando che non li vedesse. Ad un  tratto arrivò una carrozza con uomini armati che presero il dottor Buramon e dissero:-Lui è un ricercato, è pazzo e andrà dritto in prigione- poi ringraziarono i bambini di averlo scovato e rientrarono nella carrozza.
Fabian e Penny tornarono a casa liberarono il signor Wordigan, risvegliarono madame Mistrò  e liberarono anche il vagabondo che si scoprì che si chiamava Umberto Daing, era una persona normale tutti lo chiamavano così perché viaggiava sempre e  rivolgeva la parola in modo brusco a chi gli chiedeva informazioni, poi tornò a casa sua dove c’era ad aspettarlo il suo cane.
La settimana dopo il signor Bartolomeo tornò a casa felice dicendo di aver trovato lavoro come cocchiere, Penny e Fabian diventarono molto amici e la città non considerò più ne la famiglia ne Umberto strani.
Il giorno dopo la regina li chiamò per ringraziarli di aver risolto il caso e gli regalò un servizio da thè. Tornando a casa Fabian disse:-Secondo me, incontreremo altri misteri in questi anni- -Hai ragione. Però noi naturalmente li risolveremo!- e tutti e due si misero a ridere.

 Isabel Sacchetti

LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia ( i racconti dei corsi on line)

LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia

Corso Bambini – Primo Livello

Elize sbatté con furia l’anta dell’armadietto, che protestò cigolando.
“Un giorno o l’altro si rompe“, esclamò Agnes, la sua graziosa amica che se ne stava due armadietti più in là.
Elize proprio non la ascoltò. Era colpa sua, e lo sapeva, se le avevano rifilato l’ennesimo cinque di storia, ma…la prof interrogava sempre lei! E poi ci si mettevano anche Kate, Stefania e il loro seguito ghignante: Elize proprio non le sopportava.
Proprio mentre ci pensava, le due Miss Popolarità e la sorellina di Kate, Beth, passarono nel corridoio con aria di superiorità, portandosi dietro un’ondata di quel loro nauseante profumo Sensuality. Elize fece in fretta, afferrò i libri di francese e algebra e intercettò la camminata da pop star delle due, frenandone l’avanzamento nel corridoio.
“Che vuoi?”, chiese Stefania scostandosi con finta noncuranza una ciocca bionda dal viso.
A Elly era venuta un’idea, non ne poteva più dei soprusi di quelle due, e poi era una stupidaggine da bambini, suo fratello ne parlava da tempo. “Vorrei proporvi una cosuccia”, disse con lo stesso tono falso e mellifluo di Stefania, “ovvero andare nella vecchia casa Cronwell, vicino al bosco. Avete il coraggio di…farci una visitina?”.
Tutti quelli che stavano passando nel corridoio si fermarono ad ascoltare, avevano colto tutti le parole di Elize che, dal canto suo, si trovò con un’aria soddisfatta dipinta in volto: Stefania era impallidita, e Kate le strattonava una manica come una bambina: “Dille di sì, Stefy, dille di sì!”, Stefania riprese colore e un’espressione strafottente e presuntuosa, “certo, che roba da bambini…ti sei rimessa a sentire le storie di fantasmi dalla mammina, Elize?” – poi fece una pausa “ad effetto”, falsa e impostata come nei film, e proseguì, “domani pomeriggio, alle sei, bambinetta. E se te la fai sotto portati dietro l’amica”. Poi rise sprezzante insieme a Kate, mentre si allontanavano nel corridoio, il rumore dei tacchi più sonoro che mai in mezzo alla calca di studenti ammutolita.

***

Elize e Agnes arrivarono qualche minuto dopo Stefania e Kate, seguite da una folla di ragazzi della scuola.
Si fermarono tutti ai piedi della collina: gli altri ragazzi perché non avevano il coraggio di proseguire, le quattro ragazze perché dovevano decidersi sulle regole della sfida. Elize e Agnes si fermarono davanti alle altre due ragazze. “Orologi sincronizzati: mezz’ora là dentro e poi usciamo “, disse Stefania, “sempre che voi due bambolotte non ve la facciate sotto prima”. E giù a sghignazzare con Kate.
Elly, però, non aveva nessuna voglia di scherzare: “Stefania, fai veramente ridere e la sfida che hai proposto è da poppanti. Io dico un’ora, a meno che dopo un quarto del tempo voi due non siate già schizzate fuori urlando come oche”.
“E un’ora sia”, esclam Kate, “vince chi resiste per tutto il tempo dentro, ma per noi sarà veramente un giochetto”. Elize ficcò le mani nella tasca del giaccone e seguì Agnes su per il dolce pendio della collina.
La casa dei misteri, così come la chiamavano tutti, era in cima, sul punto più alto. Aveva un aspetto inquietante già da fuori: non sembrava vecchia e decrepita ma appena costruita e abbandonata. Le finestre erano sbarrate con assi marce e chiodi arrugginiti, ma i cardini erano argentati e lucidi. Il portone di legno dimostrava tutti i suoi secoli, però incuteva ancora timore col battacchio a forma di lupo.
“Ci sono cento stanze e cinquanta scaloni giganti, con una botola a ogni gradino che può farti sprofondare negli abissi”, pensò Elly con un groppo alla gola, fissando la casa e ricordando le parole del fratello – nelle camere i fantasmi dei vecchi abitanti dormono nei letti – “Sono stupidaggini, roba da bambini. Stefania e Kate perderanno”, si rassicurò cercando di non avere paura. Poi, mano nella mano con Agnes, spinse il portone che si aprì emettendo il rumore più sinistro e spaventoso che essere umano avesse mai udito.
Elly e Aggy balzarono indietro spaventate, mentre Stefania e Kate se la ridevano contente.
Appeso su un gancio sulla parte superiore della soglia, c’era uno spettrale fantoccio fantasma. Era un vecchio lenzuolo dipinto con gli acrilici, uno scherzo di quelle due vipere. Elly sbuffò e rise: “E’ tutto quello che sapete fare?”. Kate si girò e fece una linguaccia, poi entrarono e richiusero il portone vedendo l’ultimo sbuffo di luce scomparire dietro il legno scuro.
“Agnes, ci sei?”, chiese Elize cinque secondi dopo.
“Sì, sono qui…c’è pochissima luce”, sussurrò Agnes spiegando che le altre due erano andate verso destra.
“Allora noi prendiamo quest’altro corridoio. Se troviamo una stanza dove poterci sedere ci fermiamo lì…seguimi”, Elize era decisa.
Si presero per mano e mossero qualche passo nel corridoio. La casa sapeva di muffa e sapone rancido, un odore dolciastro e vanigliato da vomito. Le assi del pavimento scricchiolavano ad ogni minimo respiro, e Elly si sforzò di non pensare ai topi. Aveva immaginato che quello fosse veramente un posto da bambini, ma non era così. Le veniva una voglia tremenda di urlare, urlare che voleva uscire di lì…ma sapeva di poterlo fare: Kate e Stefania avrebbero vinto.
Si trovarono quasi subito davanti a una scala mezza marcita, con un tappeto rosso bordato d’oro consunto e mangiato dalle tarme. Un tempo doveva essere stato bellissimo, rosso fuoco e splendente, ma ora era poco più di uno straccio appiccicato al legno. Elize sfiorò il mancorrente con mano incerta, quello vacillò e Elize si sentì sollevata in aria: aprì gli occhi e in un mare di luce accecante e violetta, vide in un lampo l’antico splendore della maestosa scalinata: il tappeto lustro e luccicante, l’oro dei bordi perfettamente coordinato.
Il mancorrente in legno era talmente lucido da sembrare marmo, e un lampadario di meraviglia indescrivibile troneggiava in cima più abbagliante di una palla da discoteca. Elize allungò una mano, ipnotizzata, ma crollò subito a terra, contorcendosi sul pavimento. Quando si mise a sedere, cercò la mano di Agnes accanto alla sua: “Cosa…cosa è successo? Hai visto anche tu?”, esclamò allarmata. Ma Elly si accorse di non avere stretto la mano di Agnes, ma un pezzo di stoffa sul pavimento. Lo avvicinò il più possibile agli occhi, in modo di vederlo il meglio possibile. Era una stoffa scarlatta e lucida, come dell’acqua limpida e pulita in un mare di petrolio. Elly doveva averla strappata quando aveva allungato la mano, ma com’era possibile? Quella visione non era reale, solo un brutto gioco dell’immaginazione. Elize raccolse il pezzo di stoffa  e si alzò in piedi: magari Agnes aveva proseguito credendo che lei la seguisse, mentre era lì tra le sue fantasticherie…e, guardandolo bene, si accorse che in fondo quella stoffa non aveva niente di speciale. Era un po’ meno consunta di quella del tappeto, questo sì, ma dimostrava lo stesso una certa età.
Corse su per la scala e chiamò Agnes per un po’, poi, senza nemmeno pensarci, si fiondò dentro la prima porta che aveva di fronte e fece cadere per terra la pezza di tessuto che aveva in mano. Nello specchio enorme e antico di bronzo che le stava davanti era riflessa l’immagine di…Agnes! E appena si avvicinò, la figura trasparente di una ragazzina spuntò fuori dal muro. Aveva i capelli rossi e a boccoli, acconciati in modo perfetto, e un vestito verde polvere molto all’antica, ancora con la crinolina. Elize avrebbe voluto urlare, ma non ci riuscì perché si accorse che quella ragazzina era identica a lei!
“Chi sei?”, chiese, rivolta alla sua sosia.
”So che è difficile crederlo, ma io sono un fantasma…e tu sei la mia pro-pro-pro-pro-pro-pro nipote. Tu sola hai il permesso di entrare in questa casa, è per questo che ho fatto prigioniera lei. Ce ne sono altre due, vero?”, disse la ragazza-fantasma.
“Ammettiamo che io ti creda, anche perché faccio fatica a pensare che sia uno scherzo della mia immaginazione, tu fluttui! Comunque, come ti chiami?”, domando esterrefatta Elize.
“Il mio nome è  Elizabeth”,  rispose, “e tu devi credermi, è vero quello che dico. C’è una…cosa, legata a questa casa, ma io non posso occuparmene, sono segregata qua…ed aspettavo il momento in cui tu saresti venuta, per affidarti questo compito. Ma prima devi andartene, e anche in fretta: non sono l’unica che abita qui.”
“Libera Agnes!”, disse Elly con aria di sfida.
“Lo farò, antenata, ma tu devi promettermi che tornerai…ho bisogno di te!”, supplicò Elizabeth.
“Va bene, tornerò appena mi sarà possibile…ma tu potresti farmi un favore?”, e così dicendo bisbigliò all’orecchio del fantasma alcune parole.

