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LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia ( i racconti dei corsi on line)

LA CASA DEI MISTERI di Vittoria Batavia

Corso Bambini – Primo Livello

Elize sbatté con furia l’anta dell’armadietto, che protestò cigolando.
“Un giorno o l’altro si rompe“, esclamò Agnes, la sua graziosa amica che se ne stava due armadietti più in là.
Elize proprio non la ascoltò. Era colpa sua, e lo sapeva, se le avevano rifilato l’ennesimo cinque di storia, ma…la prof interrogava sempre lei! E poi ci si mettevano anche Kate, Stefania e il loro seguito ghignante: Elize proprio non le sopportava.
Proprio mentre ci pensava, le due Miss Popolarità e la sorellina di Kate, Beth, passarono nel corridoio con aria di superiorità, portandosi dietro un’ondata di quel loro nauseante profumo Sensuality. Elize fece in fretta, afferrò i libri di francese e algebra e intercettò la camminata da pop star delle due, frenandone l’avanzamento nel corridoio.
“Che vuoi?”, chiese Stefania scostandosi con finta noncuranza una ciocca bionda dal viso.
A Elly era venuta un’idea, non ne poteva più dei soprusi di quelle due, e poi era una stupidaggine da bambini, suo fratello ne parlava da tempo. “Vorrei proporvi una cosuccia”, disse con lo stesso tono falso e mellifluo di Stefania, “ovvero andare nella vecchia casa Cronwell, vicino al bosco. Avete il coraggio di…farci una visitina?”.
Tutti quelli che stavano passando nel corridoio si fermarono ad ascoltare, avevano colto tutti le parole di Elize che, dal canto suo, si trovò con un’aria soddisfatta dipinta in volto: Stefania era impallidita, e Kate le strattonava una manica come una bambina: “Dille di sì, Stefy, dille di sì!”, Stefania riprese colore e un’espressione strafottente e presuntuosa, “certo, che roba da bambini…ti sei rimessa a sentire le storie di fantasmi dalla mammina, Elize?” – poi fece una pausa “ad effetto”, falsa e impostata come nei film, e proseguì, “domani pomeriggio, alle sei, bambinetta. E se te la fai sotto portati dietro l’amica”. Poi rise sprezzante insieme a Kate, mentre si allontanavano nel corridoio, il rumore dei tacchi più sonoro che mai in mezzo alla calca di studenti ammutolita.

***

Elize e Agnes arrivarono qualche minuto dopo Stefania e Kate, seguite da una folla di ragazzi della scuola.
Si fermarono tutti ai piedi della collina: gli altri ragazzi perché non avevano il coraggio di proseguire, le quattro ragazze perché dovevano decidersi sulle regole della sfida. Elize e Agnes si fermarono davanti alle altre due ragazze. “Orologi sincronizzati: mezz’ora là dentro e poi usciamo “, disse Stefania, “sempre che voi due bambolotte non ve la facciate sotto prima”. E giù a sghignazzare con Kate.
Elly, però, non aveva nessuna voglia di scherzare: “Stefania, fai veramente ridere e la sfida che hai proposto è da poppanti. Io dico un’ora, a meno che dopo un quarto del tempo voi due non siate già schizzate fuori urlando come oche”.
“E un’ora sia”, esclam Kate, “vince chi resiste per tutto il tempo dentro, ma per noi sarà veramente un giochetto”. Elize ficcò le mani nella tasca del giaccone e seguì Agnes su per il dolce pendio della collina.
La casa dei misteri, così come la chiamavano tutti, era in cima, sul punto più alto. Aveva un aspetto inquietante già da fuori: non sembrava vecchia e decrepita ma appena costruita e abbandonata. Le finestre erano sbarrate con assi marce e chiodi arrugginiti, ma i cardini erano argentati e lucidi. Il portone di legno dimostrava tutti i suoi secoli, però incuteva ancora timore col battacchio a forma di lupo.
“Ci sono cento stanze e cinquanta scaloni giganti, con una botola a ogni gradino che può farti sprofondare negli abissi”, pensò Elly con un groppo alla gola, fissando la casa e ricordando le parole del fratello – nelle camere i fantasmi dei vecchi abitanti dormono nei letti – “Sono stupidaggini, roba da bambini. Stefania e Kate perderanno”, si rassicurò cercando di non avere paura. Poi, mano nella mano con Agnes, spinse il portone che si aprì emettendo il rumore più sinistro e spaventoso che essere umano avesse mai udito.
Elly e Aggy balzarono indietro spaventate, mentre Stefania e Kate se la ridevano contente.
Appeso su un gancio sulla parte superiore della soglia, c’era uno spettrale fantoccio fantasma. Era un vecchio lenzuolo dipinto con gli acrilici, uno scherzo di quelle due vipere. Elly sbuffò e rise: “E’ tutto quello che sapete fare?”. Kate si girò e fece una linguaccia, poi entrarono e richiusero il portone vedendo l’ultimo sbuffo di luce scomparire dietro il legno scuro.
“Agnes, ci sei?”, chiese Elize cinque secondi dopo.
“Sì, sono qui…c’è pochissima luce”, sussurrò Agnes spiegando che le altre due erano andate verso destra.
“Allora noi prendiamo quest’altro corridoio. Se troviamo una stanza dove poterci sedere ci fermiamo lì…seguimi”, Elize era decisa.
Si presero per mano e mossero qualche passo nel corridoio. La casa sapeva di muffa e sapone rancido, un odore dolciastro e vanigliato da vomito. Le assi del pavimento scricchiolavano ad ogni minimo respiro, e Elly si sforzò di non pensare ai topi. Aveva immaginato che quello fosse veramente un posto da bambini, ma non era così. Le veniva una voglia tremenda di urlare, urlare che voleva uscire di lì…ma sapeva di poterlo fare: Kate e Stefania avrebbero vinto.
Si trovarono quasi subito davanti a una scala mezza marcita, con un tappeto rosso bordato d’oro consunto e mangiato dalle tarme. Un tempo doveva essere stato bellissimo, rosso fuoco e splendente, ma ora era poco più di uno straccio appiccicato al legno. Elize sfiorò il mancorrente con mano incerta, quello vacillò e Elize si sentì sollevata in aria: aprì gli occhi e in un mare di luce accecante e violetta, vide in un lampo l’antico splendore della maestosa scalinata: il tappeto lustro e luccicante, l’oro dei bordi perfettamente coordinato.
Il mancorrente in legno era talmente lucido da sembrare marmo, e un lampadario di meraviglia indescrivibile troneggiava in cima più abbagliante di una palla da discoteca. Elize allungò una mano, ipnotizzata, ma crollò subito a terra, contorcendosi sul pavimento. Quando si mise a sedere, cercò la mano di Agnes accanto alla sua: “Cosa…cosa è successo? Hai visto anche tu?”, esclamò allarmata. Ma Elly si accorse di non avere stretto la mano di Agnes, ma un pezzo di stoffa sul pavimento. Lo avvicinò il più possibile agli occhi, in modo di vederlo il meglio possibile. Era una stoffa scarlatta e lucida, come dell’acqua limpida e pulita in un mare di petrolio. Elly doveva averla strappata quando aveva allungato la mano, ma com’era possibile? Quella visione non era reale, solo un brutto gioco dell’immaginazione. Elize raccolse il pezzo di stoffa  e si alzò in piedi: magari Agnes aveva proseguito credendo che lei la seguisse, mentre era lì tra le sue fantasticherie…e, guardandolo bene, si accorse che in fondo quella stoffa non aveva niente di speciale. Era un po’ meno consunta di quella del tappeto, questo sì, ma dimostrava lo stesso una certa età.
Corse su per la scala e chiamò Agnes per un po’, poi, senza nemmeno pensarci, si fiondò dentro la prima porta che aveva di fronte e fece cadere per terra la pezza di tessuto che aveva in mano. Nello specchio enorme e antico di bronzo che le stava davanti era riflessa l’immagine di…Agnes! E appena si avvicinò, la figura trasparente di una ragazzina spuntò fuori dal muro. Aveva i capelli rossi e a boccoli, acconciati in modo perfetto, e un vestito verde polvere molto all’antica, ancora con la crinolina. Elize avrebbe voluto urlare, ma non ci riuscì perché si accorse che quella ragazzina era identica a lei!
“Chi sei?”, chiese, rivolta alla sua sosia.
”So che è difficile crederlo, ma io sono un fantasma…e tu sei la mia pro-pro-pro-pro-pro-pro nipote. Tu sola hai il permesso di entrare in questa casa, è per questo che ho fatto prigioniera lei. Ce ne sono altre due, vero?”, disse la ragazza-fantasma.
“Ammettiamo che io ti creda, anche perché faccio fatica a pensare che sia uno scherzo della mia immaginazione, tu fluttui! Comunque, come ti chiami?”, domando esterrefatta Elize.
“Il mio nome è  Elizabeth”,  rispose, “e tu devi credermi, è vero quello che dico. C’è una…cosa, legata a questa casa, ma io non posso occuparmene, sono segregata qua…ed aspettavo il momento in cui tu saresti venuta, per affidarti questo compito. Ma prima devi andartene, e anche in fretta: non sono l’unica che abita qui.”
“Libera Agnes!”, disse Elly con aria di sfida.
“Lo farò, antenata, ma tu devi promettermi che tornerai…ho bisogno di te!”, supplicò Elizabeth.
“Va bene, tornerò appena mi sarà possibile…ma tu potresti farmi un favore?”, e così dicendo bisbigliò all’orecchio del fantasma alcune parole.

***

Dopo alcuni minuti Agnes ricomparve come se nulla fosse successo. Assieme a Elize si era messa sulla soglia della casa, mentre Kate e Stefania correvano via gridando come pazze: il fantasma aveva fatto ciò che Elize aveva chiesto. Le aveva proprio terrorizzate.
Era dunque ovvio chi aveva vinto la sfida!
Elly diede il cinque ad Agnes e, girandosi verso l’interno, fece l’occhiolino alla sagoma appena visibile di Elizabeth sussurrando: ”Tornerò…”

Yinger e l’Antico Tomo di Teresa Di Gaetano (Corso Adulti – Secondo Livello)

Yinger e l’Antico Tomodi Teresa Di Gaetano

Corso Adulti – Secondo Livello

“Signora Aduial, Yinger, posso entrare?” si udì la voce di un ragazzo che Yinger riconobbe quasi subito, anche da dietro la porta: era Aless, il suo amico di infanzia.

Quando entrò la vide inginocchiata vicino a letto della nonna, in lacrime le teneva la mano.

“Yinger, cosa è accaduto?” chiese avvicinandosi e cingendole le spalle.

Lei lo scacciò seccata: “Và via – gli intimò – non ti riguarda!” di tutte le persone che avrebbe voluto vedere in quel terribile istante, Aless era l’ultima.

“Cosa è successo a tua nonna?” incalzò, posandole una mano sulla spalla.

Ma lei non rispondeva, a stento tratteneva i singhiozzi.

“Sta molto male” rispose con un filo di voce la ragazza.

Vedere Yinger in lacrime gli dilaniava l’anima e il cuore.

“Cosa posso fare per te?” disse inginocchiandosi, ma lei volse lo sguardo dell’altra parte.

“Non hai sentito cosa ti ho detto? Và via!” e riprese a singhiozzare.

Aless guardò attorno nella stanza, sentendosi inutile, si diresse verso la porta.

“Sappi che qualunque cosa tu abbia bisogno, io ci sarò” e uscì.

Mentre percorreva il piccolo corridoio della casa, Aless udì voci di bambini che correvano felici tra i vicoli. Rivide quando loro erano piccini e facevano le gare per salire sull’albero più grande della piazzetta della loro bella città Corallo d’avorio. Yinger era sempre stata più agile di lui e arrivava sempre per prima in cima.

Incerto posò la mano sulla maniglia. E il suo dolce profumo alla vaniglia buonissimo, gli penetrava l’anima. Si richiuse la porta dietro le spalle.

***

Nonna Aduial aprì un pochino gli occhi e poi con flebile voce bisbigliò: “Ti devo dire alcune cose, Yinger.”

La ragazza alzò lo sguardo verso la vecchia.

“Dimmi tutto, ti ascolto” si portò la mano dell’anziana sulla guancia in segno di affetto.

“E’ un segreto della nostra famiglia.” Iniziò a raccontare nonna Aduial.

Nel camino, nel frattempo, crepitava il fuoco.

“Io sono una maga. Da tre generazioni le donne della nostra famiglia lo sono. Tua nonna Aranel e prima ancora la tua bisnonna Alatariel avevano dentro il sacro fuoco della magia che ardeva nelle loro anime. Ma hanno conservato il loro segreto e lo hanno svelato alle loro figlie solo in punto di morte.”

Yinger a quelle terribili parole le strinse più forte la mano.

“Ed ora è giunto il momento di svelarti il mio segreto e il tuo che dovrai custodire fine alla fine dei tuoi giorni!” ebbe un rantolo ed Yinger si alzò di scatto dalla sedia.

“No… non ti preoccupare: è solo una fitta, passerà. Ho giusto il tempo di dirti quello che devi sapere.” Cercò di porsi a sedere, ed Yinger l’aiutò sistemandole il cuscino dietro le spalle.

“Se studierai apprenderai la forza dei quattro elementi: l’acqua, il fuoco, l’aria e la terra. Gli elementi, i quattro, sono tuoi alleati. Devi imparare a domarli al tuo volere.”

Yinger si stupì di quello che stava ascoltando e così annuì mentre le lacrime continuavano a scendere.

Per Yinger nonna Aduial era sempre stata una mamma, perché l’aveva allevata come una figlia.

“Nonna – cercò di rincuorarla – vedrai che ti riprenderai!”

