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REDENZIONE: Un racconto in 14 capitoli di Francesco Breda (corso di scrittura online adulti)

Un nuovo racconto breve, a conclusione del percorso di tre livelli dei corsi online di scrittura di Moony Witcher. Questa volta il corsista che raggiunge il traguardo è Francesco Breda. Congratulazioni!

REDENZIONE
Un racconto in 14 capitoli
Francesco Breda

Terzo livello adulti
Corso di scrittura online

TASSO ZERO di Anna Maria Lisci – Primo Livello Adulti. Corso di Scrittura Online

TASSO ZERO
Anna Maria Lisci

Primo Livello – Corso Adulti

Lia correva, infagottata nel pesante capotto nero fuori moda, correva a perdifiato sul marciapiede. Ogni tanto scartava un passante , dribblava un bambino e allo stesso tempo tentava di non perdere di vista l’uomo alto e dinoccolato che correva davanti a lei. Lia lo stava inseguendo.
Erano le otto mezzo, le strade erano affollate di persone che si recavano a lavoro e di mamme che accompagnavano i bambini a scuola, il traffico era intenso, faceva stranamente caldo per essere una mattinata di fine primavera. La nuova stagione non era ancora veramente iniziata.
Anche l’uomo correva, le lunghe gambe da ragno sembravano quasi saltare, tanto ampie erano le falcate con cui avanzava, ogni tanto controllava con la coda dell’occhio a che distanza si trovasse la donna che lo inseguiva. Alla fine, girò l’angolo e subito quello successivo, urtò un passante che non gli badò, e quando gli sembrò di avere finalmente distanziato Lia, prese un’andatura più normale, si guardò intorno con circospezione  ed entrò in un vecchio palazzo maestoso.
Lia pensò che per essere un uomo di mezza età aveva davvero un’energia invidiabile. Non aveva rallentato un attimo, lei invece stava ansimando, era stanca e le faceva male un fianco, non era abituata a correre e quel dolore le ricordò che era lievemente sovrappeso e che era di mettersi a dieta. Si stupì dei pensieri semplici che le venivano in mente in quel momento. Cercò di non farsi distrarre da divagazioni inutili e cercò l’uomo con lo sguardo.
Per un attimo temette di averlo perso e si sentì mancare il fiato, invece riuscì ad individuarlo mentre svoltava in una via laterale, lo vide entrare in un vecchio palazzo e uscì dal suo nascondiglio.
La pensilina alla fermata dell’autobus, l’aveva riparata dallo sguardo dell’uomo ma non le aveva impedito di individuare la sua destinazione.
Riprese a correre per fermare il pesante portone di legno che si stava richiudendo lentamente alle spalle dell’uomo, lui aveva già preso a salire le scale e non si era reso conto di avere Lia alle calcagna. Cautamente la donna si sporse nell’androne verso le scale, il cuore le batteva così forte che per un attimo temette che qualcuno potesse sentirlo, poi quasi si mise a ridere e si diede della sciocca per avere avuto un pensiero così assurdo.
Contò i passi di lui e poi sentì un campanello.
Nascosta nel vano della scala, vide quella che sembrava una segretaria occhialuta e di mezza età aprire la porta.
La donna vedendolo così trafelato gli chiese se era tutto a posto. “Si, si. Lasci perdere… un’avventura… Non può neanche immaginare cosa mi è successo…” rispose lui.
Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Lia percorse gli ultimi gradini di marmo consumato del pianerottolo. Cercò di ricomporsi, non si era resa conto che facesse così caldo, sbottonò il cappotto, cercò di allisciare i lunghi capelli neri alla bell’è meglio  e suonò il campanello.
La stessa segretaria aprì di nuovo la porta e sgranò gli occhi con un’espressione sorpresa quando la riconobbe, Lia approfittò del suo momento di confusione per spingerla di lato e spalancare la porta, entrò decisa e la guardò con aria di sfida.
“Cosa ci fa qui signora? Guardi che era stata convocata dall’altra sede… Non può stare qui… Deve andare via subito!” le disse la segretaria.
“NO! Io non me ne vado. Voglio vederlo subito!” rispose Lia agitatissima.
In quella che sembrava una sala d’aspetto sedevano diverse persone in attesa del loro turno. A sentire tutto quel chiasso, alcune di loro, uscirono nel corridoio per vedere cosa stava succedendo.
La segretaria si rese conto che stavano facendo una scenata di fronte a tutti e tentò di mandarla via spingendola delicatamente fuori della porta. “Non si può! Avanti signora si calmi….”
“Io non muovo da qui! Ha capito? Non me ne vado! Non mi muovo da qui se non parlo  con qualcuno… Mi tolga le mani di dosso e lo chiami… SUBITO!” Urlò Lia.
Attirato dal fracasso, l’uomo uscì finalmente dal suo ufficio per vedere a cosa era dovuto quel baccano. “Insomma..” le parole gli morirono in gola non appena riconobbe Lia, valutò rapidamente la situazione,  fece tornare i curiosi in sala d’aspetto, rimandò la segretaria alla sua scrivania non prima di averla rassicurata, prese Lia per un braccio e la guidò verso il suo ufficio.
Lia si era calmata e si lasciò portare dolcemente verso la sedia, si accomodò e restò in attesa senza dire nulla, prese tempo per guardarsi intorno, apprezzò le librerie di legno massiccio appoggiate alle pareti e stracolme di tomi e libri antichi, ammirò il marmo del pavimento, le finestre altissime e le tende di broccato pesante, infine, concentrò lo sguardo sulla scrivania antica e bellissima.
Si chiese come mai non ci fosse un computer, fissò lo sguardo su una pila ordinata di cartelle e sulla stilografica che era posata li sopra e rimase in attesa.
L’uomo chiuse la porta alle sue spalle, e sedette dall’altra parte della scrivania, Lia interruppe le sue osservazioni e alzò gli occhi su di lui. L’espressione dell’uomo era seria e severa ma si addolcì un poco notando i capelli scarmigliati e lo sguardo della donna che altalenava tra sfida e paura.
“Dunque – esordì – mi dispiace, ma non posso aiutarla, non so come abbia fatto a trovarmi, ma vede, lei era stata convocata dall’altra sede ed era lì che doveva andare, anzi che deve andare…. La stanno aspettando.”
“NO!  -lo interruppe Lia – Voglio una dilazione, non posso saldare adesso… Lei deve aiutarmi. Non me ne vado se non mi concedete un rinvio.”
L’uomo cercò di farla ragionare: “Mi dispiace, ma non è possibile, è contro le regole”
“Non è vero, – insistette Lia – io so che l’avete fatto altre volte… ho bisogno di un proroga! Non è giusto, ci sono tante cose che devo fare, ho bisogno che mi concediate una posticipazione, per favore, la prego…. Mi aiuti, perché ad altri si e a me no, non è giusto! Li ho visti quelli che stanno spettando. Sono sicura che a loro sarà concessa una proroga. Io non me ne vado, ecco! Non mi muovo da questa sedia! Dovrete darmi retta per forza”
“Mi dispiace, – le rispose l’uomo – non cambia niente, anche se lei rimanesse qui cent’anni non cambierebbe niente, e per quel che riguarda gli altri, se la può consolare saperlo, le proroghe erano già previste dal contratto. Non si fanno trattamenti di favore a nessuno.”
Rimasero  a fissarsi per un lunghissimo istante, lo squillo del telefono nero interruppe quel silenzioso duello tra volontà. Un dolore al petto l’avvertì che si era dimenticata di respirare nell’ansia di spiegare le sue ragioni.
L’uomo alzò la cornetta e rispose alla telefonata. Va bene, – disse – d’accordo, glielo dico io” si voltò verso Lia e le confermò ancora una volta che non potevano concederle proroghe.
Il tono dell’uomo aveva una nota così definitiva che finalmente fece comprendere a Lia che non c’era davvero nessuna possibilità di avere un rinvio.
Alzò lo sguardo verso il cielo e fissò le nubi che passavano, all’improvviso fu conscia di essere supina, l’asfalto era duro sotto la schiena e non sentiva più le gambe. Qualcuno le teneva la mano e le parlava, ma non riusciva a capire cosa le stesse dicendo, altri visi ansiosi e preoccupati erano chini su di lei, voleva chiedergli di spostarsi perché non riusciva a vedere bene, ma si accorse di non averne la forza, il respiro le usciva di bocca in rantoli spezzati.
Senti in lontananza l’ululato della sirena di un’ambulanza.
Ricordò all’improvviso l’auto che le piombava addosso mentre attraversava le strisce pedonali, ricordò l’urto, il volo e l’atterraggio brusco in mezzo alla strada e poi, si era ritrovata a correre.
Le veniva quasi da ridere ripensando a quell’inseguimento inutile. Si rese conto che davvero per lei non era previsto nessun rinvio, in qualche modo confuso si accorse che erano venuti a prenderla, piegò la testa di lato  e pensò che era davvero un peccato che fosse già tutto terminato.
Smosse dal vento, due file di Jacarande ai lati della strada, gettavano fiori e petali lilla sul suo corpo immobile, dando alla sua fine un senso quasi poetico.