***

Dopo alcuni minuti Agnes ricomparve come se nulla fosse successo. Assieme a Elize si era messa sulla soglia della casa, mentre Kate e Stefania correvano via gridando come pazze: il fantasma aveva fatto ciò che Elize aveva chiesto. Le aveva proprio terrorizzate.
Era dunque ovvio chi aveva vinto la sfida!
Elly diede il cinque ad Agnes e, girandosi verso l’interno, fece l’occhiolino alla sagoma appena visibile di Elizabeth sussurrando: ”Tornerò…”

Yinger e l’Antico Tomo di Teresa Di Gaetano (Corso Adulti – Secondo Livello)

Yinger e l’Antico Tomodi Teresa Di Gaetano

Corso Adulti – Secondo Livello

“Signora Aduial, Yinger, posso entrare?” si udì la voce di un ragazzo che Yinger riconobbe quasi subito, anche da dietro la porta: era Aless, il suo amico di infanzia.

Quando entrò la vide inginocchiata vicino a letto della nonna, in lacrime le teneva la mano.

“Yinger, cosa è accaduto?” chiese avvicinandosi e cingendole le spalle.

Lei lo scacciò seccata: “Và via – gli intimò – non ti riguarda!” di tutte le persone che avrebbe voluto vedere in quel terribile istante, Aless era l’ultima.

“Cosa è successo a tua nonna?” incalzò, posandole una mano sulla spalla.

Ma lei non rispondeva, a stento tratteneva i singhiozzi.

“Sta molto male” rispose con un filo di voce la ragazza.

Vedere Yinger in lacrime gli dilaniava l’anima e il cuore.

“Cosa posso fare per te?” disse inginocchiandosi, ma lei volse lo sguardo dell’altra parte.

“Non hai sentito cosa ti ho detto? Và via!” e riprese a singhiozzare.

Aless guardò attorno nella stanza, sentendosi inutile, si diresse verso la porta.

“Sappi che qualunque cosa tu abbia bisogno, io ci sarò” e uscì.

Mentre percorreva il piccolo corridoio della casa, Aless udì voci di bambini che correvano felici tra i vicoli. Rivide quando loro erano piccini e facevano le gare per salire sull’albero più grande della piazzetta della loro bella città Corallo d’avorio. Yinger era sempre stata più agile di lui e arrivava sempre per prima in cima.

Incerto posò la mano sulla maniglia. E il suo dolce profumo alla vaniglia buonissimo, gli penetrava l’anima. Si richiuse la porta dietro le spalle.

***

Nonna Aduial aprì un pochino gli occhi e poi con flebile voce bisbigliò: “Ti devo dire alcune cose, Yinger.”

La ragazza alzò lo sguardo verso la vecchia.

“Dimmi tutto, ti ascolto” si portò la mano dell’anziana sulla guancia in segno di affetto.

“E’ un segreto della nostra famiglia.” Iniziò a raccontare nonna Aduial.

Nel camino, nel frattempo, crepitava il fuoco.

“Io sono una maga. Da tre generazioni le donne della nostra famiglia lo sono. Tua nonna Aranel e prima ancora la tua bisnonna Alatariel avevano dentro il sacro fuoco della magia che ardeva nelle loro anime. Ma hanno conservato il loro segreto e lo hanno svelato alle loro figlie solo in punto di morte.”

Yinger a quelle terribili parole le strinse più forte la mano.

“Ed ora è giunto il momento di svelarti il mio segreto e il tuo che dovrai custodire fine alla fine dei tuoi giorni!” ebbe un rantolo ed Yinger si alzò di scatto dalla sedia.

“No… non ti preoccupare: è solo una fitta, passerà. Ho giusto il tempo di dirti quello che devi sapere.” Cercò di porsi a sedere, ed Yinger l’aiutò sistemandole il cuscino dietro le spalle.

“Se studierai apprenderai la forza dei quattro elementi: l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra. Gli elementi, i quattro, sono tuoi alleati. Devi imparare a domarli al tuo volere.”

Yinger si stupì di quello che stava ascoltando e così annuì mentre le lacrime continuavano a scendere.

Per Yinger nonna Aduial era sempre stata una mamma, perché l’aveva allevata come una figlia.

“Nonna – cercò di rincuorarla – vedrai che ti riprenderai!”

“No! ormai è giunta la mia ora. Sono troppo vecchia per vivere, ma tu, nipote cara sei sempre stata la mia prediletta. E’ giusto che adesso conservi tu il segreto di famiglia. Vai allo scaffale di quel mobile ed apri il cassetto.”

Yinger fece quanto le stava dicendo l’anziana, così si diresse verso il comò ed aprì un cassetto. Il primo.

“Cosa vedi?”

“C’è un bastone” rispose incerta Yinger.

“Prendilo!” la esortò la vecchia.

Yinger lo afferrò e in quello stesso momento il bastone non solo si illuminò, ma si allungò. Il bastone terminava con una spirale con al centro un grande smeraldo di forma ovale.

“Che bello!” esclamò entusiasta.

“Questo è il mio bastone, adesso è tuo. Se dirai lucem comparirà oppure scomparirà.”

“Come… come fa a riapparire?”

“Una volta impugnato ormai ha preso la tua impronta. Non hai visto che si è illuminato?”