“No! ormai è giunta la mia ora. Sono troppo vecchia per vivere, ma tu, nipote cara sei sempre stata la mia prediletta. E’ giusto che adesso conservi tu il segreto di famiglia. Vai allo scaffale di quel mobile ed apri il cassetto.”

Yinger fece quanto le stava dicendo l’anziana, così si diresse verso il comò ed aprì un cassetto. Il primo.

“Cosa vedi?”

“C’è un bastone” rispose incerta Yinger.

“Prendilo!” la esortò la vecchia.

Yinger lo afferrò e in quello stesso momento il bastone non solo si illuminò, ma si allungò. Il bastone terminava con una spirale con al centro un grande smeraldo di forma ovale.

“Che bello!” esclamò entusiasta.

“Questo è il mio bastone, adesso è tuo. Se dirai lucem comparirà oppure scomparirà.”

“Come… come fa a riapparire?”

“Una volta impugnato ormai ha preso la tua impronta. Non hai visto che si è illuminato?”

Nonna Aduial tossì forte.

“Questo vuol dire che se qualcun altro lo tocca, può portarmelo via?”

“Solo se è un mago come te,” rispose l’anziana con un po’ di affanno.

Lucem!” disse a voce alta Yinger e il bastone scomparve immediatamente.

“Vai verso quella libreria, ora” e le indicò la libreria addossata al muro, vicino alla finestra.

Yinger guardò i dorsi dei libri con curiosità.

“Prendi quello nel secondo scaffale, il secondo a destra.”

Yinger ubbidì. Il tomo si rivelò un po’ più grande di quello che dava a vedere messo in ordine nella libreria.

“Questo è l’Antico tomo della Biblioteca di Akyab. Da tre generazioni viene conservato nella nostra libreria. Il tuo compito è di portarlo… – e tossì un’altra volta – portarlo di nuovo là!”

“E perché mai?” domandò la ragazza.

“La città di Akyab vivrà un momento terribile, e solo un mago potente, se non potentissimo, può usare gli incantesimi del libro. Per la salvezza di questo popolo devi portargli il libro. Ho visto, infatti, cosa sarebbe accaduto senza quel libro!”

La nonna tacque. Chiuse gli occhi ed Yinger si avvicinò velocemente all’anziana, pensava che si era addormentata. Invece, la donna aprì gli occhi spalancandoli all’improvviso. Yinger la vide tremare.

“Non ho ancora finito,” sembrò supplicare con voce tremante.

“Yinger vai vicino al mio comò di nuovo. Proprio sopra, troverai uno specchio magico.”

La ragazza lo prese subito e ci si specchiò, mentre nonna Aduial continuava a parlare con voce rauca: ”Con questo potrai evocare la forza della luce. Basta che dirai Lux splendentis.”

Di nuovo l’anziana rantolò, gettò la testa all’indietro sul cuscino e con la bocca aperta respirò affannosamente.

“Nonna!” si gettò tra le sue braccia Yinger.

“La mia collana… prendi anche la mia collana. E’ un amuleto… avrai così il potere di evocare gli spiriti dei morti.”

L’afferrò per le braccia, come se volesse scacciarla. “Non puoi impedirmi di andarmene. Stai molto attenta. Devi ancora sapere che hai una sorellastra, il suo nome è Tinie. Lei farà di tutto per toglierti il Tomo antico, e poi perché ti considera responsabile della morte di vostra madre. Ma tu proteggilo anche con la tua stessa vita!”

Detto questo esalò, lasciando Yinger interdetta.

“Nonna!” esclamò a voce alta la ragazza.

Sua nonna, la sua cara nonna era morta! Yinger vide tutto il suo mondo crollare: che cosa avrebbe fatto senza di lei? Già non aveva più una madre, e adesso aveva perso quella che fino ad allora era stata come una madre per lei. Pianse calde lacrime.

In quel mentre entrò di nuovo Aless: aveva dimenticato il suo cappello ed era tornato per riprenderselo. Quando vide che Yinger singhiozzava, si avvicinò alla ragazza, con il cappello tra le mani.

“Le daremo degna sepoltura,” disse Aless.“Non ti preoccupare.”

Poi perse i sensi, il troppo dolore le aveva dato un senso di vertigine. Anche perché la sua vita d’ora in avanti senza la presenza di sua nonna sarebbe, infatti, stata completamente diversa.

***

Quando Yinger rinvenne si ritrovò nella sua stanza. Era a letto, con una coperta di sopra. Il fuoco crepitava nel camino che illuminava tenuemente la stanza. Seduto accanto a lei, sul letto, vi trovò Aless.

“Come ti senti?” le domandò preoccupato.

Lei sbatté le palpebre due volte prima di rispondergli:”Un pochino meglio. ”

“Domani seppelliremo tua nonna.”

Doveva ammetterlo a malincuore, però la vicinanza di Aless in quel momento la faceva sentire meno sola.

“Sì. Speriamo non piova,” disse guardando dalla finestra. La tendina era appena scostata e si intravvedeva il cielo non particolarmente limpido.

“Perché dici così?” le chiese il ragazzo.

“Mia nonna mi ha detto che quando piove e si seppellisce un morto poi in quel punto non nascerà più alcun albero. E nessuno si ricorderà del morto.”

“Oh!” esclamò sbalordito il mago. “Allora, sì… speriamo non piova.”

Yinger rimase alcuni istanti a fissare il cielo grigio, poi il soffitto. Sospirò.

“Devo partire,” disse tutto d’un fiato.

“E dove vuoi andare?” iniziò a preoccuparsi Aless.

“Ad Akyab. Mia nonna mi ha chiesto un favore prima di morire ed io le ho promesso che l’avrei fatto. Almeno… in cuor mio,” aggiunse la ragazza.

“Akyab? Così lontano? Perché mai?” domandò con curiosità Aless.

“Ma io non voglio partire,” ammise Yinger incurante della domanda del mago. “Voglio rimanere qui, in questa casa.”

“Cosa ti spinge, allora, a farlo?” incalzò il ragazzo.

“Devo portare l’Antico tomo alla Biblioteca di Akyab. Da questo dipenderà la salvezza della città. Mi domando, chissà perché proprio io!” e qui socchiuse gli occhi verdi.

“Se vuoi ti accompagno,” disse alzandosi in piedi. “Ma ora riposa un altro po’. Prendi questo, è una pozione per far addormentare.”

I boccoli neri di Yinger giacevano scomposti sul cuscino. Ad Aless venne il desiderio di accarezzarli, ma non lo fece. Porse il liquido scarlatto contenuto in una boccetta di cristallo alla ragazza.

“Non lo voglio,” disse scostandolo con la mano.

Aless fu felice di quel sì breve contatto, ma insistette per farglielo bere.

“Bevine solo un goccio. Domani starai subito meglio.”

Yinger alzò la testa dal cuscino, prese dalle mani bruscamente la boccetta e la sorseggiò.

“Sa di bacche rosse” disse accennando un breve sorriso.

“Sì… il tuo gusto preferito. L’ho scelto perché sapevo che ti piaceva.”

Yinger bevve tutto d’un fiato la pozione, prima che Aless potesse fermarla.

“Eh… no, così è troppa!”

“Era buonissima! Grazie, Aless” posò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi subito.

“Buona notte, tesoro” e le baciò teneramente la fronte.

***

Quando Yinger si addormentò, iniziò a sognare. Vedeva una fanciulla. Era magra d’aspetto, aveva i capelli biondi, lunghi e gli occhi azzurri chiarissimi. La pelle diafana e un sottile velo celeste la copriva lasciando intravvedere il suo esile corpo.

“Benvenuta!”

Yinger chinò il capo: si sentiva leggera come una foglia.

“Sono Yinger” si presentò, ma quasi subito si pentì di aver pronunciato il suo nome. La bella fanciulla ora appariva come un mostro che la inseguiva, pronta con i suoi artigli ad afferrarla. Lei si mise a correre, ma quella mano-artiglio diventava sempre più grande, finché non la prese. Cercò di svincolarsi dalla stretta, ma si accorse che era sopra un albero e che i rami la stavano trattenendo.

“Ciao!” udì una voce sconosciuta.

“Chi sei?” domandò riuscendo a liberarsi dalla stretta e cadendo dall’albero.

“Sono Quesq.”

Yinger alzò lo sguardo in direzione della voce e vide che aveva di fronte un elfo. Era alto, slanciato, con la pelle chiarissima e i capelli tutti bianchi, le orecchie a punta. Indossava una casacca color indaco, una cinta, e un paio di pantaloni di fustagno dello stesso colore. Ai piedi calzava delle comode scarpette dorate, la cui punta finiva arrotolata all’indentro. Aveva in mano un flauto.

“Sei un elfo!” disse sbalordita Yinger.

“So cosa ti è accaduto di recente, e mi dispiace tanto. Yinger, ormai hai diciannove anni e devi essere forte. Tua nonna ti ha dato una missione da compiere, e tu la porterai a termine.”

“Parli dell’Antico Tomo?” domandò la ragazza.

“Certamente. Zosheng, uno stregone malvagio, si appresta a conquistare la città di Akyab. Tutto questo si rifletterà sul GranRegno. Molte genti, infatti, ne soffriranno. Yinger devi iniziare a studiare. Vai nella Biblioteca della città e nelle Biblioteche di tutte le città che incontrerai nel tuo cammino. Devi apprendere l’arte della magia. Non solo dai libri, ma anche pian piano da me. Ti insegnerò tutte le formule magiche utili per poter affrontare il tuo nemico.”

“Mia nonna mi ha detto che ci vuole un mago potente per poter aiutare la popolazione di Akyab, come farò io, da sola, a sconfiggere questo Zosheng.”

L’elfo non ci rifletté nemmeno un momento e disse: “Non ti preoccupare, ti istruirò io. Ma sappi che anche tu dovrai studiare moltissimo per diventare una brava maga o una brava strega.”

“Cosa vuoi dire?”

“Dovrai scegliere se diventare una strega bianca, quindi una maga, o una strega nera. Sappi che da entrambe le parti faranno di tutto per attirarti a sé, ma l’ultima scelta spetta a te. O entrerai nella Congrega delle Tredici Streghe Nere, oppure  sarai una Sacerdotessa al tempio di Ayon. Lo deciderai col tempo. Non avere fretta.”

“Quesq, quando ci incontreremo di nuovo?”

“In un altro sogno. Adesso va e ora che ti svegli. E’ già mattino e c’è il funerale di tua nonna.”

Così Yinger aprì gli occhi di scatto. Le ci volle un pochino prima di capire che era nella sua stanza e che Aless la stava delicatamente toccando per farla svegliare.

“Tutto è pronto, Yinger. Devi dare l’ultimo saluto a tua nonna.” Le disse.

Yinger si pose a sedere sul letto. Era ancora un po’ intontita, poco presente a se stessa.

“Adesso vengo,” fu tutta la sua risposta, mentre sbadigliava.

Aless uscì dalla stanza e lei indossò un abito scuro. Si lavò il viso, per rinfrescarsi e si diresse verso la stanza della nonna. La trovò avvolta in un lenzuolo bianco. Notò che il viso era sereno, anzi sembrava quasi sorridere. Era adagiata su una panca di legno. Yinger si coprì i neri capelli con il velo, in segno di lutto. Poi Aless e alcuni vicini trasportarono la salma pian piano fuori. In giardino già la fossa era scavata. Yinger si ricordò dell’amuleto al collo della nonna, quello a forma di stella. Si slanciò verso il corpo, ma Aless la fermò.

Le fece di no col capo.

“L’amuleto,” farfugliò confusamente.

“Te l’ho messo da parte.”

Poi iniziarono con la pala a lanciare le prime zolle di terra per coprire il corpo.

“Hai visto?” disse Aless. “Non piove!”

La ragazza iniziò a piangere: “Sì… è così… non piove.”

Coprirono il corpo. Poi Yinger, come per tradizione, si tolse il velo e lasciò che il vento lo trasportasse lontano da tutto, da loro.

“Che la tua anima riposi in pace, nonna Aduial!”

Il velo turbinò nell’aria e poi scomparve all’orizzonte, dove nemmeno i loro occhi potevano più vederlo.

“E’ la sua anima, che prende il volo, in lontane, lontanissime sponde!”

“Adesso dove è andata è molto più felice. L’hai visto, no? Sembrava sorridere…” disse sottovoce Aless.

“Sì,” ammise Yinger asciugandosi le lacrime col dorso della mano e sorridendo appena. “Lo spero proprio.”

***

L’indomani non aveva voglia di fare niente. Si era coricata con i doni della nonna. E faceva apparire e sparire il bastone, di tanto in tanto.

Si alzò, si vestì e fece colazione. Il sole splendeva nel cielo, poteva vederlo dalla finestra.

“Oggi è una bella giornata per raccogliere un po’ di bacche nel bosco,” pensò Yinger con un po’ di tristezza.

Così prese un cestino e si diresse verso il bosco. L’aria sapeva di profumi di primavera. C’era qualche rado fiorellino per terra. Inoltratasi nella foresta udì come bisbigliare. Si volse ma non c’era nessuno. Proseguì il suo cammino. Si ritrovò in una verdeggiante pianura piena di soffiobolle, infatti dalle corolle di questi fiori invece di uscire soffioni uscivano incantevoli bolle di sapone. Fu in una di queste bolle che Yinger vide un folletto. Era tutto vestito d’azzurro, con un cappellino che terminava con un pon pon bianco, ed aveva in mano, proprio dentro la bolla, una candela.

“Ciao!” la salutò.

“Ciao!” rispose Yinger.

Il folletto compariva e scompariva con le bolle dei soffioni, però ad Yinger sembrava fossero diversi e non sempre lo stesso perché alcuni avevano l’abito azzurro, altri bianco, altri rosa.