IMPRONTE DI PARADISO di Giulia Acquistapace. Primo Livello – Corso Adulti

IMPRONTE DI PARADISO
di Giulia Acquistapace
Primo Livello – Corso Adulti

Il sole morente aveva concluso da pochi istanti l’ennesimo ciclo quotidiano tuffandosi nel mare sul versante della Grecia e le prime luci artificiali cominciavano a punteggiare la costa fino a Santa Maria di Leuca, disegnando una calda linea che delimitava ad occhio nudo nella notte il confine fra terra e mare.
Un uomo, accovacciato, dava gli ultimi ritocchi ai preparativi per la serata: due bicchieri, una bottiglia di champagne in fresca, due sedie a sdraio e tutto lo splendore della piscina solfurea di Santa Cesarea Terme erano un ottimo presupposto per il buon esito dei propri intenti. La Tramontana aveva spazzato per tutta la giornata il mare e il cielo, allontanando le nubi scure e la cappa d’afa che da giorni gravavano il respiro e facevano appiccicare addosso gli abiti leggeri di un fine Settembre che ancora sapeva d’estate. Il cellulare dell’uomo squillò: dall’ingresso qualcuno annunciava visite. L’uomo non attese, riattaccò la conversazione e riprese la posizione eretta. “Grazie al cielo”, pensò fra sé mentre si allontanava per ricevere l’ospite. Fece a due a due i gradini che lo riportavano a livello della strada e sfoderò prima dell’ultimo balzo il miglior sorriso, che andò tuttavia a spegnersi non appena scorse di spalle il venuto. “Ci mancava solo questa. Devo liberarmene al più presto o andrà tutto a monte prima ancora di cominciare, maledizione!”. Intanto il nuovo venuto si voltò senza entusiasmo al gesto del bagnino che indicava l’arrivo della persona richiesta. “Buonasera, dottore.”
“Buonasera a lei. A cosa devo il piacere della visita?”, mentre i tratti del volto tradivano il fastidio e l’impazienza.
“Ma prego, accomodatevi.” Il visitatore guardò dal sotto in su l’uomo che era venuto a cercare: “Spero di non aver interrotto nulla.” “Non vi preoccupate, mi preparavo alla mia consueta nuotata. A causa di impegni per oggi è stata posticipata e non saranno certo altri cinque minuti di attesa a rovinarla”, disse, sottolineando quei cinque minuti come a voler indicare il tempo massimo concesso per qualsiasi rimostranza (e ne era certo: se lo sgradito ospite si era preso al briga di venir fin lì, si sarebbe trattato sicuramente di una questione spinosa). Fece quindi strada facendo un cenno di congedo al bagnino che, sollevato, tirò giù con uno strattone la saracinesca del suo baracchino e si diresse con passo svelto verso casa.

