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L’ABETE DEI SOGNI di Sonia Scalia. Primo livello – Corso Adulti

L’abete dei sogni
di Sonia Scalia
Primo livello – Corso Adulti

Le parole del mister aleggiavano come stelle filanti nella testa di Leo. Era su di giri. Il ragazzo sapeva che i sacrifici immensi a cui si era sottoposto in quegli ultimi due anni, lo avrebbero portato al traguardo che si era prefisso. I suoi genitori per primi lo avevano incoraggiato a perseverare. La corsa prima di andare a scuola, e i pomeriggi estenuanti ad allenarsi in pista, correndo i 400 metri in tempi sempre minori, finalmente, gli avrebbero permesso di partecipare alle Olimpiadi giovanili che si sarebbero disputate in giugno. Leo voleva urlare di felicità. Per questo, mentre tornava a casa dagli allenamenti, si diresse su per la collina. In cima alla quale lo aspettava un vecchio amico solitario: il maestoso abete. Quello era un posto davvero speciale per Leo. Con quell’abete era cresciuto. Aveva pianto e riso. Sfogato momenti tristi e condiviso quelli belli. L’abete gli faceva compagnia quando salutava la partenza dei genitori. E allo stesso tempo il loro arrivo in automobile. Nel prato, sotto quell’ombrello di rami e foglie aveva imparato a camminare e a correre. Correre: la ragione della sua vita. Come poteva dimenticarlo. Era grato allo spirito di quell’albero che lo vegliava e gli dava la forza di credere in se stesso. Lo sentiva come uno di famiglia.
Nel cielo scesero intanto i fili rosa del tramonto filtrando tra le foglie dorate che pendevano dai rami.
D’un tratto, da dietro il tronco massiccio spuntò Bimba, il pastore tedesco del signor Kadinski. Con un balzo gli andò incontro agitando festante la sua pettorina rossa con impressa una croce bianca.
Il cane pareva volesse festeggiarlo. Leo si chinò e gli strinse le braccia attorno al collo. Poi insieme scivolarono nel secco tappeto autunnale. Leo rise. Il suo sogno stava per coronarsi. E proprio quel pomeriggio il mister glielo aveva ribadito di fronte l’intera scolaresca. Che emozione! Aveva detto che se c’era qualcuno che poteva vincere quella competizione, di sicuro era Leonardo Mancini. Lo attendevano dei mesi faticosi ma lui non avrebbe ceduto alla stanchezza. Nonostante la giovane età, Leo aveva le idee ben chiare riguardo la sua carriera di atleta. Aveva ereditato la tenacia di sua madre e la caparbietà del padre. E nulla gli avrebbe impedito di salire sul podio della più importante manifestazione riservata ai minori di quattordici anni.
<<Bimba, torna qui!>> La voce di Orlando Kadinski lo riscosse da tanti sogni di gloria. Era davanti al suo cavalletto, la tavolozza dei colori in mano. Anche lui trascorreva parecchie ore in quel luogo magico.
Leo si avvicinò al pittore. Bimba lo seguì a ruota e di corsa andò a sfregare il musetto nei pantaloni del padrone come a volerlo tranquillizzare.
<<Sei tu, Leonardo Mancini>> chiese Kadinski, gli occhiali scuri sul naso. Era intento a sfregare le dita impiastricciate sulla tela. <<Odori di terra e fango. Hai corso all’ippodromo, oggi?>>
Leo abbozzò un sorriso in segno di saluto. Ormai si era abituato ai modi un po’ scorbutici del vecchio Orlando. Di sicuro amava l’abete tanto quanto lui. Altrimenti, pur essendo suo vicino di casa, com’è che lo aveva incontrato sempre e soltanto lassù. In quel preciso momento, Leo portò una mano alla fronte, che stupido si disse ripensando al signor Kadinski, lui non poteva vedere il suo cenno.
<<Sì, sono io>> si annunciò Leo a voce alta. E quando giunse alle sue spalle, sporse la testa per osservare meglio il quadro. Il ragazzo sgranò gli occhi mentre stupefatto si soffermava sui dettagli. Il dipinto presentava la scena di un picnic. C’era una bambina che frugava curiosa dentro un cestino portando un toast alla bocca, mentre una coppia di adulti era beatamente seduta accanto a un cane munito di collarino, lo stesso di Bimba, e godeva del paesaggio all’ombra del grande abete. La veduta era mozzafiato, forse ancora più bella della realtà. Minuscole stradine s’inerpicavano lungo il pendio, sormontando le colline e circondando i magnifici vigneti della zona. E in effetti, assaporata con gli occhi la bellezza del quadro, Leo poté respirarne perfino i sapori. Erano lì, tutt’attorno a lui. L’agrodolce della vendemmia, la corteccia legnosa, l’aria frizzante portata dal tramonto e non ultimo, il muschio bianco del dopobarba del pittore accompagnato dal respiro pesante del cane.
Il pittore silenzioso, occhio e croce sessantenne, non badò all’intrusione del ragazzo e proseguì nella rifinizione dell’opera. Intinse i polpastrelli nel colore e con tocchi decisi ne marcò i giochi di ombre e di luce. A dire il vero, Leo ebbe la sensazione che Kadinski stesso fosse finito dentro quel quadro e stesse godendo di quell’intima scena familiare.
<<Si sta facendo buio. Posso accompagnarla?>> lo disturbò Leo. Abitavano a due passi l’uno dall’altro per questo aveva pensato di fare strada insieme e chiacchierare un po’.
Orlando Kadinski arricciò il naso.
<<Ehi ragazzo, so bene come si arriva a casa mia>> gli rimbrottò contro. <<Vuoi farmi credere che ti importa di me. Di un vecchio cieco. Tornatene a casa Leonardo. Dai!>>
Il ragazzo non se la prese. Sapeva, quanto fosse suscettibile il suo vicino. E comunque, Bimba lo marcava stretto senza perderlo di vista un istante. Dunque Leo li salutò entrambi, e prima di andare via, fece una pausa ai piedi dell’abete. Ne accarezzò un ramoscello bisbigliando qualcosa poi si affrettò a rincasare.
Ridisceso il pendio, pur se ancora distante da casa, Leo riconobbe la sagoma pacioccona della badante. Lo aspettava all’ingresso mentre impagliava dei fiaschi. I lampioni illuminavano a giorno l’intero caseggiato mettendo in risalto i colori sgargianti della veste della donna. Aveva un turbante verde in testa e indossava delle stole gialle, verdi e arancioni sovrapposte, lunghe fino ai piedi.