Nonna Aduial tossì forte.

“Questo vuol dire che se qualcun altro lo tocca, può portarmelo via?”

“Solo se è un mago come te,” rispose l’anziana con un po’ di affanno.

Lucem!” disse a voce alta Yinger e il bastone scomparve immediatamente.

“Vai verso quella libreria, ora” e le indicò la libreria addossata al muro, vicino alla finestra.

Yinger guardò i dorsi dei libri con curiosità.

“Prendi quello nel secondo scaffale, il secondo a destra.”

Yinger ubbidì. Il tomo si rivelò un po’ più grande di quello che dava a vedere messo in ordine nella libreria.

“Questo è l’Antico tomo della Biblioteca di Akyab. Da tre generazioni viene conservato nella nostra libreria. Il tuo compito è di portarlo… – e tossì un’altra volta – portarlo di nuovo là!”

“E perché mai?” domandò la ragazza.

“La città di Akyab vivrà un momento terribile, e solo un mago potente, se non potentissimo, può usare gli incantesimi del libro. Per la salvezza di questo popolo devi portargli il libro. Ho visto, infatti, cosa sarebbe accaduto senza quel libro!”

La nonna tacque. Chiuse gli occhi ed Yinger si avvicinò velocemente all’anziana, pensava che si era addormentata. Invece, la donna aprì gli occhi spalancandoli all’improvviso. Yinger la vide tremare.

“Non ho ancora finito,” sembrò supplicare con voce tremante.

“Yinger vai vicino al mio comò di nuovo. Proprio sopra, troverai uno specchio magico.”

La ragazza lo prese subito e ci si specchiò, mentre nonna Aduial continuava a parlare con voce rauca: ”Con questo potrai evocare la forza della luce. Basta che dirai Lux splendentis.”

Di nuovo l’anziana rantolò, gettò la testa all’indietro sul cuscino e con la bocca aperta respirò affannosamente.

“Nonna!” si gettò tra le sue braccia Yinger.

“La mia collana… prendi anche la mia collana. E’ un amuleto… avrai così il potere di evocare gli spiriti dei morti.”

L’afferrò per le braccia, come se volesse scacciarla. “Non puoi impedirmi di andarmene. Stai molto attenta. Devi ancora sapere che hai una sorellastra, il suo nome è Tinie. Lei farà di tutto per toglierti il Tomo antico, e poi perché ti considera responsabile della morte di vostra madre. Ma tu proteggilo anche con la tua stessa vita!”

Detto questo esalò, lasciando Yinger interdetta.

“Nonna!” esclamò a voce alta la ragazza.

Sua nonna, la sua cara nonna era morta! Yinger vide tutto il suo mondo crollare: che cosa avrebbe fatto senza di lei? Già non aveva più una madre, e adesso aveva perso quella che fino ad allora era stata come una madre per lei. Pianse calde lacrime.

In quel mentre entrò di nuovo Aless: aveva dimenticato il suo cappello ed era tornato per riprenderselo. Quando vide che Yinger singhiozzava, si avvicinò alla ragazza, con il cappello tra le mani.

“Le daremo degna sepoltura,” disse Aless.“Non ti preoccupare.”

Poi perse i sensi, il troppo dolore le aveva dato un senso di vertigine. Anche perché la sua vita d’ora in avanti senza la presenza di sua nonna sarebbe, infatti, stata completamente diversa.

***

Quando Yinger rinvenne si ritrovò nella sua stanza. Era a letto, con una coperta di sopra. Il fuoco crepitava nel camino che illuminava tenuemente la stanza. Seduto accanto a lei, sul letto, vi trovò Aless.

“Come ti senti?” le domandò preoccupato.

Lei sbatté le palpebre due volte prima di rispondergli:”Un pochino meglio. ”

“Domani seppelliremo tua nonna.”

Doveva ammetterlo a malincuore, però la vicinanza di Aless in quel momento la faceva sentire meno sola.

“Sì. Speriamo non piova,” disse guardando dalla finestra. La tendina era appena scostata e si intravvedeva il cielo non particolarmente limpido.

“Perché dici così?” le chiese il ragazzo.

“Mia nonna mi ha detto che quando piove e si seppellisce un morto poi in quel punto non nascerà più alcun albero. E nessuno si ricorderà del morto.”

“Oh!” esclamò sbalordito il mago. “Allora, sì… speriamo non piova.”

Yinger rimase alcuni istanti a fissare il cielo grigio, poi il soffitto. Sospirò.

“Devo partire,” disse tutto d’un fiato.

“E dove vuoi andare?” iniziò a preoccuparsi Aless.

“Ad Akyab. Mia nonna mi ha chiesto un favore prima di morire ed io le ho promesso che l’avrei fatto. Almeno… in cuor mio,” aggiunse la ragazza.

“Akyab? Così lontano? Perché mai?” domandò con curiosità Aless.

“Ma io non voglio partire,” ammise Yinger incurante della domanda del mago. “Voglio rimanere qui, in questa casa.”

“Cosa ti spinge, allora, a farlo?” incalzò il ragazzo.

“Devo portare l’Antico tomo alla Biblioteca di Akyab. Da questo dipenderà la salvezza della città. Mi domando, chissà perché proprio io!” e qui socchiuse gli occhi verdi.

“Se vuoi ti accompagno,” disse alzandosi in piedi. “Ma ora riposa un altro po’. Prendi questo, è una pozione per far addormentare.”

I boccoli neri di Yinger giacevano scomposti sul cuscino. Ad Aless venne il desiderio di accarezzarli, ma non lo fece. Porse il liquido scarlatto contenuto in una boccetta di cristallo alla ragazza.

“Non lo voglio,” disse scostandolo con la mano.

Aless fu felice di quel sì breve contatto, ma insistette per farglielo bere.

“Bevine solo un goccio. Domani starai subito meglio.”

Yinger alzò la testa dal cuscino, prese dalle mani bruscamente la boccetta e la sorseggiò.

“Sa di bacche rosse” disse accennando un breve sorriso.

“Sì… il tuo gusto preferito. L’ho scelto perché sapevo che ti piaceva.”

Yinger bevve tutto d’un fiato la pozione, prima che Aless potesse fermarla.

“Eh… no, così è troppa!”

“Era buonissima! Grazie, Aless” posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi subito.

“Buona notte, tesoro” e le baciò teneramente la fronte.

***

Quando Yinger si addormentò, iniziò a sognare. Vedeva una fanciulla. Era magra d’aspetto, aveva i capelli biondi, lunghi e gli occhi azzurri chiarissimi. La pelle diafana e un sottile velo celeste la copriva lasciando intravvedere il suo esile corpo.

“Benvenuta!”

Yinger chinò il capo: si sentiva leggera come una foglia.

“Sono Yinger” si presentò, ma quasi subito si pentì di aver pronunciato il suo nome. La bella fanciulla ora appariva come un mostro che la inseguiva, pronta con i suoi artigli ad afferrarla. Lei si mise a correre, ma quella mano-artiglio diventava sempre più grande, finché non la prese. Cercò di svincolarsi dalla stretta, ma si accorse che era sopra un albero e che i rami la stavano trattenendo.

“Ciao!” udì una voce sconosciuta.

“Chi sei?” domandò riuscendo a liberarsi dalla stretta e cadendo dall’albero.

“Sono Quesq.”

Yinger alzò lo sguardo in direzione della voce e vide che aveva di fronte un elfo. Era alto, slanciato, con la pelle chiarissima e i capelli tutti bianchi, le orecchie a punta. Indossava una casacca color indaco, una cinta, e un paio di pantaloni di fustagno dello stesso colore. Ai piedi calzava delle comode scarpette dorate, la cui punta finiva arrotolata all’indentro. Aveva in mano un flauto.

“Sei un elfo!” disse sbalordita Yinger.

“So cosa ti è accaduto di recente, e mi dispiace tanto. Yinger, ormai hai diciannove anni e devi essere forte. Tua nonna ti ha dato una missione da compiere, e tu la porterai a termine.”