*
CAPITOLO I

“In questo campo ci starebbe a meraviglia un gregge di pecore.” L’ispettore Anna De Rosa era così: se ne usciva all’improvviso con i commenti più improbabili senza una connessione logica col resto del dialogo. E suonavano ancora più assurdi se calati nel silenzio astioso di una deviazione tanto inattesa quanto inopportuna nella campagna salentina arsa dal sole. Il commissario sbuffò, guardando di sottecchi dallo specchietto retrovisore la collega abbandonata sul sedile posteriore dell’auto che, con sguardo svogliato, perlustrava il paesaggio senza prestare grande attenzione e soprattutto senza dare un sostanziale contributo nel raggiungere la meta. La cartina giaceva senza vita sulle gambe della donna, che teneva fisso il dito in un punto imprecisato della Puglia, mentre con l’altra mano si aggrappava alla maniglia del passeggero per evitare gli scossoni dati dalle buche della strada secondaria. “De Rosa, questo non è il presepio: un gregge qua, due pastori lì. A meno che non ci sia anche una stella cometa che ci conduca a destinazione!”. Nicola Renzi, al volante, sogghignò sotto i baffi. “E tu, Renzi, che ti vanti di essere del luogo! Invece di ridere: dove siamo? Non dirmi ancora che ci siamo persi! Se andiamo avanti così quel morto farà in tempo a diventar polvere prima del nostro arrivo!”. Renzi tornò serio: “Dotto’, non si preoccupasse! E’ qui, è qui! Siamo già a Porto Badisco: sa, qui mi ci portava sempre la mia nonna in bicicletta. Sapesse che mare! Anzi, se solo avessimo tempo, magari di ritorno…” “Renzi, guida e non fare programmi! E sbrigati, o persino il magistrato sarà lì prima di noi!”. “Comandi, commissario!”. Il silenzio tornò sull’auto che sfrecciava ora più decisa lungo la strada costiera che collegava Otranto a Santa Cesarea Terme, costeggiando ora la costa ora la campagna brulla, interrotta ora qui ora lì da qualche raggruppamento d’alberi selvaggi resistenti all’arsura. Le poche case di Porto Badisco passarono rapide al di là del finestrino e così il pezzo di discesa che ancora separava la Polizia dal luogo del ritrovamento. Arrivati in città, Renzi accostò parcheggiando con difficoltà l’auto al bordo del marciapiede della strada secondaria affollata che conduceva allo stabilimento termale. Il commissario saltò giù prima della fine della manovra, allontanandosi ma non abbastanza in fretta per non vedere gli ultimi dettagli dell’operazione: un colpo dietro ed uno davanti avevano concesso al pilota, con disappunto del superiore, di piazzarsi a puntino fra l’ambulanza e quella che ad occhio e croce poteva essere la macchina del medico legale: una punto anni Novanta da cui la dottoressa Malabarba, per motivi ignoti, non voleva separarsi.
“Commissario Melissano, prego per di qua.”, gli si fece incontro un uomo sulla cinquantina, verosimilmente il responsabile in seconda delle terme, dal momento che l’amministratore delegato, scesi alcuni scalini, giaceva su una sdraio al bordo della piscina sulfurea, evidentemente morto. “Dottor Riboni.”, fece Melissano. “Com’è successo? Avete qualche sospetto?” Il commissario già sapeva dalla recente telefonata intercorsa col medico legale che molti parlavano di suicidio. Riboni confermò quanto anticipato: “L’ha trovato qui il bagnino, il Vito (sottolineando con l’anteposizione dell’articolo al nome quanto le sue origini fossero lontane dal luogo del delitto). C’era una bottiglietta marrone con della polverina lì ai piedi della sdraio e lui era lì”, fece indicando con l’indice, “ proprio come lo vedete adesso. E poi c’erano i bicchieri, la bottiglia di champagne intatta… Sa, il Vito non l’ha voluto toccare! Che se poi la jella…” “Basta così”, fece Melissano, interrompendo quei commenti molto meno lombardi della dizione del nuovo facente funzioni. “Qualche problema? Qualcosa che secondo lei possa giustificare un gesto estremo come questo?” “Bha, non saprei. Lo stabilimento andava a gonfie vele. Anzi, Aldo aveva in mente qualcosa che proprio in questi giorni avrebbe fatto fare il salto di qualità alla struttura. Era un segreto, voleva parlarcene solo ad affare concluso, ma si vedeva che era al settimo cielo. Forse, ma non so… sa… il paese è piccolo… i pettegolezzi…”. Era evidente che Riboni voleva parlarne. “Vada avanti”, fece Melissano. “Bhe, sa… dicono che Aldo da qualche tempo si frequentasse con la Nina, la moglie del dottor De Bellis, il medico qui dello stabilimento. Lo sapevano in pochi, né! Fatto sta che il dottore aveva vinto un posto a Viterbo, in clinica, ed era intenzionato a lasciare Santa Cesarea con la moglie. Che so, magari non sopportava di essere lasciato… Sì perchè le donne fanno così, dicono dicono, ma quando si tratta poi di fare…” “Va bene, basta così.” Senza aspettare altro, il commissario andò verso il cadavere. “Fermò lì!” Melissano inchiodò. Scocciato, si voltò lentamente a vedere da dove la voce provenisse. Di lì a pochi metri c’era un omone appoggiato alla cinta di recinzione della piscina, imponente nella divisa arancione sormontata dalla chiara scritta: 118. “Prego?”, scocciato il commissario. “Sta’ a inquina’ la scena.” L’accento era romano, forse più di acquisizione che di nascita. Fumava un sigaro corto, depositando con cura la cenere nel piccolo contenitore ormai vuoto, attento a non disperdere tracce di tabacco bruciato. “La scena?” “L’ho delimitata, non vede?” Melissano si voltò: in effetti, di lì a poco il suolo circostante al cadavere era delimitato da nastro fluorescente. Gli oggetti entro il perimetro erano a loro volta etichettati con piccoli numeri e delimitati da stretti circoli di indelebile nero. “Bene, bene. Giochiamo al piccolo investigatore pure!” “Io non gioco. Ho delimitato la scena.” ribadì scocciato. Melissano si arrese. “Ho il piacere di parlare con il dottor…’” “Ulisse Lellis. Sono infermiere.” Non si preoccupò di stringere la mano che il commissario gli tendeva. Spense nella scatoletta definitivamente il sigaro. “Ho sentito tutte le stronzate che quello là – indicando con un cenno di sufficienza del capo Riboni – le ha raccontato. I bicchieri sono due. Uno è finito là, dietro la sedia a sdraio. E a me ‘sta storia non piace. E poi là c’è un’impronta. Ho isolata anche quella.” Il commissario rimase perplesso: non si fidava per usuale diffidenza, ma non si sentiva di bollare come stupidaggini le affermazioni di quell’infermiere che in fondo sembrava saperla lunga. E non solo a parole. Si limitò quindi a un cenno e procedette, aggirando la scena. Il medico legale era già lì. “Nella.” “Oronzo.” Si erano conosciuti ad una prima visita alla questura di Bari pochi mesi prima del trasferimento di Melissano dalla questura di Lodi. La dottoressa, bassa e rotonda, gli aveva subito ispirato simpatia. “Ti aspettavo. Sei invecchiato. Quanto ci hai messo?” Il commissario si passò la mano fra i capelli grigi che gli arrivavano alle spalle, abbassando gli occhi scuri sulla pancia un poco prominente al di sotto della camicia rigata azzurra e bianca. “Lasciamo perdere. Tu invece? Cosa mi dici?” “Ritengo improbabile il suicidio, se lo vuoi sapere. Troppo gonfio. Non ti so dire altro. Appena possibile, prenderò il tutto e lo porterò in laboratorio per l’analisi.” “Bene. E dell’impronta?”, aggiunse di malavoglia. “Uh, uh! Hai conosciuto il nostro Ulisse!”, fece Malabarba. Il commissariò fece un basso rumore gutturale in risposta, con una vaga cadenza interrogativa. “E’ un ottimo infermiere legale, lavora al 118 nella sede di Gallipoli. Abbiamo già lavorato insieme. E risolto alcuni casi grazie alla sua competenza. Non lo giudicare: lui è così. Ma ti potrà essere di aiuto, fidati. E’ in gamba. Comunque – dopo una breve pausa – non mi dice nulla l’impronta. Fra poco arriveranno i RIS, fagliela notare. Appena so qualcosa ti chiamo. Arrivederci, Oronzo!” “Arrivederci, Nella.” Si separarono, il medico legale verso la sua borsa e il commissario verso i suoi che nel frattempo l’avevano raggiunto. “De Rosa, con me.” Si allontanarono aggirando la piscina e si accomodarono per guardare in distanza la scena. Anna estrasse il block-notes. “Abbiamo un cadavere, Aldo Frontini, amministratore delegato dello stabilimento termale. Abbiamo due bicchieri e una confezione dal contenuto ignoto. Abbiamo un amante, Nina Cova, e un marito cornuto, tale medico del centro termale, dottor…” “Livio De Bellis, titolare di un posto a Viterbo, in partenza nei prossimi giorni.” “Brava! Vedo che hai seguito.” Anna si limitò a scuotere i capelli ricci raccolti un una corta coda di cavallo. Gli occhioni verdi guizzavano sulle parole annotate. “Abbiamo un probabile futuro amministratore delegato, Giacomo Riboni. Abbiamo un bagnino, Vito Russo, l’ultimo dei presenti a vedere la vittima viva e il primo a ritrovarlo cadavere. E’ lì, nell’angolo. Se poi vuole interrogarlo…” “Vedo che hai già provveduto. Che ti ha detto?” “Niente di più di quello che ho riportato ora. Era sconvolto e spaventato. Ed ha un alibi: stanotte ha dormito dalla fidanzata, tale Grazia.” “Va bene, ci preoccuperemo poi di verificare.” Nel frattempo giunsero i RIS e con loro giunge anche il magistrato. “Dottor Marangi.” “Dottor Melissano – si salutarono. Novità?” “Per ora nulla, ma stiamo indagando. A quanto pare ognuno dei coinvolti ha una propria versione dei fatti.” “Bene. Cioè, male. Smobilitiamo il prima possibile. L’aspetto fra due ore qui in comune nell’ufficio dei Vigili per il punto della situazione. E mi raccomando Melissano, discrezione. Discrezione!”, e si separarono.

Il racconto prosegue, cliccate sulle pagine qui sotto…

L’ESAME di Marika Susio. Secondo Livello – Corso Adulti

L’ESAME
di Marika Susio
Secondo Livello- Corso Adulti

“E’ sicura di volere entrare nella nostra scuola?” chiese l’insegnante.
“Sì” rispose l’alunna.
“Bene. Sta iniziando un’avventura assai complessa. Il corso d’addestramento durerà all’incirca due anni, per accedervi dovrà superare cinque prove.
Iniziamo dalla prima.
Descriva nei minimi dettagli se stessa. Non menta. Non è importante l’indole del suo carattere. Può essere buona o cattiva. Ciò che conta è la passione. Mi deve stregare.
Voglio sapere quante più cose di lei. Età, lavoro, la città dove vive, chi frequenta, le sue esperienze pregresse, i problemi che affronta ogni giorno, gli amori, le amicizie, i nemici, le sofferenze, le malattie, le gioie etc etc.
Ha bisogno di chiarimenti?”
“Non credo”.
“Bene. Allora inizi”.