Da una bolla più grande uscì una folletta più grande.

“Io sono Rahama” disse il folletto. “E sono la regina dei folletti.”

“Salve, sua maestà.” Rispose Yinger.

“Vorrei farti dono di Pegaso. E’ un cavallo alato, ma può anche parlare e può aiutarti nella consegna dell’antico tomo”

Il cavallo apparve e ad Yinger parve bellissimo nel suo bianco splendore.

“E’ per il tuo viaggio, così non andrai a piedi.”

Nel frattempo il cavallo si era avvicinato e lei gli accarezzava il muso.

“Grazie per il gentile dono,” ringraziò Yinger.

La regina Rahama riprese a parlare: ” Sai? ho fatto una promessa a tua nonna Aduial, che mi ha salvato la vita e per questo ti faccio dono di Pegaso.”

Ma Yinger a malapena l’ascoltava, tutta intenta com’era ad ammirare il cavallo alato.

“Comunque, Yinger stai attenta, il viaggio è lungo e pericoloso. Sappi che tutti i miei folletti saranno sempre con te e ti aiuteranno nel momento del bisogno. Dentro di te c’è lo spirito di tua nonna, che era una potente maga, e sono sicura che riuscirai nello scopo che ti sei prefissata.

“Dai, Yinger!” prese la parola Pegaso “è ora che ti avvii per la tua missione!”

Così salì in groppa a Pegaso e il maestoso animale cominciò a volare.

Per Yinger fu bellissimo. Poteva sfiorare il cielo con un dito e poi anche le nuvole. Per un istante dimenticò tutti i suoi dispiaceri.

***

Nel pomeriggio la venne a trovare, come sempre, Aless e si misero subito in viaggio.

Avevano attraversato già la foresta di Muravej e la città di Halifax e si accamparono nella laguna di Orag dove furono attaccati dalla sorellastra Tinie. Il duello vide quasi vincitrice Tinie, con la sua magia nera. Infatti, la sorellastra era riuscita a ferire Yinger.

Il fuoco crepitava illuminando debolmente la caverna, i loro visi. Aless aveva portato subito al riparo Yinger. La maga era stata ferita da una freccia durante il combattimento con la sorellastra, Tinie. Ed ora Aless stava cercando di guarire Yinger con la sua magia. La ragazza aveva la febbre alta, mentre il mago preparava la pozione per curarla. Del resto avevano ben poco tempo per riprendere il loro viaggio verso l’antica città di Akyab. Così si avvicinò molto lentamente a Yinger, che giaceva a terra coperta dal suo mantello. La ferita era piena di sangue e doveva essere al più presto curata.

Le scostò i bei capelli neri, e cercò di slacciarle il corpetto, ma si fermò ad un tratto perché la maga aveva spalancato gli occhi e gli aveva bloccato il braccio.

“Aless, che cosa stai facendo?” gli domandò Yinger con voce rauca: le faceva tanto male la spalla.

“Cerco di estrarre la freccia perché altrimenti non posso curarti con la mia pozione.”

E senza che lei potesse ulteriormente ribattere, con decisione, tolse la freccia.

Yinger urlò per il dolore e la caverna risuonò tutta. Per alcuni istanti, che le parvero interminabili, vide nero.

Dopo perse i sensi.

Aless le pose l’impacco sulla ferita, e per tutta la notte si prese cura di lei.

Ora che dormiva placidamente la guardava con tenera insistenza. Si avvicinò al suo viso e la baciò dolcemente.

Non era la prima volta che assaggiava il suo sapore. Già una volta aveva tentato di baciarla, quando non erano altro che ragazzini.

Ma Yinger l’aveva rifiutato con forza e questo fatto gli dilaniava l’anima e il cuore. Continuamente. Lui l’amava!

Rivide quando erano piccoli. Yinger più alta di lui, i suoi boccoli neri, e gli occhi verdi della ragazza l’avevano catturato fin dal loro primo incontro da bambini: due fessure di un’anima che aveva amato. E il suo dolce profumo alla vaniglia… buonissimo… era ogni volta con lui, ma quando la vide diventare ogni giorno sempre più donna era stata allora che il desiderio era cresciuto dentro di lui.

Nel frattempo Yinger si risvegliava lentamente. Le ci vollero alcuni minuti prima di comprendere che era a terra, in una grotta, tra le braccia di Aless. Lo fissò per alcuni istanti, poi si pose a sedere. Aveva le lacrime agli occhi.

“Perché sento bruciare la spalla?” domandò intontita dal dolore.

“Tinie ti ha colpita. Mi spiace!” disse il ragazzo mettendosi subito in piedi, come colto in flagrante.

“Ed io cosa ci facevo tra le tue braccia?” chiese Yinger indispettita.

“Sei svenuta per il dolore. Mi spiace!” rispose il ragazzo afflitto.

“Per te è sempre un’occasione per toccarmi. Non è vero?” incalzò arrabbiata.

“Non è come pensi,” ammise Aless imbarazzato. “E’ capitato, tutto qui!”

Yinger si alzò per guardarlo in faccia, dritto negli occhi.

“Vedi di non azzardarti più!” lo rimproverò.

Sul viso di Aless affiorò un velo di tristezza, un’ombra fugace. Si rabbuiò, infatti. Conosceva il caratterino ribelle di Yinger ed era per questo che l’adorava. Fuori iniziò a piovere, le prime gocce caddero, bagnando l’ingresso della grotta. Si udiva solo il crepitare del legno nel falò. Un legnetto, infatti, si sfaldò e divenne cenere tra la cenere.

“Altrimenti cosa mi farai?” proruppe in tono di sfida Aless, afferrandole le spalle.

Finalmente aveva trovato il coraggio. Il cuore gli batteva forte. Le tempie gli pulsavano. Dirle tutta la verità, dirle tutta la verità, urlò una voce dentro di lui.

“Io ti amo Yinger!” e l’abbracciò senza esitazione.

Lei si ritrovò tra le sue braccia, ma non ricambiò il suo abbraccio. Una lacrima le scese lenta sulla guancia e si nascose sotto il mento.

“Non l’hai capito? Non posso vivere senza di te! Senza la tua presenza accanto alla mia! Perché dovrebbe sorgere il sole in cielo, o esserci la luna se tu non ci sei? Cosa contano per me le nuvole che oscurano una bella mattina primaverile di sole se tu non sei con me? Nulla è degno di essere vissuto, nemmeno la mia vita, se tu non sei al mio fianco!”

Lei cercò di svincolarsi dalla stretta e protestò:”Bè… non mi interessa. Non ti amo Aless, credo che anche tu dovresti saperlo!”

Riuscì a staccarsi dall’abbraccio.

“Penso che sia meglio che le nostre strade si dividano, allora.” Sentenziò incrociando le braccia al petto. “Io proseguirò la mia verso Akyab, e tu te ne andrai per la tua. Non mi serve il tuo aiuto. Hai capito?”

Lui taceva.

“Và via! Ora! Subito!” e gli indicò l’entrata della grotta.

Aless posò il suo sguardo con tenerezza su di lei, poi disse, dirigendosi verso l’entrata.

“Me ne andrò. Ma ricorda: qualunque cosa tu avrai bisogno, io ci sarò! Non ti abbandonerò! Mai!”

Uscì e la pioggia gli bagnò i rossi capelli, il vestito. Yinger lo vide scomparire dalla sua vista. Ormai la pioggia cadeva fittissima e col buio era difficile distinguere le ombre dalla foresta.

Ormai erano diversi mesi che viaggiavano lei insieme a Pegaso. Una sera sognò, avendo come sempre bevuto l’infuso di bacche di Aless.

Vedeva una collina fiorita. C’era la stessa fanciulla dell’altra volta. Saltellava sul prato. La vedeva solo di spalle.

“Chi sei?” osò chiederle.

Quella si volse e lei vide i suoi occhi azzurri chiarissimi fissarla a lungo. Poi, come nel sogno precedente, si lanciò verso di lei per afferrarla con le sue mani- artiglio. E lei si ritrovò prigioniera dei rami di un albero.

“Bentornata!” la salutò calorosamente Quesq.

L’elfo suonava il suo flauto con dolcezza.

Lei riuscì a liberarsi dai rami e ricadde un’altra volta a terra. Questa volta però un morbido tappeto di foglie gialle attutì la sua caduta a terra.

“Da dove vieni, Quesq?” gli domandò con curiosità sedendosi sul morbido letto di foglie secche.

“Sono di Aveyon, la città contesa dal regno Luna di vetro e Corallo d’Avorio.”

Aveyon, la Grande città elfica dalla porta magica!”

L’elfo annuì e riprese a suonare. Il suono del flauto riempiva l’aria di dolcezza. Petali di rosa si levarono leggiadramente nell’aria. Turbinarono attorno a loro per poi scomparire all’orizzonte.

Smise di suonare e disse, sempre con dolce tristezza: “Ma io sono rimasto solo. La città è stata distrutta ai tempi di re Erothu ed io sono rimasto l’ultimo della mia stirpe.”

Una lacrima gli scivolò lenta sulla guancia. Brillò alla tenue luce del sole, come un diamante.

“Se non ci fossero i tuoi sogni, cara Yinger, sarei già morto.”

“Chi è la ragazza che vedo prima di incontrarti?”

“Lei è… Alatariel. Non è un’elfa. Ti permette di incontrarmi. Diciamo che è una porta di accesso.”

Yinger posò la mano sull’albero. “E’ lei?” sussurrò.

L’elfo annuì. “Sì… è una ninfa degli alberi dei sogni. Se non ci fosse non potremmo vederci, né sentirci,” continuò triste Quesq.

Yinger abbracciò le gambe e rimase pensierosa in silenzio.

Poi disse: “Perché sei così solo, solo come me?”

L’elfo alzò le spalle come dire “non so” ed aggiunse: “E tu perché ti senti sola?”

“Io non mi sento sola. Sono sola. Mia nonna era tutta la mia famiglia. Era tutto per me. Era come una madre. Adesso non ho più nessuno, al mio fianco. Sono sola.”

“Non lasciare che la tristezza prenda il sopravvento!”

Quesq smise di suonare un’altra volta: “E’ giunto il momento, Yinger devi ritornare nella realtà. Continua a studiare, imparerai tante cose dai libri. Presto sarai da Akyab ed è ora che tu liberi la città dall’assedio di Zhoseng.”

Già, infatti, si vedeva in lontananza la grande città di Akyab. Con i suoi mattoni rossi, la città deserta brillava alla luce del sole. Zhoseng, il malvagio Incantatore, si apprestava ormai a conquistarla con tutto il suo esercito di Troll. Indossava un’armatura fatta d’argento con incastonate delle pietre preziose, non portava l’elmo ma i suoi lunghi capelli biondi erano legati a coda, cavalcava un grande drago nero. Yinger e Pegaso erano pronti per la battaglia finale.

“Che tu possa essere maledetto Zhoseng.” Digrignò i denti la ragazza.

“Non sei una delle Streghe Nere, non puoi farmi nulla con le tue inutili parole,” sibilò il mago guardandola a lungo con i suoi occhi azzurri freddi come ghiaccio.

“Ma con la mia magia sì…” gridò Yinger in groppa a Pegaso. “Riuscirò a sconfiggerti, fosse l’ultima cosa che faccio,” ed alzò un braccio con il pugno chiuso in segno di guerra.

Intanto Aless, che li aveva sempre seguiti di nascosto, era giunto sul luogo del combattimento e si nascondeva fra i cespugli. Era preoccupato per la sua amata, stringeva, di fatti, il suo bastone, pronto ad intervenire se ce ne fosse stato bisogno.

Zhoseng sferrò il primo attacco con enorme ferocia, disarcionando subito Yinger.

Caduta a terra si rialzò a fatica. Poi creò con le mani una sfera infuocata assorbendo parte dell’energia dai quattro elementi, che li invocò:

“Aquam, Ignem, Terram, Aerem… venite a me!”

Anche Pegaso l’aiutò donandole l’ultima gemma del suo unicorno e scomparendo così del tutto.

La sfera diventò sempre più grande e investì, con immensa forza, Zhoseng, il quale riuscì però a fuggire sacrificando il suo dragone.
Ora erano l’uno di fronte all’altro, senza destrieri:

“Non ti servirà a nulla Yinger opporti alla mia magia e l’Antico Tomo sarà finalmente mio e conquisterò la città di Akyab. Il GranRegno sarà governato da me soltanto!” le disse l’Incantatore. “Sono superiore a te!” e rise maleficamente.

“Staremo a vedere!” gli rispose la ragazza, ma in cuor suo sapeva che per sconfiggerlo doveva aprire l’Antico Tomo ed evocare la magia dell’annullamento.

Fu allora che vide Aless tra i cespugli.

Guardandolo dritto negli occhi e facendogli cenno con la testa, fece apparire l’Antico Tomo e glielo lanciò.

“Apri il libro” gli gridò

“No,Yinger!” gli rispose Aless “Lo sai che non sei ancora pronta! Morirai: non sei abbastanza forte e il libro assorbirà tutta la tua energia vitale!”

“Non ti preoccupare per me! Almeno riuscirò a fermare il crudele Zhoseng e distruggerò i suoi incantesimi una volta per tutte!” continuò la ragazza

“Non farlo,Yinger!” urlò Aless con quanto fiato aveva in gola.

Ma ormai era troppo tardi, Yinger era corsa verso lui, aveva aperto il libro ed aveva evocato la magia dell’annullamento.
L’incantesimo consisteva nell’annullare tutte le proprie forze magiche e ripiegarle al proprio volere.

Zhoseng rimase sbalordito dalla tenacia della ragazza.