“Parli dell’Antico Tomo?” domandò la ragazza.

“Certamente. Zosheng, uno stregone malvagio, si appresta a conquistare la città di Akyab. Tutto questo si rifletterà sul GranRegno. Molte genti, infatti, ne soffriranno. Yinger devi iniziare a studiare. Vai nella Biblioteca della città e nelle Biblioteche di tutte le città che incontrerai nel tuo cammino. Devi apprendere l’arte della magia. Non solo dai libri, ma anche pian piano da me. Ti insegnerò tutte le formule magiche utili per poter affrontare il tuo nemico.”

“Mia nonna mi ha detto che ci vuole un mago potente per poter aiutare la popolazione di Akyab, come farò io, da sola, a sconfiggere questo Zosheng.”

L’elfo non ci rifletté nemmeno un momento e disse: “Non ti preoccupare, ti istruirò io. Ma sappi che anche tu dovrai studiare moltissimo per diventare una brava maga o una brava strega.”

“Cosa vuoi dire?”

“Dovrai scegliere se diventare una strega bianca, quindi una maga, o una strega nera. Sappi che da entrambe le parti faranno di tutto per attirarti a sé, ma l’ultima scelta spetta a te. O entrerai nella Congrega delle Tredici Streghe Nere, oppure  sarai una Sacerdotessa al tempio di Ayon. Lo deciderai col tempo. Non avere fretta.”

“Quesq, quando ci incontreremo di nuovo?”

“In un altro sogno. Adesso va e ora che ti svegli. E’ già mattino e c’è il funerale di tua nonna.”

Così Yinger aprì gli occhi di scatto. Le ci volle un pochino prima di capire che era nella sua stanza e che Aless la stava delicatamente toccando per farla svegliare.

“Tutto è pronto, Yinger. Devi dare l’ultimo saluto a tua nonna.” Le disse.

Yinger si pose a sedere sul letto. Era ancora un po’ intontita, poco presente a se stessa.

“Adesso vengo,” fu tutta la sua risposta, mentre sbadigliava.

Aless uscì dalla stanza e lei indossò un abito scuro. Si lavò il viso, per rinfrescarsi e si diresse verso la stanza della nonna. La trovò avvolta in un lenzuolo bianco. Notò che il viso era sereno, anzi sembrava quasi sorridere. Era adagiata su una panca di legno. Yinger si coprì i neri capelli con il velo, in segno di lutto. Poi Aless e alcuni vicini trasportarono la salma pian piano fuori. In giardino già la fossa era scavata. Yinger si ricordò dell’amuleto al collo della nonna, quello a forma di stella. Si slanciò verso il corpo, ma Aless la fermò.

Le fece di no col capo.

“L’amuleto,” farfugliò confusamente.

“Te l’ho messo da parte.”

Poi iniziarono con la pala a lanciare le prime zolle di terra per coprire il corpo.

“Hai visto?” disse Aless. “Non piove!”

La ragazza iniziò a piangere: “Sì… è così… non piove.”

Coprirono il corpo. Poi Yinger, come per tradizione, si tolse il velo e lasciò che il vento lo trasportasse lontano da tutto, da loro.

“Che la tua anima riposi in pace, nonna Aduial!”

Il velo turbinò nell’aria e poi scomparve all’orizzonte, dove nemmeno i loro occhi potevano più vederlo.

“E’ la sua anima, che prende il volo, in lontane, lontanissime sponde!”

“Adesso dove è andata è molto più felice. L’hai visto, no? Sembrava sorridere…” disse sottovoce Aless.

“Sì,” ammise Yinger asciugandosi le lacrime col dorso della mano e sorridendo appena. “Lo spero proprio.”

***

L’indomani non aveva voglia di fare niente. Si era coricata con i doni della nonna. E faceva apparire e sparire il bastone, di tanto in tanto.

Si alzò, si vestì e fece colazione. Il sole splendeva nel cielo, poteva vederlo dalla finestra.

“Oggi è una bella giornata per raccogliere un po’ di bacche nel bosco,” pensò Yinger con un po’ di tristezza.

Così prese un cestino e si diresse verso il bosco. L’aria sapeva di profumi di primavera. C’era qualche rado fiorellino per terra. Inoltratasi nella foresta udì come bisbigliare. Si volse ma non c’era nessuno. Proseguì il suo cammino. Si ritrovò in una verdeggiante pianura piena di soffiobolle, infatti dalle corolle di questi fiori invece di uscire soffioni uscivano incantevoli bolle di sapone. Fu in una di queste bolle che Yinger vide un folletto. Era tutto vestito d’azzurro, con un cappellino che terminava con un pon pon bianco, ed aveva in mano, proprio dentro la bolla, una candela.

“Ciao!” la salutò.

“Ciao!” rispose Yinger.

Il folletto compariva e scompariva con le bolle dei soffioni, però ad Yinger sembrava fossero diversi e non sempre lo stesso perché alcuni avevano l’abito azzurro, altri bianco, altri rosa.

Da una bolla più grande uscì una folletta più grande.

“Io sono Rahama” disse il folletto. “E sono la regina dei folletti.”

“Salve, sua maestà.” Rispose Yinger.

“Vorrei farti dono di Pegaso. E’ un cavallo alato, ma può anche parlare e può aiutarti nella consegna dell’antico tomo”

Il cavallo apparve e ad Yinger parve bellissimo nel suo bianco splendore.

“E’ per il tuo viaggio, così non andrai a piedi.”

Nel frattempo il cavallo si era avvicinato e lei gli accarezzava il muso.

“Grazie per il gentile dono,” ringraziò Yinger.

La regina Rahama riprese a parlare: ” Sai? ho fatto una promessa a tua nonna Aduial, che mi ha salvato la vita e per questo ti faccio dono di Pegaso.”

Ma Yinger a malapena l’ascoltava, tutta intenta com’era ad ammirare il cavallo alato.

“Comunque, Yinger stai attenta, il viaggio è lungo e pericoloso. Sappi che tutti i miei folletti saranno sempre con te e ti aiuteranno nel momento del bisogno. Dentro di te c’è lo spirito di tua nonna, che era una potente maga, e sono sicura che riuscirai nello scopo che ti sei prefissata.

“Dai, Yinger!” prese la parola Pegaso “è ora che ti avvii per la tua missione!”

Così salì in groppa a Pegaso e il maestoso animale cominciò a volare.

Per Yinger fu bellissimo. Poteva sfiorare il cielo con un dito e poi anche le nuvole. Per un istante dimenticò tutti i suoi dispiaceri.

***

Nel pomeriggio la venne a trovare, come sempre, Aless e si misero subito in viaggio.

Avevano attraversato già la foresta di Muravej e la città di Halifax e si accamparono nella laguna di Orag dove furono attaccati dalla sorellastra Tinie. Il duello vide quasi vincitrice Tinie, con la sua magia nera. Infatti, la sorellastra era riuscita a ferire Yinger.

Il fuoco crepitava illuminando debolmente la caverna, i loro visi. Aless aveva portato subito al riparo Yinger. La maga era stata ferita da una freccia durante il combattimento con la sorellastra, Tinie. Ed ora Aless stava cercando di guarire Yinger con la sua magia. La ragazza aveva la febbre alta, mentre il mago preparava la pozione per curarla. Del resto avevano ben poco tempo per riprendere il loro viaggio verso l’antica città di Akyab. Così si avvicinò molto lentamente a Yinger, che giaceva a terra coperta dal suo mantello. La ferita era piena di sangue e doveva essere al più presto curata.

Le scostò i bei capelli neri, e cercò di slacciarle il corpetto, ma si fermò ad un tratto perché la maga aveva spalancato gli occhi e gli aveva bloccato il braccio.

“Aless, che cosa stai facendo?” gli domandò Yinger con voce rauca: le faceva tanto male la spalla.

“Cerco di estrarre la freccia perché altrimenti non posso curarti con la mia pozione.”