*
“Sono nata in un piccolo paese alle porte di una cittadina del nord Italia. Erano gli inizi degli anni quaranta. La guerra stava finendo.
Di quel periodo ricordo poche cose. Le spesse tende scure che non lasciavano filtrare la luce per i bombardamenti e un buffetto fattomi da un giovane soldato tedesco, il giorno in cui le truppe alemanne lasciarono la villa dei conti per tornarsene definitivamente in Germania.
Strana la memoria.
All’età di dieci anni ho fatto la baby sitter in una villa signorile in una città vicina.
Roberto, il bambino affidato alle mie cure aveva due anni più di me. Buffo vero? La differenza tra chi proveniva da un mondo povero rispetto ad un mondo ricco era, ed è ancora, per molti versi, notevole. Io, quinta di sette sorelle, ho dovuto crescere in fretta. Sin da piccola mi è stato insegnato il valore della sopravvivenza, dove nella mia famiglia era inteso con il motto “l’unione fa la forza”. Ognuna di noi, nel proprio piccolo doveva badare a sé, ai bimbi più piccoli e al contempo contribuire ai lavori quotidiani, che comprendevano oltre alle faccende domestiche, lavori nei campi e nell’aia del padrone di cui mio padre era mezzadro. Continue reading

COME SOLDATINI DI PIOMBO di Cinzia Vianini. Primo Livello – Corso Adulti

COME SOLDATINI DI PIOMBO
di Cinzia Vianini
Primo Livello – Corso Adulti

La grossa busta rettangolare gialla era appoggiata al centro del tavolo da laboratorio-infermeria. Sparse c’erano ampolle e provette colme di liquidi colorati. Il dottor Tower sapeva benissimo cosa conteneva quella busta! Aggiustandosi gli occhiali dalla montatura nera e quadrata, si avvicinò cautamente: la mano cominciò ad allungarsi verso quell’oggetto “benefico”. Ma la calotta cranica del dottor Tower, completamente calva a causa di un difetto congenito, era diventata madida di sudore. Segno che da qualche parte, stava ancora pulsando una coscienza.
-“Sono cinquantamila dollari”- lo incalzò Mr Hate –“il gruzzolo ideale per abbandonare questo posto troppo misero per le vostre capacità di chimico e specialista genetico”. E in effetti la massima aspirazione del dottor Tower non era certamente quella di lavorare come analista specializzato presso la “Mr Brown Chemical Industry” di Trenton. A quelle parole così dannatamente allettanti ebbe la visione di un grande laboratorio, dotato di attrezzature di ultima generazione, indispensabili per le sue ricerche.
A questo punto l’ ultima titubanza del dottor Tower crollò come un castello di carte.-“ Ci vediamo qui domani sera alla stessa ora”- gli rispose infilando velocemente nella tasca del camice la busta con i soldi: sembrava che avesse toccato un tizzone incandescente. A quella affermazione  gli occhi grigio cenere di Mr Hate si allargarono in un sorriso perverso.
Con una premura quasi paterna il dottor Tower aprì il contenitore metallico appoggiato sul piccolo tavolo del laboratorio. Due liquidi di colore diverso, uno giallognolo, l’altro violaceo, spiccavano in altrettante grosse siringhe di vetro.
–“ Cominceremo con questa”- spiegò lo scienziato indicando quella di sinistra. Non appena Mr Hate fu pronto, gli strofinò la spalla destra con un batuffolo di cotone intriso di disinfettante.
–“Questo è il siero che potenzierà a livello esponenziale la vostra mente: potrete “sentire” i pensieri di ogni abitante di Trenton, scoprirne debolezze ed angosce”-e così dicendo con un colpo deciso infilò l’ago nella pelle diafana. Mr  Hate non sentì alcun dolore: era troppo concentrato nell’osservare quel liquido paglierino entrare inesorabilmente nelle sue carni.  -“Con un potere del genere,sarò onnipotente”- disse l’uomo guardando il fluido che quasi del tutto sparito, stava già iniziando il folle viaggio verso il cervello. -“non sarò più il semplice Direttore del Personale di una ditta di fertilizzanti chimici, ma l’uomo più temuto e rispettato al mondo!”.
Detto questo, indicò con l’indice destro la seconda siringa:-“ Quando potrò iniettarmi l’altro liquido?”- chiese al chimico con occhi stranamente luccicanti. –
“ L’ho già spiegato ieri”- gli rispose con leggera apprensione-“ devono trascorrere almeno  otto ore dalla prima iniezione, per evitare contaminazione tra i due sieri.
–“ Allora”- insistette Mr Hate-“ potrei portare la siringa a casa e procedere con l’operazione domani mattina, non è una cosa difficile, vi prometto che rispetterò le vostre indicazioni”.
Il dottor Tower, pur di liberarsi il più presto possibile di quella pesante incombenza, gli consegnò velocemente il contenitore. Quando l’uomo uscì dal laboratorio, il chimico tirò un sospiro di sollievo ma, toccandosi la fronte, si accorse che il palmo della mano era umido.
Era già notte inoltrata quando arrivò nei pressi del fiume Delaware: la sua casa di legno azzurro dal tetto spiovente era l’unica della zona. Nessun altro, a parte Mr Hate, avrebbe mai potuto vivere in un posto così solitario: era un luogo incantevole, intendiamoci, ma a lungo andare la semplice compagnia dei germani reali sarebbe andata stretta a chiunque. Arrivato  alla soglia dei cinquant’anni gli mancava una presenza femminile accanto, una donna  che lo attendesse per l’ora di cena e appendesse tendine fiorate ai vetri delle finestre. Ma come avrebbe mai potuto trovare una compagna con un aspetto fisico sgraziato come il suo? La risposta stava nella scatoletta metallica che portava sotto il braccio.
-“Potenziare al massimo mente e corpo”- ripeteva tra sé mentre infilava la chiave nella toppa della porta d’ingresso.
– “Controllare l’animo  di ogni singolo uomo e non essere più solo”-. Tale pensieri lo portarono a prendere  una decisione sconsiderata:- “Non aspetterò otto ore, mi sento bene, cosa dovrà mai accadere?”-
La risposta sarebbe giunta alcune ore dopo. Il sonno era arrivato abbastanza facilmente, nonostante il dolore provato con la seconda iniezione. Si era coricato sul letto togliendosi solo la camicia e le scarpe di pelle leggera. Anche se era metà giugno Mr Hate indossava ugualmente abbigliamento autunnale. Mentre dormiva aveva l’impressione che le unghie di mani e piedi “prudessero” ed attorno alle orbite  sentiva delle fitte potenti. Sognò due serpenti dalla pelle verdastra avvolgergli i polsi e cominciare a tirare come se volessero strappargli le braccia dal corpo. Nessuno poteva aiutarlo perché si trovava da solo in una stanza piccolissima. Improvvisamente il pavimento si aprì, i serpenti scomparvero e Mr Hate iniziò a cadere nel vuoto sottostante: spalancò la bocca nel tentativo di urlare, ma non emise nemmeno un verso. Si svegliò di soprassalto: il petto doleva tantissimo e la schiena lo costringeva  a stare molto curvo in avanti. Inoltre si sentiva intontito come se si fosse appena svegliato da una forte anestesia. Decise di recarsi in bagno per rinfrescarsi le idee ma, non appena mise i piedi nudi sul pavimento, perse l’equilibrio, cadendo