Così Yinger sferrò il suo attacco e lui, sopraffatto, scomparve subito bruciando tra le fiamme.

Yinger cadde a terra priva di vita, i suoi lunghi capelli si erano sciolti e giacevano sparsi per terra.

Aless le corse incontro, la strinse vigorosamente tra le sue braccia.

“Yinger cha hai fatto?” disse singhiozzando. “Come, come hai potuto lasciarmi da solo? Non posso viver senza di te! No, non è giusto era già crudele che non ti potevo avere ma almeno eri viva e sempre vicina a me e ti potevo amare !”

Alzatosi in piedi, cominciò a prendere a pugni il tronco di un albero che era lì vicino.

Il sangue ormai gli colava dalla mani piene di lividi.

“Amor mio!” pianse calde lacrime.

Poi si avvicinò al corpo senza vita di Yinger, le prese il medaglione a forma di stella ed invocò gli spiriti dei morti.

“Dono la mia vita per darla a te mio unico amore, così saremo un’ unica cosa!”

La prese tra le braccia e la baciò e ribaciò anche se piano piano andava scomparendo come gocce di rugiada.

Yinger si sollevò da terra: era tutta indolenzita. Le faceva male ovunque: le braccia, le gambe, la schiena: non aveva mai provato un simile dolore fino ad allora. Ma cosa era accaduto? Ricordava ben poco. Stava duellando contro il malvagio Zhoseng, aveva aperto l’Antico Tomo e poi buio. Era sprofondata nel buio più completo. Si guardò attorno e vide che c’era terra bruciata. Si accorse di essere completamente sola. Poi un flash: rivide gli occhi del ragazzo, di Aless. Allora, si ricordò di ogni cosa.

“Aless dove sei?” iniziò ad urlare, ma nessuno le rispondeva.

Proprio in quel momento, mentre iniziava a piangere, l’amuleto si staccò dal suo collo e fluttuò nell’aria densa di fumo. Brillò e da esso uscì come se fosse un velo dorato che luccicava in alcuni punti. Il velo prese forma di sua nonna, il suo spirito ora era così al suo cospetto.

“Yinger, cara nipote, và il tuo destino si è ormai compiuto. Raggiungi la città segreta, la città di Akyab, e riporta l’Antico Tomo per aprire finalmente le Sacre Porte della Biblioteca Segreta.”

“Nonna, Zhoseng è stato sconfitto. Che senso ha andare ad Akyab?”

“Ma tu sei l’Eletta, la Custode Sacra del libro. Come già ti ha detto Quesq, dovrai fare la tua scelta…”

“Dov’è Pegaso, il mio fedele amico?” chiese Yinger incurante delle parole di nonna Aduial.

“Pegaso ormai è libero: è diventato il principe del regno. L’incantesimo è stato sciolto.” Rispose con voce calma la nonna.

“E Aless?”

“Aless è sempre con te, piccola cara! Non ci ha pensato ed ha seguito il suo cuore, donando la sua vita per te.”

“No, no, non ci credo! Non può essere!” si rannicchiò abbracciandosi le gambe ancora indolenzite.

“Sai nonna? Per un attimo mi è sembrato di vederti, di vedere mia madre attraverso di te. Eravate due figure trasfigurate e sovrapposte. Allora, ho compreso che ero vicina per raggiungervi. Poi, non so cosa è accaduto. E’ come se una mano forte mi avesse afferrato per i capelli e riportato in superficie. Quando mi sono risvegliata ho provato subito una gran pace e avevo il viso umido di gocce di rugiada.”

“E’ sempre così quando scompare un mago: scompare in mille gocce di rugiada. E Aless era un grande mago. Il suo immenso amore per te era sincero e devoto. Adesso và ad Akyab e fa la tua scelta. Sappi che se diventerai una Sacerdotessa non potrai amare nessuno, però potrai aiutare gli altri con i tuoi immensi doni. Se invece sarai una Strega nera, potrai avere tutti gli uomini ai tuoi piedi, ma non potrai aiutare nessuno con la tua magia, anzi potrai solo fare del male e non essere mai punita per questo, perché questa è la natura delle Tredici Streghe nere.”

Lo spirito della nonna si dissolse delicatamente. Era rimasta da sola, di nuovo. Prese l’amuleto che era caduto a terra e si diresse solerte verso la città. Ormai aveva fatto la sua scelta. Giunta in città e trovata la Biblioteca, c’era ad aspettarla nella grande sala un vecchio tutto curvo, intento a leggere su un grande tomo.

“Ti stavo aspettando,” disse l’anziano con la sua voce gracchiante.

La fissò per alcuni istanti ed Yinger che si era quasi trascinata fin lì non provò nulla, nemmeno fastidio.

“Ho fatto la mia scelta,” disse la ragazza senza preamboli.

“Ebbene?” domandò il vecchio, continuando a fissarla con i suoi piccoli occhi.

“Aless mi ha insegnato che amare gli altri fino a dare la propria vita è la cosa più importante. Per questo ho deciso di rinunciare al fascino della vita delle Tredici Streghe Nere per diventare Sacerdotessa al Tempio di Ayon.”

“Sai cosa ti aspetta? Non potrai mai congiungerti ad alcuno, né potrai innamorarti. Aiuterai i fedeli che accorrono al Tempio e riceverai i loro doni materiali, ma sarà solo una ricchezza fisica non spirituale. E’ il terribile castigo che fu lanciato alle Sacerdotesse anni or sono. In pratica non avrai nulla, se non la capacità di guarire e di aiutare i tuoi fedeli. Una vita di rinunce.”

Yinger annuì con le lacrime agli occhi.

“So che mi aspetta una vita dura, ma l’accetto.”

Il vecchio bibliotecario esclamò: “Un bell’atto di coraggio!”

Si alzò dalla sedia fino a dove era stato seduto e lentamente si mosse verso la ragazza: “Và ora! Apri le Sacre porte della Biblioteca Segreta ti condurranno verso la tua scelta.

Yinger posò il tomo sullo scaffale dove gli indicava il vecchio e gli scaffali si aprirono rivelando una porta segreta. C’erano delle scale strette e buie. Iniziò a scenderle da sola. Una luce l’avvolse.

“Da oggi in poi sarai sacerdotessa del Tempio di Ayon, ti sarà donato ogni potere, ma non servirà per guarirti. Tra questi poteri quello del Tempo, potrai viaggiare e se vuoi fermarlo, ma quando lo fermerai invecchierai un pochino.”

La voce scomparve ed Yinger si ritrovò rivestita da una lunga veste smeraldo.

Da quel giorno, rimase quasi fedele al suo ruolo di sacerdotessa, anche se molti che visitavano il Tempio, rimanevano esterrefatti nel vederla sempre più vecchia.

Infatti Yinger, di tanto in tanto, vagava nel Tempo per poter rivedere il suo amato Aless.

LA CASA DEI MISTERI di Samuela Zella (Corso bambini – Primo Livello)

LA CASA DEI MISTERI di Samuela Zella

Corso bambini – Primo Livello

N°534

Faceva freddo. Il mio pickup arrugginito camminava cigolando fra le siepi di una buia strada. Guidavo,pensando a quando sarei tornata a casa;casa dolce casa!Poi,il rombo della macchina si arrestò di colpo:avevo finito la benzina!Mi guardai intorno:mancavano circa 20 km da casa. Pensai di chiamare mia sorella e di farmi venire a prendere:presi il cellulare,mantenendo una finta calma e provai a chiamarla. La fortuna volle che non ci fosse campo. Mi rimaneva soltanto di citofonare e chiedere di usare il telefono. Alla mia destra notai una casa antica,a tre piani,con una luce rossa accesa e l’ombra di qualcuno. All’esterno c’era un albero di carrube. L’edera aveva coperto ogni traccia dell’abitazione,diventata un polmone verde. Il portone era di un legno rossiccio alla cui sommità c’era un leone,quasi avesse il compito di proteggere la palazzina. La figura che avevo visto prima mi diede la certezza di trovare qualcuno in casa e mi spinse a suonare il campanello. Mi venne ad aprire una ragazza bellissima,con una voce ammaliante,che mi chiese cosa volessi. Aveva i capelli neri e lisci,e gli occhi grandi e celesti. Le sue labbra,piccole ma carnose,erano di un rosso fuoco. Mi disse di accomodarmi. Entrai,imbarazzata,nell’atrio,e poi,ella mi condusse nel salone,una stanza dalle pareti di un giallo girasole,un caminetto che ardeva,un tavolo di ottone su cui c’era un vaso pieno di fiori. Era così accogliente! Mi voltai per chiederle dove fosse il telefono,ma la ragazza era scomparsa. Allora mi riguardai intorno:i fiori che prima erano di un fucsia acceso stavano appassendo,lentamente. La bellezza di quel salotto venne rovinata da questo macabro particolare che mi mise una certa inquietudine. Decisi che era il momento di andarmene,e mi avviai con decisione verso la porta. La spalancai e uscii,a testa bassa. Quando rialzai lo sguardo mi resi conto di non essere per strada. La stanza era di un rosa confetto,sovrastata da un grande carillon. I cavalli si muovevano,lentamente,dall’alto verso il basso. Su uno di essi era seduto un pagliaccio,tutto bianco con la bocca rossa. Mi invitò a salire sulla giostra. Aveva i capelli ricci e arancioni e il naso rosso fuoco. Sorrideva e aveva l’aria di divertirsi. Per un attimo mi sentii di nuovo bambina e salii su uno di quei cavallucci senza pensarci due volte. La canzone di sottofondo era romantica,dolce allegra. Guardavo il pagliaccio e ci ridevamo,quando,nel suo sorriso,notai una smorfia. Una smorfia che mi faceva paura.

Le note della canzone cambiarono. L’angoscia cresceva in me. Quando sentii piovere. Mi stavo bagnando. Per un attimo chiusi gli occhi e cercai di dimenticare tutto. Mi convinsi che fosse un sogno. Che tutto sarebbe finito,da un momento all’altro. Riaprii gli occhi ed ero ancora lì,tutta bagnata. Bagnata di rosso. Colava lentamente sul mio corpo,lentamente,quasi a farlo apposta. Alzai la testa:nero. E mi accorsi,lentamente che scendevo sempre più,nel baratro di quell’inferno. Il mio cavalluccio andava giù,e il pagliaccio mi salutava con il sorriso che prima mi aveva reso felice. Aggrappata al mio fidato cavalluccio,andavo sempre più giù. Tutto era buio. Arrivammo a terra. Appoggiai i piedi. Mi sentivo circondata. Voci mi sussurravano. Mi dicevano:-non ti fidare,Bella. Vieni con noi. Lasciati andare … – Poi un grido investì la stanza. Era un grido femminile. Cominciai a correre,in cerca di qualcuno o di qualcosa. Fino a quando mi ritrovai a casa mia:i miei genitori erano seduti intorno al tavolo. Il divano era al suo posto,la cucina anche. E il vaso di fiori si trovava anch’esso sul centrino ricamato da mia madre al centro del tavolo. Mi sentii sollevata,ma forse per la sorpresa,rimasi sull’uscio. Sorridevano. Poi,il pavimento cominciò ad abbassarsi soltanto per la porzione in cui erano seduti i miei genitori,che mi salutavano sorridenti. Una lacrima solcò il viso di mia madre,mentre lentamente scompariva davanti ai miei occhi. Ed in quel momento la soluzione mi sembrava ovvia. Tutti i conti tornavano e tutto mi apparve chiaro . Ogni cosa era al posto giusto. E mi parve ridicolo,in quel momento di disperazione,che anche quel fiore nel vaso stava lentamente appassendo. E chissà,forse,anche io stavo appassendo. La mia anima era lacerata da quel lugubre incubo. Le pareti diventarono lentamente nere. Tutto diventò nero. Ma non avevo più paura. Ormai non poteva spaventarmi più nulla. Ero troppo stanca. Camminai a passo veloce e aprii il cassetto della cucina. La vidi brillare e risplendere. La presi e l’ analizzai lentamente.Com’era bella. Se fossi stata al suo posto …  sarei stata solo un mezzo,uno strumento. Parte della recita. Avrei potuto guardare con oggettività la faccenda. Avrei avuto il compito di porre fine a quell’incubo. Avrei avuto la parte della buona. Avrei spezzato le catene di chi era costretto a rimanere lì,in quella casa maledetta. Ma ormai era troppo tardi. Con una spudorata facilità premetti il grilletto.

N°535

Faceva freddo. La mia nuova e brillante Mercedes spiccava fra le siepi di quella strada. Guidavo,pensando a quando sarei tornata a casa,dove mi aspettavano mia moglie ed i miei due figli. Poi,la macchina si fermò,silenziosamente:avevo forato una ruota!Mi guardai intorno:mancavano 400 km per arrivare a destinazione. Pensai di chiamare il soccorso stradale e di farmi venire a prendere:presi il mio smartphone,mantenendo una finta calma e provai a chiamare. La fortuna volle che non ci fosse campo. Mi rimaneva soltanto di citofonare e chiedere di usare il telefono.

Vacanze sulla neve di Paola Mutti (Primo Livello – Ragazzi)

Vacanze sulla neve di Paola Mutti. Primo Livello – Ragazzi

Un autobus un po’ ammaccato spuntò da dietro l’angolo e si fermò davanti ad una semplice pensilina blu per far scendere cinque persone, poi ripartì scoppiettando.

-Ma è meraviglioso! Che spettacolo! Evviva le piste da sci, evviva! Chissà qual è la casa del nonno di David, sono proprio curiosa – disse Jane, guardando divertita l’amico.

– Secondo me è quella laggiù! – rispose Becky indicando con il dito un grande hotel di lusso, poco più in là.