E senza che lei potesse ulteriormente ribattere, con decisione, tolse la freccia.

Yinger urlò per il dolore e la caverna risuonò tutta. Per alcuni istanti, che le parvero interminabili, vide nero.

Dopo perse i sensi.

Aless le pose l’impacco sulla ferita, e per tutta la notte si prese cura di lei.

Ora che dormiva placidamente la guardava con tenera insistenza. Si avvicinò al suo viso e la baciò dolcemente.

Non era la prima volta che assaggiava il suo sapore. Già una volta aveva tentato di baciarla, quando non erano altro che ragazzini.

Ma Yinger l’aveva rifiutato con forza e questo fatto gli dilaniava l’anima e il cuore. Continuamente. Lui l’amava!

Rivide quando erano piccoli. Yinger più alta di lui, i suoi boccoli neri, e gli occhi verdi della ragazza l’avevano catturato fin dal loro primo incontro da bambini: due fessure di un’anima che aveva amato. E il suo dolce profumo alla vaniglia… buonissimo… era ogni volta con lui, ma quando la vide diventare ogni giorno sempre più donna era stata allora che il desiderio era cresciuto dentro di lui.

Nel frattempo Yinger si risvegliava lentamente. Le ci vollero alcuni minuti prima di comprendere che era a terra, in una grotta, tra le braccia di Aless. Lo fissò per alcuni istanti, poi si pose a sedere. Aveva le lacrime agli occhi.

“Perché sento bruciare la spalla?” domandò intontita dal dolore.

“Tinie ti ha colpita. Mi spiace!” disse il ragazzo mettendosi subito in piedi, come colto in flagrante.

“Ed io cosa ci facevo tra le tue braccia?” chiese Yinger indispettita.

“Sei svenuta per il dolore. Mi spiace!” rispose il ragazzo afflitto.

“Per te è sempre un’occasione per toccarmi. Non è vero?” incalzò arrabbiata.

“Non è come pensi,” ammise Aless imbarazzato. “E’ capitato, tutto qui!”

Yinger si alzò per guardarlo in faccia, dritto negli occhi.

“Vedi di non azzardarti più!” lo rimproverò.

Sul viso di Aless affiorò un velo di tristezza, un’ombra fugace. Si rabbuiò, infatti. Conosceva il caratterino ribelle di Yinger ed era per questo che l’adorava. Fuori iniziò a piovere, le prime gocce caddero, bagnando l’ingresso della grotta. Si udiva solo il crepitare del legno nel falò. Un legnetto, infatti, si sfaldò e divenne cenere tra la cenere.

“Altrimenti cosa mi farai?” proruppe in tono di sfida Aless, afferrandole le spalle.

Finalmente aveva trovato il coraggio. Il cuore gli batteva forte. Le tempie gli pulsavano. Dirle tutta la verità, dirle tutta la verità, urlò una voce dentro di lui.

“Io ti amo Yinger!” e l’abbracciò senza esitazione.

Lei si ritrovò tra le sue braccia, ma non ricambiò il suo abbraccio. Una lacrima le scese lenta sulla guancia e si nascose sotto il mento.

“Non l’hai capito? Non posso vivere senza di te! Senza la tua presenza accanto alla mia! Perché dovrebbe sorgere il sole in cielo, o esserci la luna se tu non ci sei? Cosa contano per me le nuvole che oscurano una bella mattina primaverile di sole se tu non sei con me? Nulla è degno di essere vissuto, nemmeno la mia vita, se tu non sei al mio fianco!”

Lei cercò di svincolarsi dalla stretta e protestò:”Bè… non mi interessa. Non ti amo Aless, credo che anche tu dovresti saperlo!”

Riuscì a staccarsi dall’abbraccio.

“Penso che sia meglio che le nostre strade si dividano, allora.” Sentenziò incrociando le braccia al petto. “Io proseguirò la mia verso Akyab, e tu te ne andrai per la tua. Non mi serve il tuo aiuto. Hai capito?”

Lui taceva.

“Và via! Ora! Subito!” e gli indicò l’entrata della grotta.

Aless posò il suo sguardo con tenerezza su di lei, poi disse, dirigendosi verso l’entrata.

“Me ne andrò. Ma ricorda: qualunque cosa tu avrai bisogno, io ci sarò! Non ti abbandonerò! Mai!”

Uscì e la pioggia gli bagnò i rossi capelli, il vestito. Yinger lo vide scomparire dalla sua vista. Ormai la pioggia cadeva fittissima e col buio era difficile distinguere le ombre dalla foresta.

Ormai erano diversi mesi che viaggiavano lei insieme a Pegaso. Una sera sognò, avendo come sempre bevuto l’infuso di bacche di Aless.

Vedeva una collina fiorita. C’era la stessa fanciulla dell’altra volta. Saltellava sul prato. La vedeva solo di spalle.

“Chi sei?” osò chiederle.

Quella si volse e lei vide i suoi occhi azzurri chiarissimi fissarla a lungo. Poi, come nel sogno precedente, si lanciò verso di lei per afferrarla con le sue mani- artiglio. E lei si ritrovò prigioniera dei rami di un albero.

“Bentornata!” la salutò calorosamente Quesq.

L’elfo suonava il suo flauto con dolcezza.

Lei riuscì a liberarsi dai rami e ricadde un’altra volta a terra. Questa volta però un morbido tappeto di foglie gialle attutì la sua caduta a terra.

“Da dove vieni, Quesq?” gli domandò con curiosità sedendosi sul morbido letto di foglie secche.

“Sono di Aveyon, la città contesa dal regno Luna di vetro e Corallo d’Avorio.”

Aveyon, la Grande città elfica dalla porta magica!”

L’elfo annuì e riprese a suonare. Il suono del flauto riempiva l’aria di dolcezza. Petali di rosa si levarono leggiadramente nell’aria. Turbinarono attorno a loro per poi scomparire all’orizzonte.

Smise di suonare e disse, sempre con dolce tristezza: “Ma io sono rimasto solo. La città è stata distrutta ai tempi di re Erothu ed io sono rimasto l’ultimo della mia stirpe.”

Una lacrima gli scivolò lenta sulla guancia. Brillò alla tenue luce del sole, come un diamante.

“Se non ci fossero i tuoi sogni, cara Yinger, sarei già morto.”

“Chi è la ragazza che vedo prima di incontrarti?”

“Lei è… Alatariel. Non è un’elfa. Ti permette di incontrarmi. Diciamo che è una porta di accesso.”

Yinger posò la mano sull’albero. “E’ lei?” sussurrò.

L’elfo annuì. “Sì… è una ninfa degli alberi dei sogni. Se non ci fosse non potremmo vederci, né sentirci,” continuò triste Quesq.

Yinger abbracciò le gambe e rimase pensierosa in silenzio.

Poi disse: “Perché sei così solo, solo come me?”

L’elfo alzò le spalle come dire “non so” ed aggiunse: “E tu perché ti senti sola?”

“Io non mi sento sola. Sono sola. Mia nonna era tutta la mia famiglia. Era tutto per me. Era come una madre. Adesso non ho più nessuno, al mio fianco. Sono sola.”

“Non lasciare che la tristezza prenda il sopravvento!”

Quesq smise di suonare un’altra volta: “E’ giunto il momento, Yinger devi ritornare nella realtà. Continua a studiare, imparerai tante cose dai libri. Presto sarai da Akyab ed è ora che tu liberi la città dall’assedio di Zhoseng.”

Già, infatti, si vedeva in lontananza la grande città di Akyab. Con i suoi mattoni rossi, la città deserta brillava alla luce del sole. Zhoseng, il malvagio Incantatore, si apprestava ormai a conquistarla con tutto il suo esercito di Troll. Indossava un’armatura fatta d’argento con incastonate delle pietre preziose, non portava l’elmo ma i suoi lunghi capelli biondi erano legati a coda, cavalcava un grande drago nero. Yinger e Pegaso erano pronti per la battaglia finale.

“Che tu possa essere maledetto Zhoseng.” Digrignò i denti la ragazza.