così all’indietro. Si ritrovò seduto a terra: allungandosi leggermente trovò la torcia elettrica che teneva sotto il letto per le emergenze. Vide che i piedi erano diventati enormi, la pelle ispessita come quella di un elefante e le unghie si erano allungate di almeno dieci centimetri. Lo stesso era accaduto alle mani. Sconvolto camminò a carponi verso il bagno appoggiandosi ai gomiti. Aggrappatosi al lavandino riprese una posizione quasi eretta. L’immagine che vide riflessa nello specchio illuminato fu orribile: i capelli, prima cortissimi e brizzolati, erano diventati scuri e lunghi fino alle spalle. Gli occhi erano color rosso fuoco perché i capillari, rompendosi avevano iniettato di sangue tutto il bulbo oculare. Il naso era rimasto uguale essendo già deforme per conto suo a causa di un pestaggio ricevuto da piccolo. La  bocca  riservò una sorpresa quando la aprì: i canini erano sottili ma molto appuntiti, la lingua più ispessita e lunga il doppio. La sua punta era tagliente come un rasoio; lo scoprì quando la toccò con il polpastrello dell’indice destro. Terrorizzato e conscio del fatto che la responsabile di quella mostruosa situazione era stata un’egoistica bramosia di potere, decise di andare a casa del dottor Tower, nonostante fossero le tre di notte. Poiché indossare la camicia era impossibile, a causa di spalle e braccia aumentate a dismisura, fu costretto a indossare l’impermeabile perché abbastanza grande da coprire anche la sua schiena curvata a semicerchio. Scalzo lasciò quella zona periferica della città. Avviandosi  verso il centro, si trovò ad attraversare un quartiere di media borghesia: villette a mattoncini rossi con ampie finestre divise in tre parti. Mr Hate si fermò ad osservarle perché incuriosito e improvvisamente la sua mente si aprì: come una telecamera virtuale entrò direttamente in quelle case, “vedeva” i loro abitanti dormire tra  lenzuola fresche di bucato percependone anche le sensazioni derivate dai sogni, quali angoscia e malinconia.
–“Ora sei un uomo potente”- pensò- “potrai giocare con le emozioni di chiunque, manipolando le loro azioni come quando giocavi con i tuoi soldatini di piombo”-.
A quel pensiero Mr Hate ritornò all’immagine di un bambino di cinque anni seduto sul pavimento di una stanzetta male illuminata.
-“ Tornerò stasera John” – gli aveva detto il padre capostazione quella fredda mattina di gennaio. Non farà mai più ritorno. Anni dopo Mr Hate verrà a sapere dalla madre che il padre li aveva abbandonati per una collega di lavoro. Da quel momento in poi aveva cominciato a odiare le stazioni ferroviarie. Proseguendo per il quartiere sentì sempre più piacere nell’intrufolarsi nei sogni altrui stabilendone gli esiti. Per la paura di perdere questo straordinario potere, rinunciò definitivamente ad andare dal dottor Tower per risolvere il problema del suo aspetto. Fattasi ormai l’alba, Mr Hate avvisò da una cabina telefonica al lavoro che si sarebbe assentato per due settimane per visitare un cugino malato.
Soddisfatto per la menzogna riuscita, improvvisamente un dolore allucinante cominciò a martellargli le tempie, la vista si indebolì e provò forti fitte allo stomaco. Capì che il tutto era dovuto alla  fame. Senza sapere il perché, girovagando, si ritrovò davanti alla biblioteca pubblica ed essendo giorno decise di entrare dal retro per nascondersi nel magazzino dei libri consumati. Lì, al riparo da occhi indiscreti, la fame ricominciò a farsi sentire e tutto ciò a cui riusciva a pensare era a come poter soddisfarla. Improvvisamente si fece sempre più assillante il ricordo della notte passata a vagare tra una mente e l’altra e  l’aver assaggiato quella energia umana l’aveva fatto sentire così potente e appagato da bramarla anche a livello materiale . L’unico problema era capire come fare ad estrarre quella linfa benefica. La  risposta gli fu data  dalla sua mente ormai mostruosamente alterata – “Con un inganno attira una ignara vittima qui dentro e poi ti dirò cosa fare”-.
La ragazza, di circa vent’anni, si avvicinò curiosamente al locale da cui proveniva lo strano rumore: le ricordava il suo cane quando raschiava con le unghie contro la porta dell’atrio di casa. Non appena abbassò la maniglia, una gigantesca mano artigliata la strattonò all’interno, mentre un’altra premeva fortemente su naso e bocca. Cercò di dibattersi ma una forza sovraumana la sbatté spalle al muro. L’assalitore le strinse il collo finché nel suo giovane corpo non rimase nemmeno un flebile alito di vita. Lasciata la presa, la ragazza gli  cadde tra le braccia come una bambola di pezza. La adagiò prona sul pavimento e con movimenti impacciati le scostò i bellissimi capelli corvini dalla nuca.
–“Devi nutrirti dell’energia vitale che ancora pulsa nelle sue vertebre”- gli gridò la mente affamata e con questo comando Mr Hate affondò i denti appuntiti nella pelle color ambra. Essendo così ancorato poté praticare con la lingua tagliente un’incisione abbastanza profonda da permettergli di succhiare velocemente tutto il midollo spinale. Mr Hate si sentì come se delle ripetute scosse elettriche gli avessero percorso le membra rinvigorendolo e dandogli piena soddisfazione. Il mostro stando attento a non farsi scoprire portò la ragazza nella deserta area di lettura, dove la fece sedere appoggiandole la testa su un libro come  se dormisse. Non aveva provato nessun rimorso per la vittima ma al contrario ,un senso di potere e forza mai vissuti prima. Uscito dalla biblioteca, vide sul cartello stradale collocato al lato opposto della strada l’immagine  stilizzata del treno soffiante una nuvola di fumo. Un folle pensiero gli attraversò la mente desiderosa di vendetta.
Il tenente Frank Giannini raggiunse l’agente Paul Apple sulla scalinata d’entrata della biblioteca comunale .Questi  stava sbocconcellando un grosso hot -dog con salsa allo yogurt.
–“ Si tratta di Marta Smith”- spiegò Paul -“era venuta a documentarsi per un esame, è stata la prima ad arrivare dopo la bibliotecaria che però era indaffarata al piano soprastante. Così il killer ha agito indisturbato”.
Giunti in sala lettura, si apprestarono ad esaminare il corpo della vittima: il tenente, osservando con i bellissimi occhi castani, notò il profondo taglio sulla nuca contornato da due forellini uguali. Mentre era assorto in quella macabra visione, gli squillò il telefonino: dovevano recarsi immediatamente alla stazione ferroviaria. Un treno  merci era rovesciato  con uno squarcio sulla fiancata sinistra, ma la morte si trovava sul treno passeggeri che deragliando gli era piombato addosso. Uno dei pochi sopravvissuti era il conducente del mezzo: si chiamava T. J. Madison, altezza media, capelli corti e ricci e di origine nord africana.