< <Eccomi. Ci sono riuscito Maddy>> le disse varcata la soglia di casa.
<<Lo sapevo>> fu la risposta compiaciuta della badante. Adorava quel ragazzino. Lo aveva cresciuto fin dalle fasce donandogli un po’ di sano temperamento marocchino. <<Corri a chiamare i tuoi>>.
Leo non se lo fece ripetere due volte. Sollevò la cornetta del telefono e prese un blocnotes su cui erano appuntate una sfilza di date relative alla tournèe dei suoi genitori: erano entrambi musicisti.
<<Oggi è il 12 ottobre, dunque l’orchestra si esibisce a New York>> e fece scivolare il dito sulla riga accanto alla data. Ci trovò il numero della stanza di hotel in cui Anna e Carlo Mancini soggiornavano. Lo compose. Era elettrizzato al pensiero di informarli della grande notizia. Chissà quanto sarebbero stati orgogliosi del loro unico figlio. Al quarto squillo ancora nessuna risposta.
Maddy gli diede una pacca premurosa. Leo sorrise. Li avrebbe richiamati più tardi. Carlo e Anna suonavano rispettivamente la tromba e il pianoforte nella famosa Orchestra Sinfonica Galaxy. Facevano tappa in tutti i maggiori teatri del mondo lavorando 300 giorni su 360. Tornavano nella loro casa a Settignano in Toscana poco prima del Natale, e nel periodo estivo, tra giugno e luglio. Erano due persone straordinarie perciò Leo li amava esattamente com’erano. E sebbene ne avvertisse la mancanza, il ragazzo li sentiva molto vicini. Anche perché Anna e Carlo gli telefonavano quotidianamente e pretendevano di sapere ogni cosa, sia bella che brutta lo riguardasse. Inoltre, poteva contare sul loro appoggio e sostegno in qualsiasi circostanza. La decisione di accettare una lunga tournèe in giro per il mondo, lavorando tanto distante dal figlio, per diversi mesi all’anno, non era stata delle più facili. Ma lasciandolo con Maddy gli davano l’opportunità di avere una vita più stabile. Tra l’altro, Maddy, la donna marocchina che se ne occupava, lo trattava con amore come fosse figlio suo.
<<Sei andato a salutare il Principe?>> interruppe il filo dei suoi pensieri la donna portando a tavola la cena etnica. Utilizzava questo nomignolo come gli altri abitanti del paese, per riferirsi all’abete alto pressappoco cinquanta metri.
<<C’era pure Kadinski>> le rispose Leo.
<<Ah, pover’uomo! Sono anni che non si fa vedere giù in paese>> mormorò Maddy e di proposito lasciò cadere la conversazione. Non le andava di rattristare Leo, felice com’era.
Quella sera Leo riprovò a chiamare la sua famiglia ma senza successo. Il concerto immaginò si fosse protratto più a lungo nell’ovazione del pubblico ai musicisti. Sorrise all’idea e si ripromise di telefonare l’indomani dopo la scuola. Non vedeva l’ora di raccontare tutto ai suoi genitori. Ma il ragazzo non poteva di certo prevedere cosa stava per succedere. Quella telefonata non ci sarebbe mai stata e forse il suo sogno, infranto per sempre.
Il mattino seguente Leo di buon umore si recò a scuola. Le lezioni si susseguirono piacevoli. Nessuna interrogazione a sorpresa. E agli allenamenti superò se stesso, riuscì a bruciare un altro secondo durante il giro in pista. Era al settimo cielo.
Con lo zaino in spalla, traboccante di gioia si accinse ad attraversare la strada e imboccare il sentiero. Voleva andare all’abete, per ringraziare il suo angelo custode e rendere partecipe pure Kadinski, che in fondo, pur cercando di mostrarsi indifferente, pareva gradire molto la sua compagnia e lo ascoltava a cuore aperto, e Leo aveva proprio voglia di parlare all’infinito.
Il ragazzo ancora sul ciglio della strada alzò gli occhi al cielo. Coltri di nuvole lo oscurarono. Un acquazzone era in arrivo. In lontananza udì un clacson strombazzare. Si voltò a sinistra e vide un furgone azzurro lanciato a gran velocità. Sbandava e frenava a più riprese invadendo anche la corsia opposta. Poi parve riprendere il controllo. D’un tratto però puntò dritto verso Leo. I suoi muscoli si paralizzarono. Uno stridio di pneumatici e nel giro di pochi secondi quel furgone gli piombò contro. Il ragazzo emise un urlo e poi nulla. Come coriandoli sparsi per terra, i sogni di Leo gli piovvero addosso allagando di tristezza la sua vita. Nel frattempo la pioggia scrosciante né colpì il corpo svenuto a causa del violento impatto.
Subito accorse gente da ogni dove e immediati arrivarono i soccorsi.
In seguito Leo ebbe difficoltà a ricordare l’incidente ma da subito si rese conto che il dolore lancinante alle sue gambe lo avvertiva di un danno assai serio.
Furono i suoi genitori a raccontargli l’accaduto. Appresa la notizia avevano preso il primo volo per la Toscana. Da loro seppe che quel giorno un uomo di mezza età si era addormentato alla guida del suo furgone. Non sapeva dire per quanto tempo, forse pochi attimi, ma appena riaperti gli occhi se l’era ritrovato davanti. L’uomo era stato dimesso pochi giorni dopo l’incidente con delle contusioni al viso e al braccio. Leo invece, e di questo era esausto, aveva passato due mesi in un letto d’ospedale. Dopodiché, dimesso su una sedia a rotelle.
Adesso se ne stava per conto suo nella casa di Settignano ed evitava di parlare della sua carriera e della competizione di giugno. Si sentiva deluso come se lo spirito dell’abete che lo aveva protetto fino ad allora, d’un tratto si fosse accanito contro di lui affinché non realizzasse i suoi sogni.
<<Ci sono visite Leo>> lo chiamò la madre. Anna e Carlo erano costretti a ripartire tra meno di una settimana. La tournée era stata sospesa in quei mesi. E sebbene non volessero distaccarsi da lui, il medico li aveva rincuorati che Leo avrebbe ripreso l’uso delle gambe. La colonna vertebrale non aveva riportato danni. L’immobilità di Leo era dunque temporanea, causata dal contraccolpo subito nell’urto. Forse uno spirito invisibile lo aveva protetto. La questione era quella di credere di nuovo in se stesso.