“Non sei una delle Streghe Nere, non puoi farmi nulla con le tue inutili parole,” sibilò il mago guardandola a lungo con i suoi occhi azzurri freddi come ghiaccio.

“Ma con la mia magia sì…” gridò Yinger in groppa a Pegaso. “Riuscirò a sconfiggerti, fosse l’ultima cosa che faccio,” ed alzò un braccio con il pugno chiuso in segno di guerra.

Intanto Aless, che li aveva sempre seguiti di nascosto, era giunto sul luogo del combattimento e si nascondeva fra i cespugli. Era preoccupato per la sua amata, stringeva, di fatti, il suo bastone, pronto ad intervenire se ce ne fosse stato bisogno.

Zhoseng sferrò il primo attacco con enorme ferocia, disarcionando subito Yinger.

Caduta a terra si rialzò a fatica. Poi creò con le mani una sfera infuocata assorbendo parte dell’energia dai quattro elementi, che li invocò:

“Aquam, Ignem, Terram, Aerem… venite a me!”

Anche Pegaso l’aiutò donandole l’ultima gemma del suo unicorno e scomparendo così del tutto.

La sfera diventò sempre più grande e investì, con immensa forza, Zhoseng, il quale riuscì però a fuggire sacrificando il suo dragone.
Ora erano l’uno di fronte all’altro, senza destrieri:

“Non ti servirà a nulla Yinger opporti alla mia magia e l’Antico Tomo sarà finalmente mio e conquisterò la città di Akyab. Il GranRegno sarà governato da me soltanto!” le disse l’Incantatore. “Sono superiore a te!” e rise maleficamente.

“Staremo a vedere!” gli rispose la ragazza, ma in cuor suo sapeva che per sconfiggerlo doveva aprire l’Antico Tomo ed evocare la magia dell’annullamento.

Fu allora che vide Aless tra i cespugli.

Guardandolo dritto negli occhi e facendogli cenno con la testa, fece apparire l’Antico Tomo e glielo lanciò.

“Apri il libro” gli gridò

“No,Yinger!” gli rispose Aless “Lo sai che non sei ancora pronta! Morirai: non sei abbastanza forte e il libro assorbirà tutta la tua energia vitale!”

“Non ti preoccupare per me! Almeno riuscirò a fermare il crudele Zhoseng e distruggerò i suoi incantesimi una volta per tutte!” continuò la ragazza

“Non farlo,Yinger!” urlò Aless con quanto fiato aveva in gola.

Ma ormai era troppo tardi, Yinger era corsa verso lui, aveva aperto il libro ed aveva evocato la magia dell’annullamento.
L’incantesimo consisteva nell’annullare tutte le proprie forze magiche e ripiegarle al proprio volere.

Zhoseng rimase sbalordito dalla tenacia della ragazza.

Così Yinger sferrò il suo attacco e lui, sopraffatto, scomparve subito bruciando tra le fiamme.

Yinger cadde a terra priva di vita, i suoi lunghi capelli si erano sciolti e giacevano sparsi per terra.

Aless le corse incontro, la strinse vigorosamente tra le sue braccia.

“Yinger cha hai fatto?” disse singhiozzando. “Come, come hai potuto lasciarmi da solo? Non posso viver senza di te! No, non è giusto era già crudele che non ti potevo avere ma almeno eri viva e sempre vicina a me e ti potevo amare !”

Alzatosi in piedi, cominciò a prendere a pugni il tronco di un albero che era lì vicino.

Il sangue ormai gli colava dalla mani piene di lividi.

“Amor mio!” pianse calde lacrime.

Poi si avvicinò al corpo senza vita di Yinger, le prese il medaglione a forma di stella ed invocò gli spiriti dei morti.

“Dono la mia vita per darla a te mio unico amore, così saremo un’ unica cosa!”

La prese tra le braccia e la baciò e ribaciò anche se piano piano andava scomparendo come gocce di rugiada.

Yinger si sollevò da terra: era tutta indolenzita. Le faceva male ovunque: le braccia, le gambe, la schiena: non aveva mai provato un simile dolore fino ad allora. Ma cosa era accaduto? Ricordava ben poco. Stava duellando contro il malvagio Zhoseng, aveva aperto l’Antico Tomo e poi buio. Era sprofondata nel buio più completo. Si guardò attorno e vide che c’era terra bruciata. Si accorse di essere completamente sola. Poi un flash: rivide gli occhi del ragazzo, di Aless. Allora, si ricordò di ogni cosa.

“Aless dove sei?” iniziò ad urlare, ma nessuno le rispondeva.

Proprio in quel momento, mentre iniziava a piangere, l’amuleto si staccò dal suo collo e fluttuò nell’aria densa di fumo. Brillò e da esso uscì come se fosse un velo dorato che luccicava in alcuni punti. Il velo prese forma di sua nonna, il suo spirito ora era così al suo cospetto.

“Yinger, cara nipote, và il tuo destino si è ormai compiuto. Raggiungi la città segreta, la città di Akyab, e riporta l’Antico Tomo per aprire finalmente le Sacre Porte della Biblioteca Segreta.”

“Nonna, Zhoseng è stato sconfitto. Che senso ha andare ad Akyab?”

“Ma tu sei l’Eletta, la Custode Sacra del libro. Come già ti ha detto Quesq, dovrai fare la tua scelta…”

“Dov’è Pegaso, il mio fedele amico?” chiese Yinger incurante delle parole di nonna Aduial.

“Pegaso ormai è libero: è diventato il principe del regno. L’incantesimo è stato sciolto.” Rispose con voce calma la nonna.

“E Aless?”

“Aless è sempre con te, piccola cara! Non ci ha pensato ed ha seguito il suo cuore, donando la sua vita per te.”

“No, no, non ci credo! Non può essere!” si rannicchiò abbracciandosi le gambe ancora indolenzite.

“Sai nonna? Per un attimo mi è sembrato di vederti, di vedere mia madre attraverso di te. Eravate due figure trasfigurate e sovrapposte. Allora, ho compreso che ero vicina per raggiungervi. Poi, non so cosa è accaduto. E’ come se una mano forte mi avesse afferrato per i capelli e riportato in superficie. Quando mi sono risvegliata ho provato subito una gran pace e avevo il viso umido di gocce di rugiada.”

“E’ sempre così quando scompare un mago: scompare in mille gocce di rugiada. E Aless era un grande mago. Il suo immenso amore per te era sincero e devoto. Adesso và ad Akyab e fa la tua scelta. Sappi che se diventerai una Sacerdotessa non potrai amare nessuno, però potrai aiutare gli altri con i tuoi immensi doni. Se invece sarai una Strega nera, potrai avere tutti gli uomini ai tuoi piedi, ma non potrai aiutare nessuno con la tua magia, anzi potrai solo fare del male e non essere mai punita per questo, perché questa è la natura delle Tredici Streghe nere.”

Lo spirito della nonna si dissolse delicatamente. Era rimasta da sola, di nuovo. Prese l’amuleto che era caduto a terra e si diresse solerte verso la città. Ormai aveva fatto la sua scelta. Giunta in città e trovata la Biblioteca, c’era ad aspettarla nella grande sala un vecchio tutto curvo, intento a leggere su un grande tomo.

“Ti stavo aspettando,” disse l’anziano con la sua voce gracchiante.

La fissò per alcuni istanti ed Yinger che si era quasi trascinata fin lì non provò nulla, nemmeno fastidio.

“Ho fatto la mia scelta,” disse la ragazza senza preamboli.

“Ebbene?” domandò il vecchio, continuando a fissarla con i suoi piccoli occhi.

“Aless mi ha insegnato che amare gli altri fino a dare la propria vita è la cosa più importante. Per questo ho deciso di rinunciare al fascino della vita delle Tredici Streghe Nere per diventare Sacerdotessa al Tempio di Ayon.”