–“Stavo conducendo il treno in stazione quando ho sentito un fastidioso ronzio nelle orecchie e la vista mi si è appannata improvvisamente. Poi una voce,  rimbombando nella testa , mi disse  di deviare il treno e aumentare la velocità. Pur opponendomi con tutte le mie forze, mi sono ritrovato a schiantarmi  contro il merci che arrivava da Harrisburg”. Terminato il penoso racconto l’uomo scoppiò in un pianto copioso. Mentre Frank Giannini annotava tutto, l’agente lo chiamò per indicargli una lunga scia di sangue ancora fresco che proseguiva fino al binario Uno.
-“Non può appartenere ad uno dei feriti perché l’incidente è avvenuto qui, sui binari Tre e Quattro, e nessuno di loro si  è allontanato”-spiegò l’agente Apple.
-“ Sarebbe meglio farlo analizzare come prova.”- disse il tenente di origini italiane-“voglio scoprire qualcosa al più presto possibile”-.
Erano le diciannove e trenta quando il dottor James Mind, affermato psicologo quarantacinquenne, aveva appena lasciato l’ufficio: era in ritardo e a casa lo stavano già aspettando. Per risparmiare tempo, aveva deciso di percorrere il solito vicolo. Stava osservando una fotografia quando  l’ormai ex direttore  lo colpì a morte con un pugno tra le scapole. La foto finendo a terra si ribaltò: la scritta “we love you daddy” sovrastava un cuore che contornava i volti di una donna sorridente tra due bambine gemelle bionde.
Era giunta la sera tarda e il giovane tenente stava seduto alla scrivania dell’ufficio con una tazza di caffè tra le mani fissando con occhi vitrei il foglio bianco su cui avrebbe dovuto scrivere il rapporto. Il sangue dei morti e la disperazione dei feriti alla stazione ferroviaria e il crudele assassinio della studentessa, offuscavano i suoi pensieri togliendogli lucidità. Fu risvegliato dalla voce dell’agente Apple -“Ha appena chiamato la pattuglia 340, hanno trovato il cadavere di un rinomato psicologo in un vicolo non molto distante dalla biblioteca”-.
-“Causa della morte?”-chiese con sospetto il tenente.
-“Impossibile da spiegare senza autopsia, ma anche questa vittima riporta sulla nuca le lesioni della studentessa”-.
Assorto nelle ormai sempre più numerose e variegate supposizioni, Frank riservava le sue speranze di riuscita per la risoluzione del caso nel laboratorio di analisi che si trovava al piano terra dello stesso edificio. Puntualmente arrivò la telefonata tanto attesa.
-“E’ la prima volta che studio un sangue del genere”-disse l’analista indicando il vetrino sotto al microscopio-“ho rifatto l’esame tre volte ma risulta sempre che le cellule umane sono state modificate da qualche agente chimico da me non riconoscibile. Sono comunque certo che la mutazione abbia in qualche modo alterato l’aspetto fisico dell’essere, in quanto le cellule stesse sono diventate di grandezza anormale”.
-“ Conosce chi sappia identificare la causa di questa mutazione?”- chiese il tenente Frank Giannini.
-“Posso consigliarvi il dottor Tower, che lavora come analista presso un’industria chimica: è un forte appassionato di biologia e genetica”-.
La casa del chimico faceva parte di un complesso di villette disposte su tre piani, la sua aveva finestre con imposte azzurre. Accolse i due agenti indossando un camice perché stava lavorando nel suo laboratorio privato. –“Abbiamo bisogno del suo aiuto per analizzare cellule sanguigne umane con anomalie incomprensibili dall’analista del nostro distretto, il quale ci ha raccomandato il suo nome per aiutarci a risolvere un caso”- gli spiegarono gli agenti sulla porta di casa. Il dottor Tower salì sulla volante diretta al laboratorio intenzionato ad aiutarli. Ma quando analizzò la traccia di sangue impallidì dall’orrore perché si rese conto che quelle cellule così radicalmente alterate appartenevano a Mr Hate. -“Non capisco di che si tratti”- mentì al tenente-“avrei bisogno di più tempo e di lavorare nel mio laboratorio maggiormente attrezzato”-.
– “Allora provi con questo campione”-gli disse –“ l’hanno rilevato sulla giacca dello psicologo ucciso ieri sera e siamo certi che il sangue incriminato è lo stesso”-.
Mentre era seduto sul sedile posteriore della volante, il dottor Tower cominciò a fare i conti con la propria coscienza:-” Se si scoprirà la verità verrò incriminato di aver creato un mostro assassino. Mi chiuderanno in prigione e butteranno la chiave. Devo fare qualcosa il più presto possibile!”- Appena giunto  a casa cominciò a cercare una soluzione tra i campionari di antidoti e veleni vari.
Ormai era l’alba, presto sarebbero arrivate le donne delle pulizie, per cui Mr Hate si affrettò ad entrare nel laboratorio-infermeria della ditta per curarsi la profonda ferita alla mano sinistra: stava perdendo troppo sangue.  Intento ad armeggiare con un flacone di disinfettante incolore, non si  accorse dell’uomo in camice bianco  nascosto dietro il paravento. Erano passati ormai dieci minuti preziosi ma il dottor Tower, rimasto paralizzato da quella visione inaspettatamente terrificante,  cominciò a dubitare circa la riuscita del suo piano.-“ Sapevo che sarebbe venuto qui”-pensò lo scienziato-“nel luogo in cui tutto è cominciato e dove può trovare il necessario per curarsi indisturbato”-. Fortunatamente la poca pazienza di Mr Hate nel gestire gli strumenti medicali, fece pulsare una vena sul collo tozzo evidenziandone così la pelle sottile. Approfittando di quel momento di distrazione, il dottor Tower si avvicinò silenziosamente e, con un colpo deciso, lo trafisse in quel punto vulnerabile. L’ago si conficcò saldamente nella giugulare e il chimico spinse lo stantuffo con tutta la forza che aveva in corpo. Riuscì ad iniettare il veleno, ma non fece in tempo a scansare il man rovescio di Mr Hate: fu talmente violento da sbalzarlo contro l’armadietto a vetri del pronto soccorso. Dal contraccolpo questo gli cadde addosso e un pezzo di vetro, staccandosi, si conficcò nell’addome recidendone di netto l’arteria. Il  dottor Tower, prima di morire dissanguato, tolse dalla tasca del camice la busta gialla non ancora aperta: finalmente si era liberato la coscienza da quel grosso peso.
Le vertigini lo assalirono quasi subito: Mr Hate si aggrappò al tavolo, ma le gambe, rimaste normali, iniziarono a tremare come se avesse avuto la febbre molto alta. Inginocchiatosi  sul freddo pavimento, cominciò a respirare affannosamente perché il veleno aveva intossicato i polmoni. Quando stramazzò a terra morto, il volto deformato era completamente cianotico.
Gli addetti delle pulizie arrivati due ore dopo, trovarono molto più  di cestini da svuotare e bagni da pulire: terrorizzati scapparono dall’edificio chiamando la polizia da una cabina telefonica pubblica.
-“Il dottor Tower lo conoscevamo”-disse il tenente Frank Giannini mentre i due corpi disgraziati venivano portati via-“ ma dell’essere mostruoso abbiamo qualche generalità?”-.
-“Nelle tasche del soprabito ho trovato solo questi”-rispose l’agente Apple e aprendo la mano destra mostrò, incisi con le iniziali J. H.,  due soldatini di piombo.