Leo spalancò gli occhi alla vista di Orlando Kadinski preceduta da un tuffo d’angelo da parte di Bimba. Era bello rivederli.
<<Ehi campione>> Era la prima volta che il pittore lo chiamava così. Aveva una voce gentile, di cui, Leo si sentì scocciato. Non voleva essere compatito. Ora che il suo sogno di partecipare alle Olimpiadi Giovanili era andato in fumo. Poi colto dalla rabbia si rese conto di come lui e il suo vicino di casa non fossero invece, più simili di quanto pensasse. Ricordò la reazione di Kadinski quando, l’ultima volta in cui si erano visti, lui si era offerto di accompagnarlo. Si era sentito compatito perché cieco? E ora chi è che si sentiva compatito, lui?
<<Quanto tempo!>> fece a tempo a dire Leo mentre rotolava abbracciato a Bimba sul pavimento.
Anna preoccupata si precipitò pronta a tirarlo su, ma Leo stava ridendo, finalmente. E Bimba abbaiava divertita.
Da quel giorno e nella settimana che precedette la partenza dei suoi genitori, Leo e Kadinski passarono parecchio tempo insieme diventando praticamente inseparabili. Pian piano tra loro si delineò un rapporto di fiducia e di amicizia, e le parole che scambiavano aumentarono di numero. Leo oramai manovrava la carrozzina come un pilota di formula uno, e pareva non volesse più distaccarsene. Perciò Kadinski che lo guardava con gli occhi dell’anima, quando giunse la partenza di Anna e Carlo, approfittò per ricondurlo all’abete. Li avrebbe ritrovato la forza di credere in se stesso.
Pur se in carrozzina Leo s’inoltrò per il sentiero. Il signor Kadinski lo aspettava con Bimba sotto l’abete. L’automobile dei genitori percorse un tratto di strada e due mani si protesero dal finestrino. Leo era in cima alla collina e si sbracciò per salutarli come faceva prima dell’incidente.
<<Riuscirai a perdonarli?>> gli chiese il pittore e gli poggiò una mano sulla spalla.
<<Non sono arrabbiato>> rispose Leo colto alla sprovvista da quella domanda. Continuò ad agitare le braccia per essere sicuro che Anna e Carlo potessero vederlo.
<<Sono partiti e tu sei su una sedia a rotelle>> proseguì duro il pittore . <<La cosa non ti irrita?>> Kadinski stava cercando di smuoverlo. Di farlo riflettere, di fargli capire che ognuno di noi è responsabile della propria vita. Ma non poteva prevedere che a riflettere sarebbe stato pure lui.
<<No. I miei genitori mi amano e sono tornati al lavoro proprio perché credono in me. Credono che io possa guarire>>.
Orlando, come se il ragazzino in qualche modo avesse riaperto una ferita troppo profonda, stupito e allo stesso tempo commosso dall’incapacità di quel tredicenne di provare una qualsiasi forma di collera nei confronti dei genitori, si lasciò andare al fluire dei ricordi. Abbattendo un muro di silenzi innalzato da dieci lunghissimi anni.
<<Sono cieco dalla nascita, ma non ho mai sofferto per questo. Del resto, non occorrono occhi per vedere…>>
Pur se non comprendeva le sue parole, Leo lo ascoltò senza fiatare. Temeva di interrompere la complicità di cui il pittore lo stava rendendo partecipe.
<<Ero felice e sposato. Non sono sempre stato un vecchio solo e bisbetico>> gli disse con un sorriso e accarezzò il muso di Bimba.
<<Non l’ho mai pensato signor Kadinski>> rispose piano e fece una pausa per farlo continuare. Era bello ascoltarlo.
<<Adoravo Jacqueline, mia moglie e nostra figlia, la piccola Lorin. Aveva pressappoco la tua età quando sua madre morì. Ma Lorin ha scelto di andare a vivere con la nonna invece di restare con me, con suo padre. Sono dieci anni che non la sento. Come ha potuto?>> Il signor Kadinski tremava e per evitare che Leo se ne accorgesse riprese la tavolozza dei colori. Questa volta la tela posta sul cavalletto raffigurava il Principe.
<<Sono certo che anche Lorin sarà triste e vuole rivederla signor Kadinski>> si premurò di ricordargli Leo.
<<Nient’affatto. La verità è che mi odia>> Il pittore pronunciò secche queste ultime parole lasciando cadere il discorso.
Soltanto ora Leo capiva quell’uomo tanto solo, il perché non si fidasse di nessuno. Stava male per la figlia. Non le perdonava quel colpo basso. Intanto immerso nelle sue riflessioni il ragazzo si rese conto che sulla tela del pittore c’era, identico all’originale, l’abete. In tutta la sua maestosità.
<<Non capisco come ci riesci se…>> cercò di spiegarsi Leo.
<<Cosa?>> domandò Orlando. <<Se non ci vedo? E questo che vuoi dire? Te l’ho detto, con gli occhi della mente. È la forza dell’immaginazione Leo. È lei che mi da gli occhi per vedere e a te darà le gambe per camminare, e la gioia di sognare ancora>>.
In quel preciso istante Leo si abbrancò a Kadinski.
<<Lo voglio Kadinski! Lo voglio!>> urlò con quanto fiato in gola. E piangendo tentò di sollevarsi. Ma le sue gambe si rifiutavano di reggerlo. Erano pesanti. Ebbe la sensazione di sprofondare. La testa girava.
Il pittore lo incitava a non mollare. <<Forza Leo! Sei un vero campione!>>
Le palpitazioni accelerarono e Leo barcollante si aggrappò alla camicia di Kadinski, tenne duro.
Voleva camminare. Voleva correre. Voleva vivere. Voleva sognare.
Quella fu la prima volta che Leo riuscì a mettersi in piedi. Le lacrime rigarono anche il viso del pittore che lo tenne a lungo stretto in un abbraccio paterno. Leo provò una gioia indescrivibile. Comprese finalmente cos’era la forza che emanavano i quadri di Kadinski, lui viveva dentro quei sogni. Ed era arrivato il momento di farli diventare realtà.
A casa, Leo raccontò a Maddy, e ai suoi genitori per telefono, degli insegnamenti di Kadinski, il suo continuo incoraggiamento e soprattutto dei progressi della giornata. Seppe in cuor suo, che presto avrebbe camminato e perché no, sarebbe tornato in pista tra i favoriti. Quella pista dove un tempo si allenava per partecipare alle Olimpiadi. Poteva farcela.