“Sai cosa ti aspetta? Non potrai mai congiungerti ad alcuno, né potrai innamorarti. Aiuterai i fedeli che accorrono al Tempio e riceverai i loro doni materiali, ma sarà solo una ricchezza fisica non spirituale. E’ il terribile castigo che fu lanciato alle Sacerdotesse anni or sono. In pratica non avrai nulla, se non la capacità di guarire e di aiutare i tuoi fedeli. Una vita di rinunce.”

Yinger annuì con le lacrime agli occhi.

“So che mi aspetta una vita dura, ma l’accetto.”

Il vecchio bibliotecario esclamò: “Un bell’atto di coraggio!”

Si alzò dalla sedia fino a dove era stato seduto e lentamente si mosse verso la ragazza: “Và ora! Apri le Sacre porte della Biblioteca Segreta ti condurranno verso la tua scelta.

Yinger posò il tomo sullo scaffale dove gli indicava il vecchio e gli scaffali si aprirono rivelando una porta segreta. C’erano delle scale strette e buie. Iniziò a scenderle da sola. Una luce l’avvolse.

“Da oggi in poi sarai sacerdotessa del Tempio di Ayon, ti sarà donato ogni potere, ma non servirà per guarirti. Tra questi poteri quello del Tempo, potrai viaggiare e se vuoi fermarlo, ma quando lo fermerai invecchierai un pochino.”

La voce scomparve ed Yinger si ritrovò rivestita da una lunga veste smeraldo.

Da quel giorno, rimase quasi fedele al suo ruolo di sacerdotessa, anche se molti che visitavano il Tempio, rimanevano esterrefatti nel vederla sempre più vecchia.

Infatti Yinger, di tanto in tanto, vagava nel Tempo per poter rivedere il suo amato Aless.

LA CASA DEI MISTERI di Samuela Zella (Corso bambini – Primo Livello)

LA CASA DEI MISTERI di Samuela Zella

Corso bambini – Primo Livello

N°534

Faceva freddo. Il mio pickup arrugginito camminava cigolando fra le siepi di una buia strada. Guidavo,pensando a quando sarei tornata a casa;casa dolce casa!Poi,il rombo della macchina si arrestò di colpo:avevo finito la benzina!Mi guardai intorno:mancavano circa 20 km da casa. Pensai di chiamare mia sorella e di farmi venire a prendere:presi il cellulare,mantenendo una finta calma e provai a chiamarla. La fortuna volle che non ci fosse campo. Mi rimaneva soltanto di citofonare e chiedere di usare il telefono. Alla mia destra notai una casa antica,a tre piani,con una luce rossa accesa e l’ombra di qualcuno. All’esterno c’era un albero di carrube. L’edera aveva coperto ogni traccia dell’abitazione,diventata un polmone verde. Il portone era di un legno rossiccio alla cui sommità c’era un leone,quasi avesse il compito di proteggere la palazzina. La figura che avevo visto prima mi diede la certezza di trovare qualcuno in casa e mi spinse a suonare il campanello. Mi venne ad aprire una ragazza bellissima,con una voce ammaliante,che mi chiese cosa volessi. Aveva i capelli neri e lisci,e gli occhi grandi e celesti. Le sue labbra,piccole ma carnose,erano di un rosso fuoco. Mi disse di accomodarmi. Entrai,imbarazzata,nell’atrio,e poi,ella mi condusse nel salone,una stanza dalle pareti di un giallo girasole,un caminetto che ardeva,un tavolo di ottone su cui c’era un vaso pieno di fiori. Era così accogliente! Mi voltai per chiederle dove fosse il telefono,ma la ragazza era scomparsa. Allora mi riguardai intorno:i fiori che prima erano di un fucsia acceso stavano appassendo,lentamente. La bellezza di quel salotto venne rovinata da questo macabro particolare che mi mise una certa inquietudine. Decisi che era il momento di andarmene,e mi avviai con decisione verso la porta. La spalancai e uscii,a testa bassa. Quando rialzai lo sguardo mi resi conto di non essere per strada. La stanza era di un rosa confetto,sovrastata da un grande carillon. I cavalli si muovevano,lentamente,dall’alto verso il basso. Su uno di essi era seduto un pagliaccio,tutto bianco con la bocca rossa. Mi invitò a salire sulla giostra. Aveva i capelli ricci e arancioni e il naso rosso fuoco. Sorrideva e aveva l’aria di divertirsi. Per un attimo mi sentii di nuovo bambina e salii su uno di quei cavallucci senza pensarci due volte. La canzone di sottofondo era romantica,dolce allegra. Guardavo il pagliaccio e ci ridevamo,quando,nel suo sorriso,notai una smorfia. Una smorfia che mi faceva paura.

Le note della canzone cambiarono. L’angoscia cresceva in me. Quando sentii piovere. Mi stavo bagnando. Per un attimo chiusi gli occhi e cercai di dimenticare tutto. Mi convinsi che fosse un sogno. Che tutto sarebbe finito,da un momento all’altro. Riaprii gli occhi ed ero ancora lì,tutta bagnata. Bagnata di rosso. Colava lentamente sul mio corpo,lentamente,quasi a farlo apposta. Alzai la testa:nero. E mi accorsi,lentamente che scendevo sempre più,nel baratro di quell’inferno. Il mio cavalluccio andava giù,e il pagliaccio mi salutava con il sorriso che prima mi aveva reso felice. Aggrappata al mio fidato cavalluccio,andavo sempre più giù. Tutto era buio. Arrivammo a terra. Appoggiai i piedi. Mi sentivo circondata. Voci mi sussurravano. Mi dicevano:-non ti fidare,Bella. Vieni con noi. Lasciati andare … – Poi un grido investì la stanza. Era un grido femminile. Cominciai a correre,in cerca di qualcuno o di qualcosa. Fino a quando mi ritrovai a casa mia:i miei genitori erano seduti intorno al tavolo. Il divano era al suo posto,la cucina anche. E il vaso di fiori si trovava anch’esso sul centrino ricamato da mia madre al centro del tavolo. Mi sentii sollevata,ma forse per la sorpresa,rimasi sull’uscio. Sorridevano. Poi,il pavimento cominciò ad abbassarsi soltanto per la porzione in cui erano seduti i miei genitori,che mi salutavano sorridenti. Una lacrima solcò il viso di mia madre,mentre lentamente scompariva davanti ai miei occhi. Ed in quel momento la soluzione mi sembrava ovvia. Tutti i conti tornavano e tutto mi apparve chiaro . Ogni cosa era al posto giusto. E mi parve ridicolo,in quel momento di disperazione,che anche quel fiore nel vaso stava lentamente appassendo. E chissà,forse,anche io stavo appassendo. La mia anima era lacerata da quel lugubre incubo. Le pareti diventarono lentamente nere. Tutto diventò nero. Ma non avevo più paura. Ormai non poteva spaventarmi più nulla. Ero troppo stanca. Camminai a passo veloce e aprii il cassetto della cucina. La vidi brillare e risplendere. La presi e l’ analizzai lentamente.Com’era bella. Se fossi stata al suo posto …  sarei stata solo un mezzo,uno strumento. Parte della recita. Avrei potuto guardare con oggettività la faccenda. Avrei avuto il compito di porre fine a quell’incubo. Avrei avuto la parte della buona. Avrei spezzato le catene di chi era costretto a rimanere lì,in quella casa maledetta. Ma ormai era troppo tardi. Con una spudorata facilità premetti il grilletto.

N°535

Faceva freddo. La mia nuova e brillante Mercedes spiccava fra le siepi di quella strada. Guidavo,pensando a quando sarei tornata a casa,dove mi aspettavano mia moglie ed i miei due figli. Poi,la macchina si fermò,silenziosamente:avevo forato una ruota!Mi guardai intorno:mancavano 400 km per arrivare a destinazione. Pensai di chiamare il soccorso stradale e di farmi venire a prendere:presi il mio smartphone,mantenendo una finta calma e provai a chiamare. La fortuna volle che non ci fosse campo. Mi rimaneva soltanto di citofonare e chiedere di usare il telefono.