LA BELLEZZA di Paola Mutti. Secondo Livello Ragazzi. Corso di scrittura online

La Bellezza di Paola Mutti
Secondo Livello – Corso Ragazzi

La Bellezza danza leggiadramente intorno a noi, come un timido cigno bianco intimorito dal proprio aspetto.
Fa parte della nostra vita e ci regala emozioni indimenticabili.
Consciamente o inconsciamente, confrontiamo tutto ciò che ci circonda con modelli di riferimento, che possono essere personali e spontanei o appresi attraverso un’istruzione. Così nascono due tipi di bellezza: quella oggettiva, trasmessa da stereotipi, e quella soggettiva, propria della persona.
Quando parlo con gli amici mi accorgo che spesso la bellezza oggettiva-esteriore-è presa molto più in considerazione di quella interiore. Tutti vorrebbero assomigliare ai modelli delle pubblicità o agli attori dei telefilm. Questo è una delle maggiori cause di frustrazione per la maggior parte delle persone, e anche una caratteristica della nostra epoca: un ossessivo e assurdo eccesso di attenzioni all’aspetto esterno delle cose, all’apparenza, al come dovremmo apparire per poter essere… A quanto ci dicono i media, dovremmo essere più belli, più perfetti per essere normali. Ci vorrebbero tutti uomini di successo e donne bellissime, bimbi perfetti, nonni atletici e tutti rigorosamente eleganti.
Questo si tramuta ovviamente in un’affannosa ricerca per diventare come i modelli proposti, spostando la nostra attenzione alla superficialità e alla falsità. Spesso qualcuno arriva al punto di farne un’ossessione, da cui è difficile tornare indietro.
Ma per fortuna ci sono anche persone che, stanche di tutte queste inutili attenzioni, hanno deciso di pensare, di riflettere e di guardare il mondo attraverso una prospettiva più profonda… Una prospettiva che parte dalla Bellezza interiore.
Che cos’è la bellezza interiore? Si tratta di una qualità molto particolare, una caratteristica unicamente umana. È importante riuscire a comprendere la bellezza interiore di una persona, perché solo dopo esserci riusciti si può dire di conoscerla veramente. L’interiorità richiama un senso di profondità, un qualcosa di percepibile ma di misterioso. È qualcosa che comprende, ma va anche oltre, il carattere delle persone e i sentimenti espressi. Per esempio, un amico può manifestare buoni sentimenti, come amicizia, comprensione, amore, ma avere un carattere detestabile e scontroso. Scovare e interpretare la bellezza interiore è uno dei lavori degli artisti: dei pittori, dei poeti, degli scrittori, degli scultori. Attraverso una poesia, o un buon romanzo, per esempio, si possono trasmettere momenti di vita vissuti, sensazioni provate, che esprimono la bellezza interiore delle persone.
Non saprei dare una vera e propria definizione di bellezza.
È qualcosa che cambia continuamente e che non cambia mai.
La troviamo in posti completamente diversi l’uno dall’altro, però ci fa sentire sempre bene. Ci fa provare emozioni che ci sembrano sempre nuove e migliori delle precedenti.
La Bellezza interiore è come il bagliore di un riflesso, come se in ogni essere umano ci fosse uno specchio che, se girato verso il sole, ne riflette tutto il suo splendore.
In conclusione, la Bellezza esteriore ci colpisce, ma spesso viene sopravvalutata. Per esempio, la bellezza di una persona molto attraente ci colpisce, ma viene spesso ridimensionata quando quella stessa persona apre la bocca senza collegare il cervello.
Al contrario degli uomini, la natura, con la sua grande bellezza esteriore, non finisce mai di donarci grandi emozioni. Anche se è solo una bellezza esteriore, è tanto grande che ci fa provare dei sentimenti profondi.  Per questo, quando vedo un pesco in fiore, mi fermo e resto a guardarlo. E  mi struggo, pensando che è lì solo per poco e io non posso tenerlo sempre con me; così come quando mi trovo davanti ad un quadro e quello che vi è raffigurato mi accende un’emozione, gioiosa o triste.
Così scopro che per me, la Bellezza è ciò che mi regala emozioni. E cerco di rallegrarmi di tutto ciò, in modo da possedere, almeno in parte, la bellezza che ho imparato a riconoscere nella mia vita.
La Bellezza è come un giardino a primavera, come una schiera di angeli in volo, una rosa rossa appena sbocciata. La Bellezza è felicità; è la neve che cade sugli alberi d’inverno; è la brezza che trasporta le foglie d’autunno; è il sole che risplende sull’acqua color cobalto in estate; una grotta piena di pietre sfavillanti.
La Bellezza è amore per tutte le cose che ti donano emozioni.

LA CASA DEI MISTERI di Francesca Arcangeli. Primo livello Bambini. Corso di scrittura on line

LA  CASA  DEI  MISTERI di Francesca Arcangeli

 

Primo Livello Bambini

Corso di Scrittura on-line

 

La chiamavano la casa dei misteri ed era disabitata da molti, lunghissimi anni.
Era sempre stata nota per l’orrenda fine dei suoi proprietari. Era una storia di cui i vecchi abitanti del paesino amavano ancora parlare per impaurire i piccoli e curiosi bambini della zona. La storia racconta che una volta lì ci viveva un duca, con sua moglie e due figli. Poi, una mattina cupa e scura, il giardiniere trovò la moglie e i figli del duca assassinati in salotto: il figlio maggiore quasi incenerito nel camino, la madre stesa sul divano e il più piccolo dei due figli appeso al soffitto. Nessuno sa cosa successe veramente quella notte ma una cosa fu certa: del duca neanche traccia. Nessuno però si stupì più di tanto dato il fatto che la famiglia, recentemente, aveva avvertito strane presenze come mobili che si spostano, oggetti che scompaiono e ricompaiono all’improvviso nei posti più insensati e il solito vento caldo che spostava le tende anche a finestre chiuse. La famiglia insomma aveva affermato che la casa era infestata da spiriti malvagi….