La primavera a Settignano sbocciò in un’esplosione di fiori, piante e colori. Grazie all’aiuto del vicino, Leo non si era arreso. Aveva creato per se il futuro più bello che un ragazzo potesse desiderare. L’immaginazione trasformava la realtà e lui ora lo sapeva. Ora che faceva lunghe passeggiate in compagnia di Kadinski e corse furibonde con Bimba. Aveva ripreso gli allenamenti e presto sarebbe tornato in forma e forse, ancora più veloce di prima. La carrozzina era solo un ricordo.
In giugno a Roma si tennero le Olimpiadi. Leo pur partecipando non vinse ma era felice uguale. Lui era un’atleta. E dopo tutto quello che aveva passato, ora ci credeva davvero. D’altro canto, i suoi tredici anni gli permettevano di riprovarci l’anno successivo.
Di ritorno a Settignano, in una splendida mattina soleggiata, il paese organizzò una festa in suo onore. Tutti volevano festeggiarlo. Parteciparono anche Anna e Carlo Mancini tornati dalla tournèe; Maddy che preparò dei gustosissimi dolci a base di riso e cannella; i compagni di scuola, gli insegnanti, l’allenatore di atletica e pure Kadinski e Bimba, nemmeno loro vollero perdersi la festa.
E Leo, era molto riconoscente a Orlando Kadinski, perciò aveva in serbo qualcosa di molto speciale per lui. Qualcosa che doveva ancora diventare realtà.
D’improvviso Bimba sparì tra la folla. Il pittore la chiamò senza ricevere in cambio nessuna risposta.
<<È andata per di là>> fece Leo. <<Andiamo a riprenderla!>> Poi lo prese sottobraccio e insieme imboccarono il sentiero che portava alla collina.
Il corteo li seguì. Con in coda la banda musicale al completo risalirono l’altura fino all’abete. In pochi minuti un serpente di gente festante approdò sulla collina del Principe.
Di colpo quel nugolo di persone si zittì. Davanti ai loro occhi si presentarono, disposti gli uni vicini agli altri, una varietà di teli multicolore. Tavoli imbanditi di cibo, toast ripieni e caraffe piene fino all’orlo di succo d’uva e di mela. E sull’abete, i compaesani del pittore, vi appesero dei fogli dentro cui ognuno aveva scritto il proprio sogno.
Quello sarebbe stato un picnic davvero speciale per Kadinski e un giorno memorabile per l’intero paese.
D’improvviso un cane abbaiò. Una, due, tre volte. Kadinski lo riconobbe, era Bimba. La teneva al guinzaglio una donna bionda sulla ventina.
<<Papà!>> lo chiamò, baciandolo sulla guancia. <<Ho avuto paura. Non volevo abbandonarti>>.
Orlando Kadinski era commosso. Le sue labbra tremolavano.
<<Mi sono trasferita dalla nonna perché mi ricordava tanto la mamma. Ero solo una bambina… Lo sai che non sono brava con le parole!>>
<<Tu no, ma lui sì!>> fece il pittore e puntò l’indice verso Leo come se potesse vederlo. Dopo dieci interminabili anni Kadinski riabbracciò la figlia. Quel tredicenne lo aveva aiutato a realizzare il suo sogno.
Poi il pittore addentò un toast, e col cuore pieno di felicità ammise a se stesso che quello era il sogno più bello che avesse mai fatto. Era la realtà.