– Allora il nonno di David dev’essere ricco sfondato! – esclamarono in coro le tre ragazze.

– Ah, ma quale state guardando? – disse l’amico prendendo il braccio di Becky e spostandoglielo verso la parte opposta – è quella là -. Quello che stava indicando non era altro che un puntino scuro in lontananza.

– Forza, muoviamoci, se arriviamo in ritardo mio nonno ci sgriderà -. I ragazzi s’incamminarono nella neve fresca e intatta, splendente sotto la luce accecante del sole. Faceva freddo, ma niente poteva far distogliere gli sguardi dei ragazzi da quello spettacolo.

La tentazione di correre, giocare e tirare palle di neve divenne irresistibile. Così, gli amici si fermarono e, tra una palla e l’altra, non si accorsero del tempo che passava. Il cielo cominciò a scurirsi lentamente e una fitta nebbiolina iniziava ad invadere l’ambiente.

– Oh no, è tardissimo! Se non arriviamo presto, mio nonno ci sgriderà. – David e suoi amici ripartirono sulla neve; l’aria si faceva più pesante e quando arrivarono c’era già buio.

La casa era di legno, bassa e molto larga, assomigliava in parte ad una baita ed in parte ad un tempio giapponese. All’improvviso, mentre si avvicinavano, una luce venne accesa al piano terra e la porta si spalancò: – Vi avevo ordinato di arrivare prima che facesse buio, non è così? Pentitevi! –. Quello che uscì era il nonno di David, ovviamente, e la sua faccia non prometteva niente di buono. Le numerose rughe che gli segnavano il volto gli conferivano un’aria autorevole e severa. Sotto le spesse lenti degli occhiali rotondi aveva un paio di occhi azzurri talmente chiari e penetranti da trafiggere chiunque li guardasse. Era un po’ impacciato nel camminare ed era, chiaramente, molto arrabbiato e spazientito.

– Scusaci, nonno. Abbiamo perso la cognizione del tempo, sai com’è… – rispose David, in cerca di una buona scusa, ma evidentemente non era facile acquietare il nonno.

– Questo perché non avete disciplina! – gli rispose lui ancora una volta. –Come punizione, ora pulirete il balcone! –

“Che cosa?! Non è giusto!” pensarono tutti contemporaneamente.

Il balcone, anch’esso di legno, correva lungo tutto il perimetro della casa.

– Questo balcone è immenso! Ci vorrà una vita per pulirlo! – gemette Becky a bassa voce. Nessuno aveva visto andar via il nonno e tutti saltarono dalla paura quando la sua voce ruppe il silenzio, dietro di loro. – SBRIGATEVI! Pulitelo pezzo per pezzo. Niente è impossibile se vi date da fare tutti insieme.- Diede loro un secchio d’acqua, delle scope e qualche straccio, poi sparì in casa, a bere una tazza di tè caldo.

Dopo un attimo di esitazione, gli amici si misero al lavoro senza commentare.

Il tempo sembrava rallentare e i ragazzi si rianimarono dallo stato comatoso in cui erano caduti solo quando David parlò: – Cosa ne dite di fare una gara intorno al balcone mentre puliamo? Solo con gli stracci; il primo che fa due giri completi vince! Prontiii… Via! – E così dicendo, riprese lo strofinaccio che aveva lasciato poco prima per riposarsi, lo poggiò a terra e, poggiate le mani sopra di esso, partì in avanti; i suoi amici non tardarono a seguirlo. Jane, Becky e Christopher si fermarono al primo giro, già senza fiato, e aspettarono gli altri due al traguardo prefissato. Dopo poco spuntarono Samantha e David, che sfrecciavano a tutta velocità. A vincere fu la prima, perché l’amico era scivolato poco prima di arrivare al traguardo.

Ho vintoo!- urlò lei, tutta rossa in faccia, facendo una linguaccia all’amico.

Non dovevate divertirvi! Pentitevi!! – Inutile dire che i presenti trasalirono e si ammutolirono al suono di quella voce.

– Non l’avete neanche pulito bene, il balcone! Ora, come seconda  punizione, preparerete voi la cena. E badate bene: vi terrò d’occhio! -. Jane stava per ribattere ma un’occhiata di Christopher bastò a zittirla. Quella seconda punizione fu la peggiore: nessuno, a parte Samantha, sapeva cucinare. Così lei si ritrovò a spostarsi da una parte all’altra a dare istruzioni, ma non fu affatto semplice. Dopo quasi due ore riuscirono a portare sulla tavola sei piatti di riso troppo cotto, una vaschetta d’insalata, una ciotola di pomodori (quasi tutti interi) e delle bruschette bruciacchiate con salse che non avevano ne un buon colore ne un buon odore. Anche se il cibo non era squisito, i ragazzi divorarono tutto perché erano molto affamati. Nessuno parlò e, finita la cena, il nonno si limitò ad indicare loro le stanze che avrebbero occupato mentre alloggiavano in quella casa.

Durante la vacanza gli amici si divertirono molto sulla neve e ogni sera badavano bene a tornare prima che facesse buio. Anche se le cene erano sempre a base di zuppe dagli odori intensi (a volte sembravano quasi malsani), nessuno si azzardò ad aprire la bocca se non per mangiare. Il vecchio, però, non aveva affatto dimenticato il risultato della pulitura del balcone e tutti i giorni assegnava loro dei lavoretti di pulizia da svolgere. Così, presto gli amici impararono ad organizzarsi, dividendosi le mansioni e riuscendo ad accontentarlo.

L’ultima sera arrivò in fretta e così anche la fine della vacanza. Mentre i nostri ragazzi entravano in cucina, i sorrisi che non avevano mai lasciato i loro volti per tutta la giornata, si attenuarono di colpo. In quel periodo avevano infatti imparato che, in presenza del nonno, si doveva essere educati, stare in silenzio e sorridere poco. Ma quella sera le cinque figure si bloccarono sulla porta, incerte sul da farsi e convinte di avere qualche strana allucinazione. Davanti a loro si ergeva una tavola già apparecchiata e su ogni piatto giaceva un trancio di pizza contornato da patatine fritte. Ad aspettarli, inoltre, c’erano salse di tutti i tipi, verdure, salumi, pane e due bottiglie di coca-cola.

– Entrate! Cosa ci fate lì impalati? Muovetevi. – Loro, non dimentichi delle buone maniere, entrarono e si sedettero. Il nonno non disse altro e, come sempre, nessuno si azzardò a chiedere alcunché. Mai fare domande: questa era un’altra delle regole per vivere in pace, con lui.

Tutti mangiarono con gusto e si stupirono ulteriormente quando, alla fine, venne tirata fuori persino una torta.

– Vi ho tenuto d’occhio in questi giorni. Avete imparato la lezione e insieme siete riusciti a fare tutto ciò che vi ho chiesto. Ora mi è sembrato che meritaste una piccola ricompensa.

Poi, vedendo che i ragazzi erano sul punto di esultare, tornò severo e aggiunse – Ma non dimenticatevi di ciò che avete imparato, o avrò faticato tanto per niente!-

Mentre suo nipote, Samantha, Jane, Becky e Christopher uscivano di casa per l’ultima volta, diretti alla fermata dell’autobus, il nonno tornò a sedersi sulla poltrona, con una tazza di tè in mano e le labbra distese in un sorriso.

IL DRAGO DI SANGUE di Quirino Pilosi. I racconti dei corsi on line. Primo Livello Adulti

IL DRAGO DI SANGUE  di Quirino Pilosi, Primo Livello Adulti

Una solitaria e fredda goccia si staccò dal soffitto, cadendo sulla sua nuca. Improvvisamente Vander si destò dal suo torpore.  Cercò di asciugarsi il collo, ma si rese conto che era legato. Era in piedi, con le braccia e le gambe divaricate. I polsi e le caviglie erano intrappolati da manette di ferro legate ad un grande anello fissato alla parete di pietra dietro di lui. I piedi erano attaccati al muro, mentre le catene che tenevano i polsi erano più lunghe, cosicché il suo corpo potesse sporgere in avanti. Si sentiva la testa pesante come se avesse preso la più grande sbornia della sua vita. Deglutì a fatica: aveva la gola asciutta.

Non capiva com’era finito lì. Ciò che ricordava era un branco di lupi neri come la notte che lo circondavano nel fitto del bosco. Il cupo ringhio degli animali pronti all’attacco, poi un improvviso dolore alla nuca, e una miriade di scintille luccicanti lampeggiare dappertutto. Riuscì a sentire il magnifico odore dell’erba prima di accasciarsi al suolo privo di sensi.

Di colpo una candela s’illuminò dinanzi a lui. La debole fiammella che rischiarava a malapena le tenebre della cella angusta, feriva i suoi occhi.

Un bambino sedeva davanti a lui, muovendo avanti e indietro le gambe che non arrivavano al pavimento. Aveva le orecchie a punta, i capelli argentei e ricci e gli occhi obliqui. Di fianco si muovevano silenziose delle sagome scure.

Vander capì che erano gli stessi lupi neri che lo avevano attaccato nel bosco.

“Finalmente ti sei svegliato”, disse il bambino con un ghigno sul volto.

Vander diede uno strattone alle catene che lo tenevano legato:

“Liberami!”.

“Se lo facessi mi attaccheresti, e i miei amici sarebbero costretti ad ucciderti”, rispose il bambino poggiando la mano sul dorso di un lupo che stava al suo fianco.

“Chi ti dice che sarò io a morire?”, replicò Vander osservando i lupi che gli giravano attorno.

“Buono Nefristo”, esclamò il bambino accarezzando il lupo, poi guardò dritto negli occhi il prigioniero: “Non sono un nemico. Ti donerò l’arma che ti renderà un eroe…”, disse, giocherellando con il piccolo amuleto che teneva in mano.

Vander notò che gli occhi del bambino seduto di fronte cambiarono intensità. La sensazione che ebbe lo turbò: quello che aveva di fronte non era un bimbo ma un piccolo vecchio dai gesti infantili.

“Come sono finito qui?”, domandò mantenendo un tono calmo. Ebbe la forza di continuare a fissare quell’essere che se ne stava davanti a lui .

“Sbagli domanda. Ciò che devi chiederti è perché sei finito qui! T’interessa saperlo?”, la voce della creatura era persuasiva.

“Tu che dici?”, Vander aveva sempre di più la sensazione di non parlare con un bambino.

“Prima le presentazioni. Il mio nome è Salfirel. Appartengo ad una razza simile alla tua. Solo che uso le arti magiche. Conosco la tua rabbia, perché è la stessa che provo anch’io. I nostri cugini elfi ci hanno esiliato, come se fossimo il male. Ma sappiamo che non è così. Temevano la nostra conoscenza della magia, capace di scatenare forze d’inimmaginabile potenza. Hanno convenuto che fosse più giusto per il mondo sterminarci. Per la colpa di uno solo di noi, abbiamo pagato tutti. Non mi sembra giusto”

Vander si trovava completamente d’accordo con Salfirel. Anche lui non aveva mai accettato il fatto di essere costretto a rinnegarsi, per una colpa che aveva commesso un suo antenato ancor prima della sua nascita. Se uno della sua razza si era convertito al lato oscuro, non significava che erano tutti malvagi.

“Quanti ne rimangono ancora?”, chiese incuriosito.

“Siamo abbastanza per rivendicare i nostri diritti”, rispose Salfirel.

“Io non voglio rivendicare niente”, aggiunse Vander.

Salfirel lo guardò perplesso: “Preferisci continuare a nasconderti per sempre? A vivere come un fuggiasco che ha commesso la più terribile delle colpe, sapendo che non è così?”.

“Non ho detto questo. Ma non voglio nemmeno combattere contro i miei simili”, Vander sentiva aumentare la tensione.

Salfirel corrugò la fronte: “Chi ha mai parlato di combattere contro gli elfi?”.

Vander sentiva la testa scoppiare come se una miriade di martelli stessero picchiando contro le sue tempie. Non sapeva fino a quando avrebbe sopportato quella conversazione senza senso. O si sbrigava a dirgli quello che voleva, o se ne poteva anche andare al diavolo.

Salfirel dovette intuire i suoi pensieri: “Ti sto offrendo la possibilità di redimere te, e tutti noi da un’ingiusta condanna”.

Vander lo guardò con un riso beffardo: “E in che modo vorresti riuscirci?”

Salfirel con un piccolo salto scese dalla sedia, e si diresse verso Vander mostrando l’amuleto che roteava intorno al suo dito: “Con questo”, disse senza mostrare alcun dubbio.

L’oggetto, grande quanto il palmo della piccola mano di Salfirel, aveva la forma di una spirale. Era completamente d’oro, macchiato qua e là da alcune chiazze scure che si muovevano lungo i piccoli anelli in balia di una forza invisibile, come sottili nuvole grigie sospinte dal vento in un cielo d’orato. I cerchi che componevano la piccola spirale, erano in realtà tante minuscole lettere appartenenti ad una lingua arcana, saldate tra loro magistralmente da sembrare, a prima vista, un unico filo d’oro. Anche la sottile ma resistente catenella alla quale era attaccato l’oggetto, era formata dalle medesime lettere, solo visibilmente più grandi. Salfirel teneva l’oggetto dinanzi a Vander, come a volersi assicurare che lo osservasse con molta attenzione. Vander ne fu inevitabilmente rapito. Sembrava carico di un antico potere.

“E’ un oggetto molto prezioso. Proviene dalle Grotte Ombrose. Imshaark in persona me ne ha fatto dono”, disse Salfirel.

Vander abbandonò a fatica la vista dall’oggetto, per fissare il volto di Salfirel. Un brivido freddo attraversò le sue membra, quando lo osservò così da vicino. Si sforzò di non cedere alla silenziosa persuasione di quell’essere intrappolato nel corpo di un bambino.