Era una fredda mattina di fine ottobre, l’aria era pesante e un leggero venticello pungeva il viso. Avevo sentito tutte le storie su quell’orribile casa ed ero decisa a scoprire cosa si nascondeva là dentro. Era una villetta isolata posta in cima ad una collina, piuttosto diroccata ma ancora visitabile e comunque ci sarei entrata lo stesso anche se il tetto potesse crollare da un momento all’altro. Il muro era scrostato e pieno di edera e in alcuni punti c’erano dei buchi grandi quanto un palmo di mano che la rendevano ancora più inaffidabile agli occhi della gente. I quattro lati della casa erano rivestiti da pietre di diversa grandezza e spessore che, al tramonto, creavano simpatici giochi d’ombra sull’erba verde e dorata tappezzata, qua e là, da un po’di ghiaia bianca e diverse piccole macerie che la casa doveva aver perso con gli anni. Accanto aveva una piccola pianta di uva rossa che si era arrampicata mezza su capanno di legno a cui mancava una parete e dove dentro, una volta, tenevano gli attrezzi da giardinaggio. Infatti all’interno c’erano ancora un vecchio tagliaerba con diversi fili che spuntavano dal manico e si erano ricoperti di polvere e, su un tavolo di legno forato dalle tarme, c’era un antico macete arrugginito che aveva perso ormai tutto il pezzo di lama affilato e, dato che il manico era mezzo rotto, assomigliava di più a un boomerang di ferro. Al lato destro della piccola vigna cresciuta senza riguardi c’era un pozzo fatto di rocce e cemento che aveva sopra un piccolo archetto in ferro battuto avvolto dall’edera secca. Sporgendosi non si riusciva a vedere il fondo infatti si scorgeva soltanto una massa melmosa sotto quelli che sembravano cinque metri d’acqua stagnante. Accanto scorreva un piccolo ruscello proveniente dalla montagna che portava acqua gelida ad un minuscolo laghetto dove sguazzavano piccoli pesci rosso rubino e giallo ocra anche se erano tutti ricoperti di sporcizia e inquinati. Una mal ridotta staccionata di legno con diverse assi mancanti e di un colore marroncino chiaro scolorito dal tempo e dalle intemperie, circondava il tutto rendendo il posto, se possibile, ancora più malandato. Dietro la casa c’era un giardino dall’erba mal curata e un enorme quercia secolare con foglie gialle e quasi spoglia. La sua corteccia era ruvida e in alcuni punti scavata dal tempo. Doveva essere lì da molto più tempo della casa perché era alta più o meno quattro metri e con lunghi rami grossi e pesanti. Una piccola stradina di sassi portava ad una poco rassicurante porta con i vetri rotti. La tintura viola era scolorita e al suo posto era comparso il legno forato; << non entrare>> diceva una vocina maligna i un sussurro come per mettermi paura, << sei arrivata fin qui, che senso ha tornare indietro? Entra!>> questa voce era più calda e rassicurante e così raccolsi tutto il coraggio che avevo in corpo, girai la vecchia maniglia di ferro arrugginito e, con un cigolio inquietante, entrai.
Davanti a me c’era un piccolo corridoio fatto di tavole di legno. Esse erano di un marrone terra sbiadito e corrose dalle tarme e dal tempo, umide e rotte. Davanti a me c’era una scala a chiocciola con il porta mano in ferro scolorito dalla sua tintura bianca originale. Un vecchio tappeto logoro e sporco le saliva tutte accompagnato dai suoi buchi. Al centro, proprio sopra di me, i resti di un vecchio lampadario fatto a fiore con diverse striscioline di diamanti che pendevano sul punto di staccarsi completamente. Dietro la scala a chiocciola c’era una porta bianca con diverse macchie ed una maniglia arrugginita che un tempo era tinta d’oro. Decisi di iniziare dal piano terra e così aprì quella porta. Era una vecchio bagno. Il wc era rotto e scheggiato ma un tempo doveva essere di una ceramica costosa. C’era un antico lavello di marmo bianco, sporco ma ancora intero. I pomelli erano ricoperti di polvere e arrugginiti tanto che non si potevano più muovere. Sul pavimento c’erano diverse piastrelle rotte e di alcune non ce n’era proprio traccia in modo da mettere il suolo terroso in bella vista. Una piccola doccia era davanti al wc ma i vetri che la contenevano erano andati in frantumi e mancavano diverse mensole porta-sapone. Richiusi la porta e decisi di oltrepassare l’arco accanto al lampadario. Mi ritrovai in salotto. Era una stanza grande ed abbastanza accogliente. I muri erano di un colore giallo acceso ma scolorito e diverse lampade ad olio erano poste su dei tavolini di legno rotondi e corrosi posti ai lati di un bel divano arancione con della gommapiuma che spuntava dai braccioli e dei buchi nell’involucro ruvido. Davanti c’era una camino ben lavorato di pietre scure che spiccava per il suo comignolo a punta fatto di pietre arancioni. Era però scalfito, rotto e coperto da un centimetro di polvere (come tutto in quella casa) che lo rendeva inquietante e isolato. Al centro, sopra un bel pavimento fatto di tavole di legno logore e sudice, si trovava un tappeto azzurro pieno di buchi e con i disegni dorati scoloriti dal tempo. Dal soffitto pendeva un enorme lampadario di cristallo a forma rotonda. Le lampadine erano rotte ma la maggior parte era caduta a terra formando piccoli pezzi di vetro taglienti che riflettevano la luce del sole. Passando per una vecchia porta di cui era rimasto solo qualche pezzo di legno qua e là, c’era la cucina. I fornelli erano rotti e minuscoli pezzi di ferro arrugginito erano davanti. Doveva aver preso fuoco perché l’interno era nero e pieno di fuliggine e diverse pentole erano state cappottate sopra anche queste completamente nere. Il tavolo era bucato dalle tarme e al centro della cucina. I gambi erano lavorati finemente anche se adesso ne mancava uno che era sdraiato sul vecchio pavimento freddo e umido di marmo nero. Sopra un vecchio lavandino rotto senza un pomello d’argento c’era una credenza per i piatti, anche se dentro era rimasto solo un bicchiere di vetro sporco e macchiato. Accanto si trovava un cofanetto bianco e rotto il cui sportello si muoveva ritmicamente. Un momento: lo sportello si muoveva! Tornai a guardarlo e questo si fermò di colpo. Poi iniziò ad accendersi e spengersi una lampada ad olio vicino ad un vecchi mobile di legno di noce che già traballava. D’un tratto ogni cosa si fermò e iniziò a fare freddo, il freddo aumentava. La brina si stava posando sul vecchio frigorifero rotto. Poi un fischio assordante riempì la stanza e a questo punto volevo solo scappare. Iniziai a correre versò la scala a chiocciola e dalla fretta di salirla inciampai in due gradini rotti finendo con una gamba incastrata mentre con una mano mi reggevo al tappeto. Arrivata in cima il fischio cessò. Che cosa poteva essere stato? Una cosa era certa: quella casa non era normale. Prima finivo di ispezionarla meglio era!
mi trovavo in un lungo corridoio con il soffitto arrotondato e pieno di disegni che raffiguravano angeli nel cielo coperti di nastri e fiocchi ma era anche tappezzato di porte. Davanti ad ognuna c’era una lastra di legno più chiara di quelle con cui era ricoperto il pavimento che serviva forse come piccolo scalino. Entrai nella prima: era una camera con il letto a baldacchino. Le lenzuola erano di un color violetta chiaro che stonava alquanto con il muro giallo canarino. I cuscini erano sparsi sul vecchio pavimento bucato e i pezzi di vetro del bellissimo lampadario e delle lanterne riflettevano la luce del sole che passava dalla finestra e che si stava affievolendo sempre di più. dovevo fare in fretta era già inquietante stare lì di giorno, figuriamoci di notte. Guardai per l’ultima voltai magnifici comodini di legno di quercia a cui mancavano diversi gambi e mi chiusi la porta alle spalle. Passai alla seconda stanza: era più piccola e il letto a una piazza aveva le coperte azzurrine e i muri blu notte, il tutto, naturalmente, rotto e sporco. Diverse mensole erano piene di macchinine rotte e bambole aperte a metà. Un piccolo comodino regnava sovrano accanto al letto e sopra c’era un lampada bianca. Le finestre erano assenti come i cuscini e, su una scrivania vecchia e logora, c’era un mappamondo con accanto diverse penne senza inchiostro. Un vecchio lampadario giaceva a terra con tutte le perline sparse per la stanza. Lasciai quella stanza e mi diressi verso la terza e ultima porta. Dentro c’era un box con le coperte giallo ocra e i muri tinti di un azzurro confetto davano l’idea che quella fosse una stanza per bambini. Alla destra del letto si trovava un vecchio cavallino di legno e una confezione di caramelle di cui era rimasta solo la carta. Una piccola lanterna penzolava dal soffitto e sembrava sul punto di cadere da un momento all’altro. Una minuscola finestra rifletteva la luce del tramonto dal cima della stanza quadrata. Decisi che la gita in quella casa infestata era finita ma quando feci per uscire si udì un botto secco e tra tantissimo polverume mi trovai davanti una logora scala ridotta proprio male! Aveva quasi tutti i gradini mancanti e, ad ogni passo, produceva un inquietante cigolio come se dovesse schiantarsi da un momento all’altro. Decisi di salirla e mi resi conto che portava ad una soffitta segreta. Dentro c’era di tutto: una vecchia bici senza manubrio, cuscini polverosi, mensole porta-sapone rotte e tantissimi scatoloni impolverati. La luce filtrava da una piccola finestrella in cima al soffitto e bisognava abbassarsi per poter camminare. Poi vidi dei mattoni rialzati come se fossero stati messia a coprire qualcosa e, con un martello dal manico di ferro, cominciai a sfondarli. Penso sia stata la cosa più orrenda che abbia visto in vita mia: un grande scheletro dalle ossa rotte e ingiallite vestito con una cravatta rotta e una giacca blu come i pantaloni tutto pieno di buchi, logoro e sudicio. Non avevo la forza di urlare, ero troppo spaventata. Poi le vidi: quattro ombre che avanzavano verso di me, un uomo, una donna e due bambini uno dei quali era mezzo incenerito. L’uomo parlo con voce possente << non saresti dovuta venire qui, ora scappa finché sei in tempo e non raccontare a nessuno di questa casa e degli spiriti che la infestano>>. Non me lo feci ripetere due volte: iniziai a correre, scesi la scala mentre un fischio assordante riempiva la casa e tutto intorno a me iniziò a muoversi: le porte sbattevano, i lampadari traballavano ma non avevo tempo per stare a guardare. Scesi la seconda scala a chiocciola, oltrepassai il laghetto, il pozzo, la vite e la vecchia staccionata. Poi, ormai lontana da tutto ciò, una voce mi entrò negli orecchi: << tu devi sapere, sapere la vera storia. Il conte assassinò sua moglie e i suoi figli e poi si uccise da solo. Nascose da morto il suo corpo in soffitta e ora vive e vivrà per sempre con la sua famiglia. Ora sai ma non dire a nessuno ciò che hai visto…>>. La voce scomparve com’era arrivata. Tornai a casa e cercai di dimenticare tutto ma io, solo io sapevo la verità e nessuno avrebbe potuto dire che io fossi pazza perché io avevo visto, io avevo sentito.
La chiamavano la casa dei misteri e, alla luce dei nuovi fatti, era abitata da molti, lunghissimi anni!