IO SONO IMMORTALE di Alessio Scalia. Primo Livello Adulti. Corso di scrittura online

IO SONO IMMORTALE
di Alessio Scalia
Primo Livello – Corso Adulti

Accarezzai i capelli lisci e biondi di Gabriel mentre sorrideva estasiato. A cinque anni è più che normale esplodere di gioia anche per una piccola escursione nel bosco. Eppure, ogni volta, quella sua reazione spontanea mi provocava sentimenti dolci e conditi di vero amore.
“Tornate presto!” disse Sasmira, dando un bacio a lui e uno a me. Era una Venere con capelli lisci neri, un fisico sottile e il nasino all’insù. Le dicevo spesso che assomigliava ad una fata, e lei ogni volta reagiva sollevando gli angoli della bocca, compiaciuta. Dopo essere stata afflitta da una lunga malattia nella zona del basso ventre, Sasmira aveva creduto di non poter avere figli, perciò ne aveva desiderato uno con tutto il cuore. Quel bambino, nato come per magia, l’aveva resa mamma e adesso eravamo la famiglia più felice del nostro villaggio.
Come quasi tutte le mattine io e Gabriel ci recavamo nel bosco. Il piccolo adorava raccogliere viole profumate per poi regalarle alla sua adorata mamma. Gli piaceva posarle delicatamente tra la sua chioma scura e osservarla incantato. A dire il vero anch’io la preferivo con un fiore fresco in testa. Gli donava davvero.
Presi in braccio Gabriel e lo portai a cavalcioni sulle mie spalle possenti per farlo sentire un vero gigante.
“Corri papà” urlò divertito.
Da grande voleva diventare un guerriero di un metro e novanta tutto muscoli come me, suo padre. Il mio viso, così come il corpo, mostrava i segni delle dure battaglie che avevo combattuto. Ma dopo la nascita di quell’angioletto avevo detto basta. Non potevo più rischiare di perdere la vita e lasciare soli moglie e figlio. Già da tre anni mantenevo fede alla mia promessa.
Intanto, alzai gli occhi e notai che il cielo era sereno e una leggera brezza smuoveva le foglie degli alberi. Il sole, ancora debole, batteva sulla pelle in modo piacevole e confortante.
L’incontro inaspettato con uno scoiattolo impressionò piacevolmente Gabriel.
“Che bello, guarda!” gongolò stupefatto, indicando il roditore che sgattaiolava.
Dopo cinque minuti di marcia in allegria e spensieratezza, mi decisi a mettere giù il piccolo e subito cominciò a scalpitare tra l’erba. Un tappeto di viole si presentò davanti ai nostri occhi. Gabriel spalancò la bocca in un sorriso puro e si chinò a raccoglierne qualcuna, ma all’improvviso lo vidi flettere le gambe e crollare a terra sovrastato dall’erba alta. Non si rialzò più.
“Gabriel!” urlai precipitandomi a raccoglierlo. Lo presi tra le braccia. Era privo di conoscenza, gli occhi serrati. Vederlo conciato a quel modo orribile mi terrorizzò a morte e pensando subito al peggio portai l’orecchio al suo torace. Il cuore batteva ancora, grazie al cielo.
Tornai di corsa al villaggio con Gabriel tra le mani e mi diressi in casa di Igan, lo stregone. Era l’unico che conosceva i segreti della guarigione e l’unico che poteva aiutarmi.
Intanto Gabriel in preda agli spasmi sudava freddo, il viso violaceo, le labbra pallide.
“Cos’è successo?” chiese lo stregone, lasciandomi entrare.
“Non lo so! È piombato al suolo di soppiatto e non si è più rialzato!” spiegai con la voce incrinata. Adagiai quel piccolo corpicino privo di energia su un letto.
Dopo una lunga visita e vari controlli Igan, si accarezzò la barba bianca chiaramente preoccupato.
“Ha pochissime speranze di sopravvivere!” disse cupo.
In quel momento era come se il mondo mi fosse crollato addosso. Non potevo accettare un verdetto del genere, mai!
Mio figlio Gabriel aveva contratto un virus sconosciuto. Per Dio, morire a cinque anni!
“Dobbiamo salvarlo!” esclamai determinato. Gabriel era ciò che di più caro avevo al mondo, non potevo perderlo.
Igan inumidì una panno nell’acqua tiepida e glielo poggiò sulla fronte, poi si voltò verso di me con lentezza.
“C’è solo un modo, Tancan” mi rivelò in tono spento. “Devi portarmi la pianta notturna!”
Quella pianta magica era in grado di guarire un umano da qualsiasi malattia. Lo sapevano tutti. Era l’unica via di salvezza per la creatura innocente.
“Dove posso trovarla?” chiesi, pronto a tutto pur di restituirgli la possibilità di vivere.
“L’unico posto dove cresce… è la caverna di Sibila: la Donnaragno!” rispose con un fil di voce.
Deglutii sconvolto.
“Maledizione!” borbottai tra i denti. Strinsi i pugni con forza fino a farli tremare.
Si diceva che quel mostro spietato, uccidesse chiunque tentasse di estirpare la pianta notturna dalla sua tana, anche i guerrieri più valorosi. Nessuno era riuscito a sopravvivere contro quella belva sanguinaria, proprio nessuno, e adesso toccava a me…
Sì, ero abile con la spada, ma non credo sarebbe bastato a darmi la vittoria, avevo bisogno di qualcos’altro, ma cosa?
Sasmira, intanto, informata da qualcuno, con il volto in lacrime e pallido, piombò in casa dello stregone. Aveva il fiatone ed era visibilmente scombussolata.
“Gabriel! Piccolo mio!” farfugliava. Le accarezzò il viso in preda alla disperazione più totale. Lui, sdraiato sul lettino, con il corpo inerme non rispondeva e respirava malamente.
Io sono il padre, ed è mio dovere tentare il tutto per tutto, pensai. Gli restavano solo due miseri giorni di vita.
Prima di lanciarmi in quella missione suicida, decisi ancora una volta di chiedere aiuto al saggio stregone.
“Igan ti prego” implorai. “Donami un grande potere. Devo sconfiggere Sibila. Farò tutto ciò che vuoi”.
Lo stregone mi fissò con i suoi occhi neri e penetranti, poi, con tutta calma bevve un sorso di tisana bollente da una tazza di porcellana bianca. Infine propose: “Ti offro l’immortalità. Ma… voglio in cambio le tue ricchezze. È un rito troppo pericoloso quello che dovrò fare per aiutarti e potrei anche morire”.
“Non puoi concederla a mio figlio, l’immortalità?”
Igan scosse la testa.“No! Questo tipo di magia è troppo potente. Lo ucciderebbe all’istante!”
Non avevo scelta. “Accetto!” dissi.
Monete e averi in confronto alla vita del mio bambino non valevano un bel nulla.