“Imshaark! Il Custode delle catene del tempo?”, un’improvvisa e fredda risata vibrò nel petto di Vander. “Nemmeno il più audace tra i guerrieri si è mai addentrato così a fondo nel cuore della terra”.

Salfirel soppesò l’oggetto con un lieve movimento del braccio: “Eppure quest’amuleto dimostra il contrario. E molto presto una catena del tempo verrà spezzata”.

Vander diede ancora uno strattone alle catene, nella speranza che cedessero. L’oggetto sembrava non interessargli più. Fissava gli occhi di Salfirel senza più timore: “Imshaark è una leggenda. Le catene del tempo sono una leggenda”, lo sfidò Vander.

“Ma smettila. Non credi nemmeno tu alle tue parole”, esclamò Salfirel con un ghigno sul volto. “Sai che non sto mentendo”, concluse con un tono tranquillo.

“E va bene. Ammettiamo che tu dica la verità”, disse Vander arrendendosi a quella conversazione, “perché un essere tanto antico e potente, avrebbe dovuto concedere un simile dono?”.

Salfirel abbassò il braccio, l’amuleto stretto nel suo pugno: “Perché ha compreso la grandiosità di quello che stiamo per compiere”, la sua voce era sempre calma e solenne, come se le sue parole fossero una dolce sinfonia in grado di addormentare i sensi. “Molto presto, ogni cosa ti sarà svelata”.

Salfirel mise l’amuleto intorno al collo di Vander, poi si allontanò di un passo. Allungando la mano sull’oggetto iniziò a pronunciare parole incomprensibili. Un attimo dopo Vander sentì un dolore terrificante trafiggergli le carni, come se qualcosa stesse cercando di entrare a forza dentro il suo petto. Nell’aria si sparse l’odore di carne bruciata. Vander si dimenava e urlava come un ossesso per il dolore insopportabile. Ora capiva a cosa servivano le catene.

Quando il dolore finalmente cessò, si sentì esausto. Fece un profondo respiro e guardò in basso verso l’amuleto. Non c’era più. Al suo posto una cicatrice di pelle viva che raffigurava esattamente la spirale dell’amuleto. Capì che si era fuso con il suo corpo.

“Che cosa mi hai fatto?” urlò, o almeno era quello che avrebbe voluto fare. Ma solo un flebile sussurro uscì dalle sue labbra. Non aveva la forza di fare nulla, nemmeno di parlare.

“Scoprilo da solo”, ghignò Salfirel tornando a sedersi sulla sedia. In quel momento sembrò di nuovo un bambino che faceva fatica a salire su una sedia troppo alta.

Vander sentiva un debole formicolio lungo tutto il corpo, come se una nuova energia si stesse diffondendo tra le sue membra, donandogli nuovo vigore.

“Come puoi vedere, ti riprenderai molto presto”, Salfirel accarezzò di nuovo la testa del lupo che gli era a fianco. I suoi occhi fissavano Vander con aria soddisfatta, come di chi ha finalmente visto realizzarsi un sogno. Rimase ad osservarlo per un po’, poi disse: “Il nostro tempo è finito. Ti farò portare dell’acqua calda, e dei vestiti puliti. Quando sarai pronto, trova il generale Naugir. Lui ti darà le risposte che cerchi”.

Salfirel smontò dalla sedia e aprì la porta per permettere ai sei lupi neri di uscire. Il sole che entrò improvvisamente nella sala, ferì gli occhi di Vander. Avrebbe voluto fare molte domande a Salfirel, ma non aveva la forza di parlare. La gola gli ardeva come fiamme incandescenti. “Che cosa c’entra il generale Naugir?” riuscì a stento a dire.

“E’ stato lui a farmi il tuo nome. Ed io, mi sono trovato pienamente d’accordo. Come ti ho detto, sei libero di andarlo a cercare. Non sei un prigioniero”, disse Salfirel con la sua solita calma, prima di uscire. Quando richiuse la porta, le catene si aprirono di scatto, come se la forza misteriosa che le teneva legate si fosse spezzata improvvisamente. Vander cadde sul pavimento, faccia a terra. Cercò di rimettersi in piedi, ma non ci riuscì. Aveva le gambe e braccia atrofizzate. Un momento dopo, la porta si spalancò di nuovo. La luce del sole inondò ancora la stanza; ad entrare furono due soldati. Portarono dei vestiti e una bacinella d’acqua. Cercarono di aiutare Vander a rialzarsi, ma li bloccò: “Ce la faccio da solo” disse. I soldati uscirono, senza aggiungere altro.

Vander si rimise a fatica in piedi; la testa gli girava forte. Si sedette per un momento sulla stessa sedia dove stava Salfirel, in attesa di riprendere completamente le forze. La candela era ancora accesa, dipingendo macabre ombre lungo le mura scarne della stanza. Lentamente la nebbia che avvolgeva la sua mente iniziò a diradarsi, e le domande si affollarono numerose. Dove si trovava? Perché era finito lì? Chi era quell’essere che aveva le sembianze di un bambino? Che cos’era l’oggetto all’interno del suo petto?  Ripercorse con il dito il segno della cicatrice, come se volesse trovare una risposta a ciò che stava accadendo, senza riuscirci. Fu sorpreso di non provare dolore, sebbene avvertisse ancora un debole formicolio.

Approfittò dell’acqua e dei vestiti puliti; dopotutto ne aveva bisogno. Quando fu pronto, uscì dalla stanza. Le due guardie di fianco alla porta, non si mossero. “Dunque è vero, non sono un prigioniero”, pensò Vander. Chiuse gli occhi respirando profondamente; i caldi raggi solari accarezzavano il suo viso, donandogli una piacevole sensazione di calore. Sentiva che le forze stavano tornando rapidamente. Si dimenticò immediatamente delle guardie per dare un’occhiata in giro.

Le innumerevoli case che costituivano la cittadella, erano addossate l’una all’altra. Una larga via, lastricata di grandi pietre piatte, sistemate magistralmente, proseguiva verso l’alto in direzione del castello che dominava la città, dove numerosi vessilli svolazzavano dalle torri più alte.

La fortezza ove si trovava, sorgeva su cinque diversi livelli, simili a lingue di pietra provenienti dalla gola delle montagne, ognuno dei quali era cinto da un muro. Alle sue spalle, ergevano il capo, fiero e orgoglioso, imponenti montagne, un susseguirsi di vette che andavano a formare la famosa catena dei Monti Grigi; sicuro riparo per la fortezza da eventuali attacchi via mare, che al di là delle montagne frangeva le rocce con rabbia, alimentato dal vento di quelle stagioni  primaverili. Vander alzò gli occhi verso l’imponente vetta che sovrastava la fortezza; sembrava un gigante di pietra, costantemente vigile, per proteggere il più delicato dei suoi oggetti.

Vander si trovava sull’ultima delle cinque mura. Il vento turbinava con un fievole sibilo. Si diresse verso la balaustra che si affacciava sul paesaggio. Una grande muraglia grigia, alta cento piedi e spessa almeno venti, cingeva la città, saldandosi alla roccia delle montagne a formare un arco impenetrabile. L’imponente parete liscia era interrotta bruscamente da una maestosa saracinesca di acciaio, con il simbolo della città, un leone ruggente con una corona a cinque punte sulla criniera, impresso nell’acciaio.

Vander capì che si trovava a Toomfast, la maestosa capitale dell’impero, da sempre orgoglio del regno degli uomini. La sua storia era impressa nei libri di tutto il continente, capace di appassionare esseri di diverse razze.

Al di là delle mura, si stendeva a perdita d’occhio una pianura, dove campi verdi e ben coltivati, cosparsi di fattorie, stalle, orti, venivano attraversati da numerosi ruscelli, che gorgogliavano giù dalle alte vette. Più verso sud, quasi al limitare delle montagne, numerosi alberi dal cupo fogliame, di varia forma e età, occupavano una parte del paesaggio. Le loro fronde ondeggiavano alla brezza del vento, come verdi giganti in preda ad una danza arcaica. In seguito, scoprì che si trattava del piccolo bosco di Arhen, un luogo vecchio quanto la terra stessa, dimora di antiche creature che oramai raramente si affacciavano nel mondo degli uomini. Non era pericoloso, eppure il suo ingresso era vietato alla maggior parte degli abitanti di Toomfast. Notò che numerose guardie posteggiavano lungo il suo perimetro. Si chiese che cosa mai contenesse quel luogo, da giustificarne un simile atteggiamento. Da qualche parte alla sua sinistra, sentiva il fragore di una cascata, che doveva alimentare il corso del fiume che serpeggiava sinuoso diverse leghe più avanti, scomparendo dietro le montagne.

Vander si sentì strattonare la camicia ripetutamente. Quando si voltò, vide una bambina molto piccola, che lo fissava. Aveva capelli scuri lunghi, un viso tondo, e due splendidi occhi nocciola. Si meravigliò di non essersi accorto del suo arrivo. Forse non si era ancora totalmente ristabilito.

“Tu sei l’elfo che hanno portato qui l’altra sera? Parlano tutti di te”, disse la bambina con tono sicuro, appoggiandosi al parapetto. I lunghi capelli scuri si agitavano come tentacoli sospinti dal vento.

“Che cosa dicono di tanto interessante?”, chiese Vander incuriosito dalla bambina.

“Tante cose. Ma anche tante sciocchezze”, disse la bambina con semplicità. “Dicono che gli elfi non si mostrano più al mondo, e quelli che vagano per queste terre, sono poco raccomandabili. Temono la tua presenza, come se il male avesse varcato le mura di questa città”.

“Forse hanno ragione”, esclamò Vander.

“Forse si sbagliano”, ribatté la bambina. Il suo era un tono tranquillo, come di chi non teme il pericolo, o forse, frutto della grande capacità di un bambino di sottovalutarlo, come sentenziò Vander.

“Tu non hai paura?”, chiese Vander con un sorriso amichevole.

La bambina scosse la testa con un sorriso, facendo segno alle spalle di Vander. Vander si voltò, e vide quattro guardie reali, che li scrutavano. Una di loro teneva un arco incordato. Indossavano un’armatura nera e bianca, e portavano elmi di pregevole fattura, con guanciali stretti contro il volto. L’emblema della città, era inciso a caratteri d’oro sul petto delle loro armature. Erano fermi cinquanta passi più in là, pronti a scattare da un momento all’altro. “Se mi farai del male, loro ne faranno a te”, disse la bambina, incrociando le braccia.

Vander fissò di nuovo la bambina, divertito dalla situazione: “Dunque è questa la tua protezione?! Mai lasciare le proprie guardie così lontane; incauto da parte tua. Ti dico una cosa”, disse Vander appoggiandosi al parapetto, “è probabile che dopo loro mi facciano del male, come dici tu. Ma prima, avrò sempre fatto del male a te. Perché rischiare?”.

“Perché volevo conoscerti. E poi solo parlando da sola con te, potevo avere le  risposte che cercavo. Dovevo rischiare per vedere se avevo ragione io, oppure quei grassi politici che frequentano il castello”, disse la bambina con una smorfia di disgusto.

“E cosa hai deciso?”, chiese incuriosito Vander.

“Non sembri cattivo”, rispose la bambina con semplicità.

A Vander non era mai capitato di trovarsi in una simile discussione. Eppure, con sorpresa, la trovò stranamente gradevole. “Non mi conosci. Come fai ad esserne sicura?”, disse per alimentare quell’inaspettata conversazione.

“Il mio istinto fallisce raramente. Tu non sei cattivo; questo lo so. E poi, mi sei simpatico. Si. Non so ancora perché, ma ho deciso che mi sei simpatico”, decretò la bambina.

“Simpatico”, ripeté Vander scandendo le sillabe con tono ironico. Questa era nuova. Vander non ricordava l’ultima volta che qualcuno gli avesse detto che era simpatico. Forse non era mai successo.

“Perché sei qui?”, domandò la bambina.

“Non lo so” rispose secco Vander, ma più che alla bambina stava rispondendo a se stesso.

“Mio padre sostiene che ci aiuterai. Sembra convinto, e io mi fido di lui”.

Vander la fissò improvvisamente: “A fare cosa?”.

“A sconfiggere l’uomo cattivo”, rispose la bambina, come se fosse la risposta più ovvia del mondo. “Secondo mio padre, sta diventando sempre più forte, ed è sempre più difficile contrastare le sue armate. Sembra che la Torre Bianca stia crollando sotto i continui attacchi di quel mostro. Secondo lui, non ci vorrà molto prima che ceda il passaggio”.

Vander era più che stupito da quelle parole. Intuì chi fosse l’uomo cattivo. Si trattava di Morgon, un oscuro essere che governava sulla tratta nord delle Lande Desolate, da sempre teatro di oscuri eventi. Aveva preso il comando di quelle terre diverse generazioni addietro, ma non era mai stato tanto forte da invadere le terre dell’impero. La Torre bianca, balaustro imponente del regno, vigilava costantemente sul passaggio nord, per impedire una marcia dell’esercito via terra. Ma ora, sembrava aver accresciuto la sua forza. In che modo nessuno lo sapeva, ma nell’ultimo anno aveva attaccato la Torre Bianca per ben tre volte, cosa che non era accaduta nemmeno negli ultimi due decenni. La maggior parte della gente non era a conoscenza di questi eventi, se non per sentiti dire. Nessuno che gli dava peso più di tanto. Il re aveva un impero solido, e una forte armata, e nessuno credeva che sarebbe caduto sotto un orda di mostri.

“Tuo padre non dovrebbe parlare di guerra in presenza di una bambina”, disse Vander asciutto.