Vacanze sulla neve di Paola Mutti (Primo Livello – Ragazzi)

Vacanze sulla neve di Paola Mutti. Primo Livello – Ragazzi

Un autobus un po’ ammaccato spuntò da dietro l’angolo e si fermò davanti ad una semplice pensilina blu per far scendere cinque persone, poi ripartì scoppiettando.

-Ma è meraviglioso! Che spettacolo! Evviva le piste da sci, evviva! Chissà qual è la casa del nonno di David, sono proprio curiosa – disse Jane, guardando divertita l’amico.

– Secondo me è quella laggiù! – rispose Becky indicando con il dito un grande hotel di lusso, poco più in là.

– Allora il nonno di David dev’essere ricco sfondato! – esclamarono in coro le tre ragazze.

– Ah, ma quale state guardando? – disse l’amico prendendo il braccio di Becky e spostandoglielo verso la parte opposta – è quella là -. Quello che stava indicando non era altro che un puntino scuro in lontananza.

– Forza, muoviamoci, se arriviamo in ritardo mio nonno ci sgriderà -. I ragazzi s’incamminarono nella neve fresca e intatta, splendente sotto la luce accecante del sole. Faceva freddo, ma niente poteva far distogliere gli sguardi dei ragazzi da quello spettacolo.

La tentazione di correre, giocare e tirare palle di neve divenne irresistibile. Così, gli amici si fermarono e, tra una palla e l’altra, non si accorsero del tempo che passava. Il cielo cominciò a scurirsi lentamente e una fitta nebbiolina iniziava ad invadere l’ambiente.

– Oh no, è tardissimo! Se non arriviamo presto, mio nonno ci sgriderà. – David e suoi amici ripartirono sulla neve; l’aria si faceva più pesante e quando arrivarono c’era già buio.

La casa era di legno, bassa e molto larga, assomigliava in parte ad una baita ed in parte ad un tempio giapponese. All’improvviso, mentre si avvicinavano, una luce venne accesa al piano terra e la porta si spalancò: – Vi avevo ordinato di arrivare prima che facesse buio, non è così? Pentitevi! –. Quello che uscì era il nonno di David, ovviamente, e la sua faccia non prometteva niente di buono. Le numerose rughe che gli segnavano il volto gli conferivano un’aria autorevole e severa. Sotto le spesse lenti degli occhiali rotondi aveva un paio di occhi azzurri talmente chiari e penetranti da trafiggere chiunque li guardasse. Era un po’ impacciato nel camminare ed era, chiaramente, molto arrabbiato e spazientito.

– Scusaci, nonno. Abbiamo perso la cognizione del tempo, sai com’è… – rispose David, in cerca di una buona scusa, ma evidentemente non era facile acquietare il nonno.

– Questo perché non avete disciplina! – gli rispose lui ancora una volta. –Come punizione, ora pulirete il balcone! –

“Che cosa?! Non è giusto!” pensarono tutti contemporaneamente.

Il balcone, anch’esso di legno, correva lungo tutto il perimetro della casa.

– Questo balcone è immenso! Ci vorrà una vita per pulirlo! – gemette Becky a bassa voce. Nessuno aveva visto andar via il nonno e tutti saltarono dalla paura quando la sua voce ruppe il silenzio, dietro di loro. – SBRIGATEVI! Pulitelo pezzo per pezzo. Niente è impossibile se vi date da fare tutti insieme.- Diede loro un secchio d’acqua, delle scope e qualche straccio, poi sparì in casa, a bere una tazza di tè caldo.

Dopo un attimo di esitazione, gli amici si misero al lavoro senza commentare.

Il tempo sembrava rallentare e i ragazzi si rianimarono dallo stato comatoso in cui erano caduti solo quando David parlò: – Cosa ne dite di fare una gara intorno al balcone mentre puliamo? Solo con gli stracci; il primo che fa due giri completi vince! Prontiii… Via! – E così dicendo, riprese lo strofinaccio che aveva lasciato poco prima per riposarsi, lo poggiò a terra e, poggiate le mani sopra di esso, partì in avanti; i suoi amici non tardarono a seguirlo. Jane, Becky e Christopher si fermarono al primo giro, già senza fiato, e aspettarono gli altri due al traguardo prefissato. Dopo poco spuntarono Samantha e David, che sfrecciavano a tutta velocità. A vincere fu la prima, perché l’amico era scivolato poco prima di arrivare al traguardo.

Ho vintoo!- urlò lei, tutta rossa in faccia, facendo una linguaccia all’amico.

Non dovevate divertirvi! Pentitevi!! – Inutile dire che i presenti trasalirono e si ammutolirono al suono di quella voce.

– Non l’avete neanche pulito bene, il balcone! Ora, come seconda  punizione, preparerete voi la cena. E badate bene: vi terrò d’occhio! -. Jane stava per ribattere ma un’occhiata di Christopher bastò a zittirla. Quella seconda punizione fu la peggiore: nessuno, a parte Samantha, sapeva cucinare. Così lei si ritrovò a spostarsi da una parte all’altra a dare istruzioni, ma non fu affatto semplice. Dopo quasi due ore riuscirono a portare sulla tavola sei piatti di riso troppo cotto, una vaschetta d’insalata, una ciotola di pomodori (quasi tutti interi) e delle bruschette bruciacchiate con salse che non avevano ne un buon colore ne un buon odore. Anche se il cibo non era squisito, i ragazzi divorarono tutto perché erano molto affamati. Nessuno parlò e, finita la cena, il nonno si limitò ad indicare loro le stanze che avrebbero occupato mentre alloggiavano in quella casa.

Durante la vacanza gli amici si divertirono molto sulla neve e ogni sera badavano bene a tornare prima che facesse buio. Anche se le cene erano sempre a base di zuppe dagli odori intensi (a volte sembravano quasi malsani), nessuno si azzardò ad aprire la bocca se non per mangiare. Il vecchio, però, non aveva affatto dimenticato il risultato della pulitura del balcone e tutti i giorni assegnava loro dei lavoretti di pulizia da svolgere. Così, presto gli amici impararono ad organizzarsi, dividendosi le mansioni e riuscendo ad accontentarlo.

L’ultima sera arrivò in fretta e così anche la fine della vacanza. Mentre i nostri ragazzi entravano in cucina, i sorrisi che non avevano mai lasciato i loro volti per tutta la giornata, si attenuarono di colpo. In quel periodo avevano infatti imparato che, in presenza del nonno, si doveva essere educati, stare in silenzio e sorridere poco. Ma quella sera le cinque figure si bloccarono sulla porta, incerte sul da farsi e convinte di avere qualche strana allucinazione. Davanti a loro si ergeva una tavola già apparecchiata e su ogni piatto giaceva un trancio di pizza contornato da patatine fritte. Ad aspettarli, inoltre, c’erano salse di tutti i tipi, verdure, salumi, pane e due bottiglie di coca-cola.

– Entrate! Cosa ci fate lì impalati? Muovetevi. – Loro, non dimentichi delle buone maniere, entrarono e si sedettero. Il nonno non disse altro e, come sempre, nessuno si azzardò a chiedere alcunché. Mai fare domande: questa era un’altra delle regole per vivere in pace, con lui.

Tutti mangiarono con gusto e si stupirono ulteriormente quando, alla fine, venne tirata fuori persino una torta.

– Vi ho tenuto d’occhio in questi giorni. Avete imparato la lezione e insieme siete riusciti a fare tutto ciò che vi ho chiesto. Ora mi è sembrato che meritaste una piccola ricompensa.

Poi, vedendo che i ragazzi erano sul punto di esultare, tornò severo e aggiunse – Ma non dimenticatevi di ciò che avete imparato, o avrò faticato tanto per niente!-

Mentre suo nipote, Samantha, Jane, Becky e Christopher uscivano di casa per l’ultima volta, diretti alla fermata dell’autobus, il nonno tornò a sedersi sulla poltrona, con una tazza di tè in mano e le labbra distese in un sorriso.