Lo stregone si spostò rapidamente in una stanza dove c’erano una miriade di vasi e alcune sedie in legno massiccio. Io ovviamente lo seguii.
“Siediti Tancan!” ordinò con voce pacata. “Rilassati e respira profondamente”.
Mi lasciai cadere su una di quelle sedie dure e scomode.
Igan scelse accuratamente un vaso in ceramica decorato e, dopo aver recitato una breve preghiera, vi immerse una mano.
“Questa è una polvere magica, è il corpo di tre guerrieri invincibili: Iderc, Etni, Ossets” dichiarò. Poi estrasse le dita impregnate di grigio e le strofinò sulla mia fronte, invocando più volte: “Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora! Spiriti dei guerrieri, donate l’immortalità a Tancan, ora!” E ogni volta alzava il volume della voce fino a urlare a squarciagola. Gli tremavano le mani, il viso diventò rosso porpora, sembrava fare uno sforzo immane.
A un tratto sentii un brivido freddo scorrermi lungo la spina dorsale e una potente energia vibrare nel mio corpo. Ero diventato immortale!
Igan tirò un sospiro di sollievo. “Bene!” sussurrò chinando il capo. Con la manica della tunica si asciugò la fronte imperlata di sudore.
Potevo partire per la missione.
Tornai da Sasmira per avvisarla del viaggio che avrei dovuto intraprendere. Era ancora china sul letto a cullare il suo bambino malato.
“Ti prego!” supplicò mia moglie speranzosa. “Torna vivo e portaci la pianta notturna!”
“Sta tranquilla” risposi stringendola a me. “Sono immortale adesso!”
Sasmira mi lanciò un’occhiata perplessa, però non disse nulla. Era troppo sconvolta e stremata per fare domande. E comunque lei non era al corrente del patto che avevo fatto con lo stregone.
Uscii da quella casa armato fino ai denti e a passo deciso mi incamminai verso il bosco, quando la sera calò all’improvviso.
Il cielo era una distesa oscura priva di stelle. L’aria gelida mi penetrava le ossa e il vento ululava. Dopo aver marciato per un’ora e superato un labirinto di alberi e fitti cespugli, finalmente giunsi alla caverna di Sibila.
L’ingresso era un enorme fenditura a forma di piramide.
Entrai senza esitare.
All’interno regnava l’oscurità, quindi accesi la torcia e aguzzai la vista. Determinato, avanzai lungo quel varco roccioso e mi ritrovai a calpestare un tappeto di ciottoli bianchi. Le pareti invece, erano umide, spigolose e rivestite da una sostanza biancastra appiccicaticcia.
La mente si affollò di pensieri angoscianti che mi facevano scoppiare le tempie. Non potevo essere sconfitto. Non potevo morire. Gabriel aveva bisogno di me e soprattutto della pianta notturna.
Sono immortale e invincibile, mi dissi, traboccante di coraggio.
C’era silenzio, un silenzio inquietante. L’aria puzzava di marcio e corpi in decomposizione. Infatti, sparsi per terra in un ammasso nauseabondo, scorsi scheletri umani, teste mozzate, corpi sbrindellati e fiumi di sangue. Soffocai un conato di vomito.
Sperai di trovare subito quello che cercavo e andarmene prima che la bestia mi vedesse.
Udii un rumore sinistro provenire dal profondo della grotta. Il cuore prese a martellarmi sul petto.
Poi, un sibilo terrificante echeggiò nelle pareti rocciose e il rumore di passi strascicati mi fece rabbrividire.
Un ombra sovrumana si stava avvicinando minacciosa.
Era Sibila. Aveva otto zampe piene di peli acuminati, e il volto… il volto era quello di una donna rugosa con capelli bianchi simili a ragnatele. Una fila di denti aguzzi e sporchi fuoriusciva dalle sue fauci gocciolanti di bava biancastra. Dagli occhi rosso sangue saettavano lampi maligni.
Era orrenda! Un mostro!
In quell’attimo sentii emergere dentro di me una forza immensa. Impugnai l’elsa della spada e feci vorticare la lama in avanti in segno di avvertimento.
“Come osi disturbare la mia quiete?” sibilò la bestia ibrida, sferrando il primo micidiale attacco. Si muoveva più veloce di quanto immaginassi.
Rapido mi spostai a sinistra schivandola, feci mulinare la spada in una rotazione da manuale e con un colpo perfetto gli mozzai una zampa. Rivoli di sangue e gemiti acuti.
“Sono immortale!” dichiarai in tono solenne “Stammi lontano o morirai! Mi serve solo la pianta per mio figlio!”
Ostinata, Sibila spalancò le fauci e spruzzò fili di fitta ragnatela collosa che si attorcigliarono al mio corpo, braccandomi. Tentai disperatamente di liberare un braccio, ma niente. Gemevo. Ero in trappola.
Sibila zampettava lentamente verso di me con espressione trionfante, pronta a sferrare l’attacco mortale.
Dimenandomi come un forsennato riuscii miracolosamente a sbloccare il braccio destro, sollevai la spada e trafissi quel volto terrificante. Dopo un urlo lancinante, il corpo orripilante crollò a terra, privo di vita.
“C’è l’ho fatta” esultai dentro di me.
Raccolsi la pianta notturna e cominciai a correre più forte che potevo verso la via del ritorno.
Giunsi al villaggio vittorioso.
Lo stregone selezionò accuratamente le foglie dell’arbusto magico e creò un intruglio verdastro. Lo spalmò sul torace nudo di Gabriel che, dopo un’ora finalmente riaprì gli occhi. Il colore della sua pelle tornò roseo e il respiro regolare. Sasmira e io scoppiammo a piangere. Abbracciammo il bambino come se fosse rinato. Fu una gioia immensa rivederlo sorridere e parlare.
“Mio figlio è salvo!” dissi allo stregone. “Sono immortale! Prendi pure le mie ricchezze”.
Lo stregone rise. “Tancan non sei immortale!” rispose. “Ma avevi bisogno che lo credessi”.
Rimasi allibito da ciò che udirono le mie orecchie.
“ Cos’era allora quella polvere grigia?” chiesi.
Lui si accarezzò la barba con aria di mistero. “ Come ti ho già detto era la polvere magica dei tre guerrieri invincibili, Iderc, Etni, Ossets. E se pronunci questi nomi al contrario diventano una frase: Credi In te Stesso!”
“Papà domani andiamo nel bosco a raccogliere viole e vedere scoiattoli?” ci interruppe Gabriel già in forze.
Mia moglie fece un sorriso gioioso e gli strinse le manine.
“Certo”risposi io accarezzando la fronte al mio angioletto. “E passeremo anche a salutare lo stregone Igan. Sai, grazie alla sua saggezza siamo di nuovo una famiglia felice”.