“Lo penso anch’io. È un po’ destabilizzante in effetti. Ma non è tutta colpa sua. Molte informazioni le ottengo per conto mio”, disse la bambina con un sorriso malizioso.

“Ma chi sei tu?”, chiese improvvisamente Vander.

La bambina tese il braccio con la mano spalancata: “Nadya. Piacere di fare la tua conoscenza elfo…”

“Vander”, rispose stringendo la mano di Nadya.

“Mi ha fatto piacere conoscerti Vander. Ora devo andare. Ho una lezione di storia sui trattati dei nani. Una noia mortale”.

“Aspetta”, disse Vander trattenendola per un braccio. Le guardie scattarono pronte all’attacco, ma si fermarono sotto un cenno di Nadya. “Perché i soldati sorvegliano quel bosco?”, chiese Vander indicando il punto oltre la muraglia.

Nadya si affacciò, allungandosi sulla punta dei piedi, poi fece un sospiro, e disse: “Che tu ci creda o no, nemmeno io sono ancora riuscita a scoprire il segreto di quel luogo. Ma ti posso assicurare che è sulla mia lista. E’ solo questione di tempo. Non mi è ancora permesso uscire fuori delle mura della città. Ora però, devo davvero andare, a presto”. Così dicendo si avviò verso le guardie, che immediatamente la circondarono, risalendo la strada principale che saliva verso il castello.

Vander rimase a guardare Nadya, mentre si allontanava, circondata dal manipolo di soldati. Notò con piacere che quello strano incontro lo aveva messo di buon umore.

C’era un discreto via vai, lungo le strade che si diramavano verso ogni angolo della cittadella. Vander era un uomo alto, giovane e bello. I lunghi capelli si agitavano come onde d’argento alla forza del vento. Gli occhi, scuri, e appassionati erano obliqui, segno indiscutibile della razza elfica alla quale apparteneva. L’imponente figura di Vander svettava tra la folla. Chiunque passava si accorgeva di lui, per poi distogliere lo sguardo non appena i loro occhi incrociavano quelli di Vander. Capì che Nadya aveva ragione. Una silenziosa paura affliggeva i loro volti, quando si posavano su di lui.

Si stava giusto chiedendo cosa fare per trovare il generale Naugir, quando notò un vecchio dall’aria smunta, con un piccolo bastone da passeggio, dirigersi verso di lui. Indossava abiti logori, i corti e radi capelli grigi erano spettinati. Quando si avvicinò, un paio di occhi penetranti, fissarono Vander da sopra gli occhiali a mezzaluna.

“Tu devi essere Vander?”, domandò. “Non che passi inosservato certo, ma era per essere sicuri. Quando ho saputo che eri arrivato a Toomfast, sono venuto di corsa a cercarti. Scommetto che le ultime ore sono state traumatiche. Ti do il benvenuto come si conviene”. Tese la mano a Vander, che la strinse. A quanto pareva, non tutti avevano paura di lui.

“Il mio nome è Ludorf. Mi occupo delle finanze magiche del regno”.

Vander lo guardò accigliato: “Finanze magiche?”. Chiese, non sapendo neanche lui perché. Forse, quella curiosità era frutto dello strano incontro con Nadya.

“Già”, disse Ludorf con un sospiro. “E’ un lavoro complicato al giorno d’oggi. Non si trovano più gli ingredienti di una volta. Ora si cerca innovazione negli incantesimi, meno trucchetti e più potenza nelle formule magiche. Senza rendersi conto che si sta perdendo la tradizione. Ed è sempre più complicato soddisfare le esigenze del re”.

“Di cosa ti occupi in particolare?”, chiese Vander confuso.

Ludorf lo fissò attraverso gli occhiali a mezzaluna, come sorpreso dalla sua domanda: “Sono il capo del reparto contabilità, ricerca e sviluppo degli ingredienti magici della città di Toomfast”

“AH!”. Vander non aveva ancora capito il lavoro di Ludorf, ma decise che per il momento non voleva indagare oltre. Aveva cose più urgenti al momento. “Devo trovare il generale Naugir. Lo conosci?”.

“Mio caro giovanotto, non credo ci sia anima viva, in tutto il regno degli uomini, che non lo conosca. Comunque, per rispondere alla tua domanda: si, lo conosco. Ma per farlo dobbiamo attraversare la città, quindi, se ti va, sarei bel lieto di farti compagnia lungo la strada. Scommetto che avrai molte domande, dopo gli ultimi avvenimenti. Ammesso che Nadya non ti abbia già detto tutto, è ovvio”, disse scuotendo la testa con un sorriso. “Quella bambina è la degna erede di suo padre. Un giorno sarà una regina magnifica”.

Vander fu sorpreso: “E’ la figlia del re”, non era una domanda.

“Ancora più sveglia di suo padre”, disse Ludorf, enfatizzando la frase.

Percorsero una parte della via principale, prima di svoltare verso destra, per seguire una via più stretta che tagliava tra gli edifici. Vander capì che si stavano dirigendo verso la cascata che aveva udito prima, poiché il suo fragore diveniva sempre più forte. La maggior parte delle costruzioni erano in pietra. Grigia, nera, bianca, scarlatta; le case erano di varie tonalità. La pietra che componeva le abitazioni, variava per qualità di materiale e lavorazione. Alcune erano lisce, precise nell’assemblaggio, mentre altre erano ruvide, come se fossero state costruite con poca attenzione, segno indistinguibile della solvibilità di alcune famiglie rispetto ad altre.

“Credo che tu sappia cosa mi è successo la notte scorsa”, chiese Vander nella speranza di ottenere qualche informazione.

“In parte si. Ma non sperare di parlarne adesso. Ci sono argomenti che non vanno trattati con leggerezza, mio caro elfo. E questo è uno di quelli”, disse Ludorf, in segno di ammonimento.

Vander avvertì che il buon umore scaturito dall’incontro con la piccola Nadya, stava scemando, e iniziava a spazientirsi di tutti quei segreti. Strinse forte i pugni, facendo una gran fatica per contenere la rabbia che sentiva scorrergli nelle vene. Ludorf dovette accorgersi del nervosismo di Vander, poiché si affrettò a dire: “Tra poco incontrerai il generale Naugir, e lui ti darà tutte le risposte che cerchi. Piuttosto dimmi un po’, tu come lo conosci?”, chiese Ludorf nella speranza di cambiare discorso.

“Tempo fa, mi ha ingaggiato per alcuni lavori, e da allora siamo diventati buoni amici”, rispose secco Vander senza aggiungere altro, segno che la discussione era finita.  “Quando ero nella stanza, c’era… quell’essere… Salfirel… credo fosse il suo nome. Chi è? Che cos’è?”, si corresse subito Vander.

Ludorf fu percorso come da un brivido improvviso nel sentire quel nome, e Vander ebbe quasi la sensazione che le sue labbra s’incresparono in un ghigno malevolo.

“Non parliamo di… Salfirel” disse Ludorf, come se pronunciare il suo nome gli costasse una fatica enorme. “E’ un argomento che trattiamo sempre con molto riguardo. Ma una cosa devi sapere: la tua presenza qui è una conseguenza del suo arrivo a Toomfast”.

Vander stava per chiedergli ulteriori spiegazioni, quando sbucarono da un vicolo, e uno spettacolo meraviglioso si mostrò ai loro occhi. Si trovavano ai bordi di un’ampia scalinata di marmo, larga trenta piedi, che scendeva giù per almeno cento scalini, verso un ampio giardino. Davanti a loro, a poco più di un chilometro di distanza, la splendida cascata di Colleargento eruttava dalle montagne con impeto maestoso. Cascava fragorosa da mille terrazze, per poi tuffarsi giù nella valle, scomparendo alla vista di Vander. Era uno spettacolo incredibile. Vander aveva sentito parlare della capitale del Sud, degli splendidi giardini che ne arricchivano le membra, ma non immaginava che fossero davvero così splendidi.

Ludorf fece un profondo respiro, caricando i polmoni della splendida aria che regnava in quel luogo. “Uno spettacolo magnifico”, disse, come se lo ammirasse per la prima volta.

Vander era pienamente d’accordo. Ancora una volta decise di accantonare le domande per qualche istante. Quel meraviglioso luogo, aveva acceso la sua antica passione per la natura.

Iniziarono a scendere la splendida scalinata di marmo. Ogni gradino aveva una sfumatura di diversi colori. Sembrava un arcobaleno di marmo disteso sul pavimento del mondo. La scalinata era contornata da due ali d’erba verdissima, tagliata con molta cura, dove crescevano felici varie qualità di fiori. Ad intervalli regolari, crescevano numerosi alberi di limoni e arance.

Una maestosa fontana di marmo bianco, attendeva paziente i visitatori alla fine della scalinata, gorgogliando alla luce del mattino. Nel mezzo, fiero e possente, un leone sormontato da una corona a cinque punte proferiva acqua dalle fauci spalancate. Ai suoi piedi, due splendide sirene, ne adoravano la sua antica forza e bellezza.

Tutt’intorno, un’immensa distesa d’era verdissima si spalmava lungo tutto il perimetro dell’immenso giardino. Un’incredibile varietà di fiori cresceva in ogni angolo, protetti dalle fronde di antichi alberi di olivi, ginepri, mimose, licheni, e molti altri dei quali Vander non conosceva il nome.

Si avviarono lungo uno dei numerosi sentieri di pietra che tagliavano il giardino. Ludorf, spesso si fermava per controllare alcune piante. A Vander, nonostante la fretta di ricevere informazioni, non dispiaceva questo ritardo. Capiva perfettamente la sua passione. Degli splendidi fiori rossi con i petali blu, coloravano un angolo del giardino. Ludorf si avvicinò: “Noi li chiamiamo occhi celesti. Sono i miei preferiti. I petali blu contengono una sostanza afrodisiaca. Con la giusta lavorazione, si ottiene una miscela molto potente. Un po’ sulla pelle, e farai perdere le staffe a molte donne”, disse l’uomo, mentre li accarezzava con delicatezza. Sembrava innamorato del suo lavoro. “Un tempo, la magia era una nobile arte, praticata in tutto l’Impero con un sentimento puro. Ma da quando le Lande del Nord hanno un nuovo padrone, che combatte con oscuri poteri celati nelle reliquie del mondo, tutto sta cambiando. Il modo di concepire la magia è cambiato. Non si può combattere un’orda di demoni con un incantesimo “Sorridella” giusto?! E’ un vero peccato”.

Vander s’immaginò per un attimo un esercito di demoni, nel pieno di una battaglia, improvvisamente colti da un attacco di risa, o magari da un’improvvisa voglia di gentilezza. Sorrise all’idea. “Potrebbe essere un’idea” pensò, ma non disse questo, bensì: “La magia oscura fa parte di questo mondo da sempre. Esattamente come il fiore che hai in mano. Non c’è nulla di nuovo in questo”.

Ludorf fissò Vander con sguardo grave: “Non nel nostro regno. Abbiamo conosciuto guerre, carestie, epidemie, ma nulla è paragonabile a ciò che sta accadendo oggi. Ci sono limiti nella magia, che non dovrebbero essere valicati. Mai. È un punto di non ritorno verso un destino amaro. L’esercito del re, ne sta avendo la prova”.

“A cosa ti riferisci?”, chiese Vander.

Ludorf guardò Vander con tensione, come di chi è indeciso se parlare o meno. Alla fine disse: “Mi riferisco… alle catene del tempo”.

Vander ebbe un sussulto. Anche Salfirel le aveva nominate. “Sono una leggenda”, disse Vander senza troppa convinzione però.

Ludorf abbandonò i fiori per dirigersi verso Vander. Liberò il petto di Vander, e puntò il dito contro la sua cicatrice. “Questa per te è una leggenda?”.

“Che cosa ha che fare con le catene del tempo?”, chiese Vander in preda a una forte agitazione.

“Tutto!”, disse Ludorf fissandolo negli occhi.

“Spiegati meglio”, disse Vander. Il suo tono cambiò. Adesso era  calmo, ma spaventosamente freddo.

Ludorf s’innervosì improvvisamente, come se si fosse improvvisamente reso conto di aver detto più di quanto doveva.

“Ludorf”, disse ancora Vander con un tono tagliente, senza ricevere risposta. “Ludorf”, urlò, ora stava perdendo la pazienza…

“Conosci la storia di Vudrokan, il drago di sangue?”, una voce rauca e profonda interruppe la loro conversazione.

Vander la riconobbe immediatamente. Si voltò e vide il generale Naugir dirigersi a grandi falcate verso di loro. Era un uomo di antico lignaggio; alto, robusto, il capo completamente calvo e un gran paio di baffi bianchi, che andavano a formare una spirale sulle punte. Il volto era solcato da numerose rughe, testimoni fedeli della sua esperienza. Gli occhi erano scuri e freddi come una notte d’inverno. Indossava una possente armatura, di pregevole fattura, come di chi era pronto per scendere in battaglia in qualunque momento. Una micidiale cintura puntellata di borchie era legata intorno alla vita.

“A quanto pare Ludorf, hai sempre la brutta abitudine di parlare troppo, e prima del tempo”, disse il generale, quando li raggiunse.

“Generale, io…”

“Ciò che è fatto, è fatto”, concluse la faccenda il generale. Poi i suoi occhi scuri si posarono su Vander: “Piacere di rincontrarti, giovane Vander”, disse il generale tendendo a Vander una mano.

Vander ghignò: “Non so ancora se lo è per me”, disse mentre stringeva la mano del generale. Vander notò che sotto il braccio sinistro, il generale teneva una tavola dalla forma rettangolare, completamente d’oro.

“Comprendo la tua confusione”, disse mentre una risata cavernosa vibrava nella sua gola. “Dopotutto, chi non lo sarebbe al tuo posto”.

