Strana cosa, la memoria
di Giovanna Ruffatto
Corso Adulti – Primo Livello
Era uno di quei giorni d’inverno, dove l’odore di umido impregna l’aria.
La nonna era nell’altra stanza. La camera ardente allestita nella casa di riposo profumava di rosa. A nostra nonna Elsa erano sempre piaciute le rose.
Arrivai all’ultimo, come al solito. Questa volta però non fu un caso, ma un fatto voluto.
Arrivai confondendomi tra il chiacchiericcio delle assistenti, degli addetti alla portineria e del bar, tutti in divisa.
Anche l’anziano Direttore ed il figlio erano in un angolo che parlottavano ad aspettarmi. Erano tutti quelli che se ne erano occupati anche al posto mio per tredici anni.
Mio marito ed i suoi parenti mi lasciarono andare avanti da sola. Non sarebbe potuto essere diverso. Tirai il fiato. Mi sentivo come un’amazzone al galoppo. Raggiunsi gli altri quasi correndo. Sembrava che mancassi solo io.
Poi entrai nella stanza. Un altro respiro lungo, indispensabile. Odore di formalina e rosa. Nebbia sugli occhi mentre guardo quel viso smunto che non pareva neanche più il suo. Le dita incrociate sul rosario, intorno al collo la sua collana di perle bianche e poi la camicia di seta sopra la gonna di lana, le calze beige e le scarpe con la fibbia lucida.
Quanto tempo era che non la vedevo vestita a festa?
Sentii mio figlio singhiozzare fuori. Un balzo ed ero accanto a lui, come una leonessa. Mia suocera lo abbracciava, mentre lui cercava di ritrarsi. “ Ti prego, almeno per oggi, lascia perdere” , dissi secca e lo presi per mano, piano.
Mi accovacciai accanto a lui in un angolo. Mi sembrava così piccolo, stretto nel suo cappottino nero, di lana buona. Ale non mi guardava mentre gli parlavo. Continuava a voltarsi verso il corridoio, verso la porta di ingresso. Ad ogni scorrere dei vetri, si girava di soprassalto.
“ Marco non verrà. Sarebbe venuto ieri. Lo sai che gli ho anche fatto telefonare”.
Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo, dirgli che anch’io lo stavo aspettando.
Marco lo avevo aspettato tutto il giorno prima, dal mattino, quando dopo aver portato Ale a scuola , ero andata al capezzale della nonna.
Dopo che il telefono fisso mi aveva svegliato tra gli incubi di una notte qualunque, dopo che ero corsa giù per le scale tenendomi al muro per non cadere, dopo che mi ero seduta sul divano, dopo che avevo chiesto una pausa alla voce dall’altro capo, perché non riuscivo a capire, dopo che mi aveva spiegato che respirava male, dopo che mi aveva chiesto se doveva chiamare l’ambulanza, dopo che ci avevo pensato, dopo che avevo risposto di no.
E lì ero rimasta sola poi dal mattino mentre albeggiava,tra i suoi sospiri periodici, il gorgoglio dell’umidificatore, il soffio dell’ossigeno, il rollio lieve dei carrelli in corridoio, i passi svelti del personale, il ticchettio dell’orologio a muro. Anch’io non mi sentivo bene. Ma questo a mio figlio non potevo dirlo.
Non lo potevo dire a nessuno.
Solo chi è passato dall’inferno se lo può ricordare.
Ale annuiva piano mentre gli parlavo. Si era calmato. Restavano due gocce di lacrime ai lati del suo viso, appese.
Un altro respiro lungo. Feci chiudere la bara.
*
Subito non avevo riconosciuto la voce. ” Pronto. Pronto”. Quasi urlavo con insistenza, ero diventata un po’ sorda ultimamente. Me lo aveva confermato l’otorino.
Sorda, un poco accecata, con dolori lievi, a volte intensi, che non mi lasciavano già dal letto, già dal mattino.
Subito mi era parso Ale, ma il tono non era quello spensierato del mio ragazzo.
” Sono io”. E in tutta quella breve frase un lampo. Una vita.
Era la frase che Marco usava per svegliarmi. Vivevamo insieme da poco, allora, seppur fratelli.
Mia nonna Elsa veniva a casa nostra tutti i martedì e giovedì di ogni settimana comandata. E mia madre nello stesso istante usciva. Ci preparava una minestrina gustosa alle sette di sera, lavava i piatti, raccoglieva la biancheria sporca nella sua borsa di cuoio e poggiava un pacco profumato di appretto di biancheria stirata sul tavolo, senza dire una parola.
Tutti i sabati pomeriggio veniva a prendere mio fratello per lasciare la figlia tranquilla col marito e a me alla domenica, dopo la Messa.
Passavamo così da nonna Elsa tutti i fine settimana, tra semolini dolci e bistecche impanate piccole e sottili e patate a quadretti, che solo a tagliarle ci aveva messo una giornata.
Io poi andavo nella sua camera a studiare tutto il pomeriggio, mentre mio fratello le faceva compagnia sul divano mentre guardavano ” Domenica in”.