Emerald, l’elfa dei draghi di Teresa Di Gaetano

I nostri complimenti a Teresa che ha concluso con successo il percorso online dei corsi di scrittura di Moony Witcher e presenta a tutti noi il suo romanzo breve.

Emerald, l’elfa dei draghi
di Teresa Di Gaetano
Terzo livello adulti
Corso di scrittura online


Il racconto è anche scaricabile Emerald, l’elfa dei draghi di Teresa Di Gaetano.

LA CASA DEI MISTERI di Francesca Arcangeli. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

LA  CASA  DEI  MISTERI di Francesca Arcangeli

 

Primo Livello Bambini

Corso di Scrittura on-line

 

La chiamavano la casa dei misteri ed era disabitata da molti, lunghissimi anni.
Era sempre stata nota per l’orrenda fine dei suoi proprietari. Era una storia di cui i vecchi abitanti del paesino amavano ancora parlare per impaurire i piccoli e curiosi bambini della zona. La storia racconta che una volta lì ci viveva un duca, con sua moglie e due figli. Poi, una mattina cupa e scura, il giardiniere trovò la moglie e i figli del duca assassinati in salotto: il figlio maggiore quasi incenerito nel camino, la madre stesa sul divano e il più piccolo dei due figli appeso al soffitto. Nessuno sa cosa successe veramente quella notte ma una cosa fu certa: del duca neanche traccia. Nessuno però si stupì più di tanto dato il fatto che la famiglia, recentemente, aveva avvertito strane presenze come mobili che si spostano, oggetti che scompaiono e ricompaiono all’improvviso nei posti più insensati e il solito vento caldo che spostava le tende anche a finestre chiuse. La famiglia insomma aveva affermato che la casa era infestata da spiriti malvagi….

Era una fredda mattina di fine ottobre, l’aria era pesante e un leggero venticello pungeva il viso. Avevo sentito tutte le storie su quell’orribile casa ed ero decisa a scoprire cosa si nascondeva là dentro. Era una villetta isolata posta in cima ad una collina, piuttosto diroccata ma ancora visitabile e comunque ci sarei entrata lo stesso anche se il tetto potesse crollare da un momento all’altro. Il muro era scrostato e pieno di edera e in alcuni punti c’erano dei buchi grandi quanto un palmo di mano che la rendevano ancora più inaffidabile agli occhi della gente. I quattro lati della casa erano rivestiti da pietre di diversa grandezza e spessore che, al tramonto, creavano simpatici giochi d’ombra sull’erba verde e dorata tappezzata, qua e là, da un po’di ghiaia bianca e diverse piccole macerie che la casa doveva aver perso con gli anni. Accanto aveva una piccola pianta di uva rossa che si era arrampicata mezza su capanno di legno a cui mancava una parete e dove dentro, una volta, tenevano gli attrezzi da giardinaggio. Infatti all’interno c’erano ancora un vecchio tagliaerba con diversi fili che spuntavano dal manico e si erano ricoperti di polvere e, su un tavolo di legno forato dalle tarme, c’era un antico macete arrugginito che aveva perso ormai tutto il pezzo di lama affilato e, dato che il manico era mezzo rotto, assomigliava di più a un boomerang di ferro. Al lato destro della piccola vigna cresciuta senza riguardi c’era un pozzo fatto di rocce e cemento che aveva sopra un piccolo archetto in ferro battuto avvolto dall’edera secca. Sporgendosi non si riusciva a vedere il fondo infatti si scorgeva soltanto una massa melmosa sotto quelli che sembravano cinque metri d’acqua stagnante. Accanto scorreva un piccolo ruscello proveniente dalla montagna che portava acqua gelida ad un minuscolo laghetto dove sguazzavano piccoli pesci rosso rubino e giallo ocra anche se erano tutti ricoperti di sporcizia e inquinati. Una mal ridotta staccionata di legno con diverse assi mancanti e di un colore marroncino chiaro scolorito dal tempo e dalle intemperie, circondava il tutto rendendo il posto, se possibile, ancora più malandato. Dietro la casa c’era un giardino dall’erba mal curata e un enorme quercia secolare con foglie gialle e quasi spoglia. La sua corteccia era ruvida e in alcuni punti scavata dal tempo. Doveva essere lì da molto più tempo della casa perché era alta più o meno quattro metri e con lunghi rami grossi e pesanti. Una piccola stradina di sassi portava ad una poco rassicurante porta con i vetri rotti. La tintura viola era scolorita e al suo posto era comparso il legno forato; << non entrare>> diceva una vocina maligna i un sussurro come per mettermi paura, << sei arrivata fin qui, che senso ha tornare indietro? Entra!>> questa voce era più calda e rassicurante e così raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo, girai la vecchia maniglia di ferro arrugginito e, con un cigolio inquietante, entrai.
Davanti a me c’era un piccolo corridoio fatto di tavole di legno. Esse erano di un marrone terra sbiadito e corrose dalle tarme e dal tempo, umide e rotte. Davanti a me c’era una scala a chiocciola con il porta mano in ferro scolorito dalla sua tintura bianca originale. Un vecchio tappeto logoro e sporco le saliva tutte accompagnato dai suoi buchi. Al centro, proprio sopra di me, i resti di un vecchio lampadario fatto a fiore con diverse striscioline di diamanti che pendevano sul punto di staccarsi completamente. Dietro la scala a chiocciola c’era una porta bianca con diverse macchie ed una maniglia arrugginita che un tempo era tinta d’oro. Decisi di iniziare dal piano terra e così aprì quella porta. Era una vecchio bagno. Il wc era rotto e scheggiato ma un tempo doveva essere di una ceramica costosa. C’era un antico lavello di marmo bianco, sporco ma ancora intero. I pomelli erano ricoperti di polvere e arrugginiti tanto che non si potevano più muovere. Sul pavimento c’erano diverse piastrelle rotte e di alcune non ce n’era proprio traccia in modo da mettere il suolo terroso in bella vista. Una piccola doccia era davanti al wc ma i vetri che la contenevano erano andati in frantumi e mancavano diverse mensole porta-sapone. Richiusi la porta e decisi di oltrepassare l’arco accanto al lampadario. Mi ritrovai in salotto. Era una stanza grande ed abbastanza accogliente. I muri erano di un colore giallo acceso ma scolorito e diverse lampade ad olio erano poste su dei tavolini di legno rotondi e corrosi posti ai lati di un bel divano arancione con della gommapiuma che spuntava dai braccioli e dei buchi nell’involucro ruvido. Davanti c’era una camino ben lavorato di pietre scure che spiccava per il suo comignolo a punta fatto di pietre arancioni. Era però scalfito, rotto e coperto da un centimetro di polvere (come tutto in quella casa) che lo rendeva inquietante e isolato. Al centro, sopra un bel pavimento fatto di tavole di legno logore e sudice, si trovava un tappeto azzurro pieno di buchi e con i disegni dorati scoloriti dal tempo. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo a forma rotonda. Le lampadine erano rotte ma la maggior parte era caduta a terra formando piccoli pezzi di vetro taglienti che riflettevano la luce del sole. Passando per una vecchia porta di cui era rimasto solo qualche pezzo di legno qua e là, c’era la cucina. I fornelli erano rotti e minuscoli pezzi di ferro arrugginito erano davanti. Doveva aver preso fuoco perché l’interno era nero e pieno di fuliggine e diverse pentole erano state cappottate sopra anche queste completamente nere. Il tavolo era bucato dalle tarme e al centro della cucina. I gambi erano lavorati finemente anche se adesso ne mancava uno che era sdraiato sul vecchio pavimento freddo e umido di marmo nero. Sopra un vecchio lavandino rotto senza un pomello d’argento c’era una credenza per i piatti, anche se dentro era rimasto solo un bicchiere di vetro sporco e macchiato. Accanto si trovava un cofanetto bianco e rotto il cui sportello si muoveva ritmicamente. Un momento: lo sportello si muoveva! Tornai a guardarlo e questo si fermò di colpo. Poi iniziò ad accendersi e spengersi una lampada ad olio vicino ad un vecchi mobile di legno di noce che già traballava. D’un tratto ogni cosa si fermò e iniziò a fare freddo, il freddo aumentava. La brina si stava posando sul vecchio frigorifero rotto. Poi un fischio assordante riempì la stanza e a questo punto volevo solo scappare. Iniziai a correre versò la scala a chiocciola e dalla fretta di salirla inciampai in due gradini rotti finendo con una gamba incastrata mentre con una mano mi reggevo al tappeto. Arrivata in cima il fischio cessò. Che cosa poteva essere stato? Una cosa era certa: quella casa non era normale. Prima finivo di ispezionarla meglio era!
mi trovavo in un lungo corridoio con il soffitto arrotondato e pieno di disegni che raffiguravano angeli nel cielo coperti di nastri e fiocchi ma era anche tappezzato di porte. Davanti ad ognuna c’era una lastra di legno più chiara di quelle con cui era ricoperto il pavimento che serviva forse come piccolo scalino. Entrai nella prima: era una camera con il letto a baldacchino. Le lenzuola erano di un color violetta chiaro che stonava alquanto con il muro giallo canarino. I cuscini erano sparsi sul vecchio pavimento bucato e i pezzi di vetro del bellissimo lampadario e delle lanterne riflettevano la luce del sole che passava dalla finestra e che si stava affievolendo sempre di più. dovevo fare in fretta era già inquietante stare lì di giorno, figuriamoci di notte. Guardai per l’ultima voltai magnifici comodini di legno di quercia a cui mancavano diversi gambi e mi chiusi la porta alle spalle. Passai alla seconda stanza: era più piccola e il letto a una piazza aveva le coperte azzurrine e i muri blu notte, il tutto, naturalmente, rotto e sporco. Diverse mensole erano piene di macchinine rotte e bambole aperte a metà. Un piccolo comodino regnava sovrano accanto al letto e sopra c’era un lampada bianca. Le finestre erano assenti come i cuscini e, su una scrivania vecchia e logora, c’era un mappamondo con accanto diverse penne senza inchiostro. Un vecchio lampadario giaceva a terra con tutte le perline sparse per la stanza. Lasciai quella stanza e mi diressi verso la terza e ultima porta. Dentro c’era un box con le coperte giallo ocra e i muri tinti di un azzurro confetto davano l’idea che quella fosse una stanza per bambini. Alla destra del letto si trovava un vecchio cavallino di legno e una confezione di caramelle di cui era rimasta solo la carta. Una piccola lanterna penzolava dal soffitto e sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Una minuscola finestra rifletteva la luce del tramonto dal cima della stanza quadrata. Decisi che la gita in quella casa infestata era finita ma quando feci per uscire si udì un botto secco e tra tantissimo polverume mi trovai davanti una logora scala ridotta proprio male! Aveva quasi tutti i gradini mancanti e, ad ogni passo, produceva un inquietante cigolio come se dovesse schiantarsi da un momento all’altro. Decisi di salirla e mi resi conto che portava ad una soffitta segreta. Dentro c’era di tutto: una vecchia bici senza manubrio, cuscini polverosi, mensole porta-sapone rotte e tantissimi scatoloni impolverati. La luce filtrava da una piccola finestrella in cima al soffitto e bisognava abbassarsi per poter camminare. Poi vidi dei mattoni rialzati come se fossero stati messia a coprire qualcosa e, con un martello dal manico di ferro, cominciai a sfondarli. Penso sia stata la cosa più orrenda che abbia visto in vita mia: un grande scheletro dalle ossa rotte e ingiallite vestito con una cravatta rotta e una giacca blu come i pantaloni tutto pieno di buchi, logoro e sudicio. Non avevo la forza di urlare, ero troppo spaventata. Poi le vidi: quattro ombre che avanzavano verso di me, un uomo, una donna e due bambini uno dei quali era mezzo incenerito. L’uomo parlo con voce possente << non saresti dovuta venire qui, ora scappa finché sei in tempo e non raccontare a nessuno di questa casa e degli spiriti che la infestano>>. Non me lo feci ripetere due volte: iniziai a correre, scesi la scala mentre un fischio assordante riempiva la casa e tutto intorno a me iniziò a muoversi: le porte sbattevano, i lampadari traballavano ma non avevo tempo per stare a guardare. Scesi la seconda scala a chiocciola, oltrepassai il laghetto, il pozzo, la vite e la vecchia staccionata. Poi, ormai lontana da tutto ciò, una voce mi entrò negli orecchi: << tu devi sapere, sapere la vera storia. Il conte assassinò sua moglie e i suoi figli e poi si uccise da solo. Nascose da morto il suo corpo in soffitta e ora vive e vivrà per sempre con la sua famiglia. Ora sai ma non dire a nessuno ciò che hai visto…>>. La voce scomparve com’era arrivata. Tornai a casa e cercai di dimenticare tutto ma io, solo io sapevo la verità e nessuno avrebbe potuto dire che io fossi pazza perché io avevo visto, io avevo sentito.
La chiamavano la casa dei misteri e, alla luce dei nuovi fatti, era abitata da molti, lunghissimi anni!