Poi la domenica sera, prima delle otto ci riaccompagnava casa. Prendevamo due pulmann e due coincidenze. E poi tornava a casa, prima che fosse troppo tardi. Io la guardavo dalla finestra della camera, mentre attraversava il corso ed aspettavo, senza dire niente a nessuno, finché risaliva sul pulmann.
Nonna Elsa cercava di trattarci allo stesso modo. Allo stesso modo eravamo i figli di sua figlia. Anche se io ero vissuta con mio padre e lui col suo e mia madre.
A nove anni arrivai a casa loro coi miei quattro vestiti buoni, i quaderni, il portapenne ed i libri. Che ho potuto sistemare in un unico scaffale della sua cameretta.
Che poi era un salotto, col tavolo rotondo al centro, ricoperto da un copritavolo all’uncinetto, circondato da quattro sedie imbottite di tessuto arancio, come parte delle antine dell’enorme armadio a muro, che arredava le pareti, su misura.
Il resto delle ante era color panna tra intermezzi ciliegio scuro, la moquette blu e i tendoni che impedivano alla poca luce di entrare, che rendevano tutto così scuro, anche nelle giornate di estate. Il neon della plafoniera illuminava solo un cono, sotto cui si doveva stare per poter studiare.
Il letto di Marco era stato previsto dal mobiliere. Un letto incassato nella parete, che veniva tirato giù solo poco prima di andare a dormire. Chiuso con una chiave inarrivabile per noi due bambini.
Il mio era un mobile letto, di quelli aggiunti per gli ospiti. Il materasso lo ripiegavo insieme alla rete al mattino, piegando insieme anche le gambe del letto di metallo, e le lenzuola , le coperte. Tutto fino a sera. Anch’io avevo il divieto di stendermici, fino a prima di coricarmi. A meno che non avessi la febbre. O dovessi andare a letto senza cena e chiudermi dentro quella stanza da sola, al buio, per castigo.
Allora era il momento che mi tornavano a trovare. Incubi a voce alta, incontrollati, incontrollabili. Nonostante Aldo, suo padre, se ne fosse lamentato più volte con mia madre, perché svegliavo tutti. Svegliavo il figlio Marco, che dormiva nella cameretta con me e svegliavo lui, soprattutto.
*
E mia madre me ne aveva parlato, una mattina, mentre facevo colazione.
Io bevevo il the e lei era quasi imbronciata, un po’ in imbarazzo davanti alla figlia che aveva solo creato problemi a tutti. E adesso non la smetteva con questo fatto, increscioso, di urlare la notte.
” E allora che avevi da urlare?”mi domandò . ” Non lo so” risposi.
“Come non lo sai? E’impossibile”. “Non mi ricordo”, tagliando corto, sempre, con sta storia della memoria. Mentre sorseggiavo il the caldo col limone. Lo sa che mi fa schifo il limone. Pensa che mi passi la nausea. Non mi passerà mai.
Ero dietro la poltrona verde della mia cameretta che avevo da mio padre. Nascosta nel buio sentivo un respiro affannato e vicino. Troppo per non avere paura.
Cosi avevo iniziato ad urlare:” Papà? Sei tu?”. Ma il respiro non cessava. Si faceva più vicino. ” Papà, papà. Aiutami”. Pensavo di essere al limite della disperazione, della paura.
Fu lì, che sentii per la prima volta la sua voce flebile:” Sono io”. E tutto passò. Aprii gli occhi e vidi tra la porta a vetri smerigli e la luce del bagno una figurina accanto a me. Marco, in piedi.
Fu lì che capii che avere un fratello, anche se conosciuto tardi, anche se pareva non mi volesse bene, anche se non avevamo lo stesso gruppo sanguigno, fosse importante.
Ora sentii lo stesso tono, tremulo :” Sono io”.
Feci due calcoli veloci. Doveva avere settant’anni.
E che voleva da me dopo venti anni di silenzio, dopo che aveva interrotto ogni comunicazione, dopo che non si era presentato al funerale di nostra nonna, dopo che era sparito dalla mia vita, come chi non ci è mai entrato davvero?
Avrei potuto buttare giù, staccare la comunicazione, il telefono, il filo.
Invece mi venne in mente mia nonna Elsa quella mattina dove l’odore di umido impregna l’aria. Respirava male. Mi riconobbe appena.
Poi, quando fu sicura che fossi io, mi strinse la mano nella sua, fredda, marezzata.
Sussurrava.” Promettimi che non litigherai con Marco, che non farai come hanno fatto tua madre e sua sorella.Mai. Promettimelo”.
Ed io promisi. Solennemente annuii piu volte col capo e risposi:” Te lo prometto, nonna Elsa”.
Era arrivata l’ora. Avrei potuto buttare giù e tutto sarebbe stato dimenticato. Gli anni insieme, i vent’anni lontani e le ingiustizie, le menzogne, le promesse non mantenute.
Invece risposi:” Come hai fatto a trovarmi? “.
Silenzio.
Che era già più di niente.