Vander non trovava la faccenda così divertente. Tuttavia conosceva il generale da vecchia data, e lo riteneva un uomo d’onore e di solida tempra. Col tempo era giunto alla conclusione di potersi fidare di lui. Una novità assoluta per Vander, poiché fidarsi delle persone, soprattutto di quei tempi, non faceva parte del suo essere. Sapere, che in qualche modo il generale era coinvolto in quella faccenda, lo aveva stranamente tranquillizzato, sebbene il suo cuore vibrasse ancora lievi sussulti di apprensione.

“Non hai ancora risposto alla mia domanda. Conosci la storia del drago di sangue?”, chiese il generale Naugir, mentre prendevano posto sopra una panchina di marmo, nei pressi di un albero di betulla.

Vander conosceva la storia. Riguardava inevitabilmente Moldar, l’elfo che tradì il suo stesso fratello per la conquista del reame elfico. La storia narra di quando Moldar, trovatosi col suo esercito quasi sterminato, riunì tutta la sua follia, per dare vita alla più grande magia che il mondo ricordi. Dal sangue disseminato lungo il campo, fece nascere un poderoso drago, che usò come arma per sopraffare l’esercito del fratello. E vinse. Ma la sua arma si dimostrò troppo potente perfino per il suo creatore, ed egli stesso alla fine perì sotto la sua forza. Fu così che il mondo conobbe un nemico indomabile, che non aveva altri sentimenti se non quello di nutrirsi del sangue delle sue vittime. Più uccideva e più diventava forte. Una magia terribile. Alla fine la creatura fu fermata, ma non uccisa. Secondo le leggende, Imshaark fece la sua comparsa sulla terra, imprigionandola con una delle sue catene. La trascinò nelle viscere della terra, e da allora nessuno seppe più niente di quella creatura.

“Si, la conosco”, disse Vander con un filo di voce. “In seguito alla caduta di Moldar, gli elfi che si unirono dalla sua parte furono esiliati dai reami degli elfi. Una condanna che valeva per loro e per tutti i loro discendenti”, Vander strinse forte i pugni per la rabbia. “Una condanna ingiusta”.

“E’ incredibile come gli elfi serbano rancore per questioni tanto vecchie. Quella guerra però, decretò la caduta del dominio del grande reame elfico su queste terre. Un’epoca si concluse con quel tradimento. È una questione difficile da accettare. Tuttavia, condivido la tua opinione. È una condanna ingiusta”, il generale poggiò la sua pesante mano sulla spalla di Vander per fissarlo negli occhi: “Ed è per questo che tu sei qui”.

“L’ascolto”, rispose Vander ricambiando lo sguardo del generale. Lo conosceva bene, e sapeva che quando si muoveva lo faceva per un motivo.

“Vander, mi conosci, e sai che mi piace andare dritto al punto. Dunque, non mi perderò in inutili chiacchiere.

Prima di spiegarti ogni cosa però, ritengo giusto confessarti le difficoltà che ho incontrato, nell’abbracciare una simile causa. Il mio onore di uomo e di soldato, mi impediva di ragionare secondo certi criteri. Ciò nonostante, sebbene controvoglia, alla fine ho deciso di fare marcia indietro e accettare gli ordini del nostro re.

Devi sapere che Ludorf, poc’anzi, si riferiva proprio al drago di sangue. Le catene del tempo si riferiscono al drago di sangue. La tua cicatrice” disse il generale picchiando con l’indice sul petto di Vander, “è legata al drago di sangue”. Il generale, fece una pausa, come a voler dosare con attenzione le sue parole: “Ci stiamo avvicinando ad una guerra, Vander. Un tempo, il nostro re avrebbe marciato in capo al suo esercito per difendere il suo regno, la spada alta per mostrare ai nemici la lama che li avrebbe sconfitti. Ma oggi sappiamo che ciò non servirebbe a niente, contro il nostro nemico. Poiché esso, usa armi che non trafiggono le carni con l’acciaio, ma con oscuri tranelli lontani dalla nostra comprensione.  La potenza dell’Oscuro è troppa, per uomini che impugnano solo una spada. Non possiamo vincere, non senza giocare le sue stesse carte. Capisci adesso in che direzione stiamo andando? Per poter sconfiggere il male, dobbiamo usare il male stesso”.

“E volete usare il drago di sangue”, disse Vander sorpreso e spaventato al tempo stesso. “E fuori da ogni logica. Quel drago uccise il suo cavaliere, uno dei guerrieri più forti che la storia ricordi. Come si può pensare di domare quella creatura?”, Vander scattò in piedi per l’agitazione.

“Salfirel…” il generale s’interruppe un momento prima di continuare: “ritiene possa dominare la sua mente”, le parole uscirono lente e vellutate, come se anche lui facesse fatica  crederlo.

“E lei si fida di quell’essere generale?”, chiese Vander.

“No. Ma non abbiamo alternative. Se non faremo niente, le nostre terre verranno invase dal Nemico, e non avremo comunque scampo. Non condivido questa scelta, ma ritengo di dover rischiare”. Il tono del generale Naugir, era fermo e incisivo, come di chi non ammetteva più discussioni sulla faccenda. Fissava Vander con sguardo impenetrabile, poi lentamente la tensione tra i due scemò rapidamente.

“Che cosa c’entro io, con questa storia?”, Vander sentiva di dover rompere quel silenzio insopportabile.

“Questo dipende da te”, disse il generale posando sulla panchina di marmo la tavola d’oro.

Vander si avvicinò di un passo alla panchina. Un vecchio istinto indagatore condusse la sua mano verso quella tavola, ma quando le sue dita sfiorarono la superficie liscia del freddo oro, una piccola scossa attraversò la sua mano. Vander la ritrasse immediatamente. “Che cos’è?”, disse.

“E’ la risposta alle tue domande”, rispose il generale Naugir, estraendo un pugnale. “Dammi la tua mano” disse. “Fidati di me”, aggiunse di fronte alla sua esitazione.

Vander protese riluttante la sua mano verso il generale, ed egli fece un piccolo taglio sulla punta del dito di Vander.

Una piccola goccia di sangue cadde sulla tavola. Inizialmente non accadde nulla, poi lentamente la goccia si diradò, fino a formare numerose linee rosse, che s’intrecciavano fra loro lungo tutta la superficie della tavola d’oro, a formare delle frasi. Alla fine, sulla tavola si formò la seguente scritta:

Io Vander Nobilorn, membro del reame degli elfi silvani della terra di Lhannor, nonché diretto discendente del re Lavaron,

accetto

in base alla legge n337/d/1227, approvata dal consiglio reale della città di Toomfast, il giorno 12 gennaio dell’anno 2422,

la candidatura a ricoprire il posto di unico e solo cavaliere del drago di sangue.

Firma

Vander, che non riusciva a credere a ciò che aveva letto, alzò lo sguardo ad incrociare quello del generale: “Questo non ha senso”.

“Forse no; ma chi può dirlo”, disse il generale Naugir, come preso da una nuova carica di energia. “Alla fine, ho accettato la decisione del re, ma non senza le mie condizioni. Salfirel aveva libero arbitrio, ma io avrei scelto il nome del cavaliere. E io”, disse il generale Naugir afferrando con forza il braccio di Vander, “ho scelto te. All’inizio si è dimostrato riluttante, ma poi ha accettato la mia condizione. Così, per assicurarmi che tutto avvenisse come stabilito, ho chiesto a Ludorf di creare questa tavola”.

Ludorf, chiamato in causa, si avvicinò febbricitante, come un artista impaziente che non vede l’ora di mostrare al mondo la sua ultima creazione. “Contiene una formula molto antica”, disse sfiorando delicatamente la superficie della tavola. “Dovete sapere che pochi al giorno d’oggi riescono a crearne una che abbia la stessa efficacia. Anche questa è una magia che si sta perdendo, purtroppo. Comunque, quello che serve a te sapere oggi, è che questa tavola rappresenta il legame tra te e il drago di sangue. È una procedura troppo antica e complicata da spiegare, ma dal momento in cui firmerai questa tavola, sarai legato indissolubilmente a quella creatura. Tu sarai il solo e unico che accetterà come cavaliere”. Ludorf sembrava molto soddisfatto della breve e semplice spiegazione.

“Questa è stata la mia unica richiesta. Che fossi solo ed unicamente tu, il suo cavaliere”, concluse il generale.

“Perché proprio io?”.

“Perché a differenza di quanto pensano in molti, hai un cuore forte e sincero. Confidiamo nel fatto che se quella creatura venisse legata ad un cuore buono, possa essere meno pericolosa. Tuttavia”, il tono del generale divenne cupo, “è solo una tenue speranza. Non c’è nessuna garanzia. Mi rendo conto del grande pericolo che ti sto mettendo davanti, ma sento che solo tu puoi farcela”.

“Perché non lei?”, chiese Vander.

“No… assolutamente. Il mio animo è colmo di rabbia. Non sarei mai in grado di portare a termine questo compito”.

“E se si sbaglia? Se non fossi all’altezza? Anch’io sono pieni di risentimenti, generale”, obiettò Vander.

“Ma il tuo cuore non ha conosciuto la corruzione del male. Vander, sei il solo che io conosca che può aiutarmi in questa guerra. Se non avrò te al mio fianco, non saprò di chi fidarmi”.

Vander fu sorpreso da quelle parole. Conosceva il generale da molto tempo, eppure solo adesso scopriva che provava per lui un grande rispetto. In qualche modo, ne fu onorato.

Vander guardò la tavola d’oro, con le frasi rosse incise col suo sangue. “Salfirel, diceva che mi stava dando la possibilità di redimere sia me, che tutta la mia razza. Dunque è questo che intendeva? Usare lo stesso drago che sterminò migliaia di elfi, per difendere il mondo dalla minaccia dell’Oscuro Signore. Sembra una pazzia”.

“Forse il mondo ha bisogno di una pazzia, mio giovane amico”, disse Ludorf con tono mite.

“Mi chiedo se ne sarei capace”, disse Vander guardando il generale, con occhi colmi di apprensione, il respiro lento e ritmato. Il generale ricambiava il suo sguardo, con due occhi vivi e penetranti: “Io dico di si. Non ti rendi conto della tua forza, Vander. Ma presto capirai che avevo ragione”.

“E se mi rifiutassi?”.

Il generale distese il viso in un accenno di sorriso: “Vander, non sei obbligato ad accettare. Il tuo corpo espellerà l’amuleto, e tu, tornerai alla vita da rinnegato. In ogni caso, non devi decidere adesso”. Detto questo, il generale si allontanò lasciando Vander ai suoi pensieri.

Vander, dal canto suo fissava la tavola, in balia dei dubbi che affliggevano il suo cuore in quel momento. Ora aveva finalmente chiaro cosa stava accadendo, e si rese conto che il mondo stava per conoscere grandi avvenimenti. Se chiese se davvero ne volesse far parte. Fu sorpreso di conoscere già la risposta.

“Generale” disse Vander, alzando la testa dalla tavola. Fissava il generale Naugir, il volto disteso in un ghigno: “Non so cosa accadrà, ma ha ragione. Sono l’unico che può riuscirci”. Vander tornò a fissare la tavola d’oro, e premendo sulla ferita aperta, fece colare sulla tavola alcune gocce di sangue. Con il dito ancora sanguinante, impresse il suo nome sulla tavola. Quando finì di scrivere l’ultima lettera di sangue, un fuoco rosso avvolse il suo nome , e la scritta penetrò nella tavola, come se uno scultore invisibile stesse martellando il suo nome in quell’istante. Un attimo dopo la tavola si lesionò in più parti, per poi sgretolarsi in minuscoli granelli di polvere dorata.

Vander tornò a guardare il generale, che nel frattempo si era avvicinato di nuovo: “Che cosa accadrà adesso?”, con sorpresa scoprì di non avere paura.

“Avrà inizio una nuova era, per il mondo intero”, disse il generale, con un tono solenne.

“Ehi Fred, a chi pensi che toccherà stavolta?”, gracchiò un uomo, mentre staccava un coscia di pollo per addentarla voracemente.

“Spero che sia il tuo turno, così rimarrà un po’ di cibo per tutti gli altri”, rispose Fred, seduto al tavolo di fronte. Prese una bottiglia di vino e ne trasse una lunga sorsata.

“E’ ancora presto. Io sono stato convocato solo l’altra sera. Non credo che arriverà il mio turno prima di domani mattina”, rispose l’uomo.

“Visto che sai tutte queste cose, perché non spieghi anche a me come mai il re si è fatto tanto generoso con i suoi soldati”, disse Fred.

“Lo sanno tutti che è per la faccenda del drago di sangue”, disse l’uomo con noncuranza. “Ci vogliono forti e pieni di energia”.

“Questo è risaputo. Ma poi? Che cosa sappiamo in realtà di questa storia?”, disse Fred, avvicinandosi al bordo del tavolo per colmare la distanza dal suo amico: “Ti sei mai chiesto in che modo avverrà?”.

“Non lo so. Ma dicono che sia molto doloroso. Comunque sia vecchio scemo, credo che lo scopriremo presto”, l’uomo tornò ad ingozzarsi con la sua coscia di pollo, e a rivolgersi ad altri compagni.

Vander distolse l’attenzione dai due uomini, quando iniziarono a deridersi a vicenda. Fissava il suo piatto pieno zeppo di patate arrosto. Si trovava in una sala della città di Toomfast, dove centinaia di uomini mangiavano e bevevano in allegria. Occupavano ogni singolo posto dei numerosi tavoli disposti perfettamente in linea per impiegare ogni singolo anfratto della stanza. Era un ambiente molto largo, il pavimento e le pareti erano di pietra, e delle numerose fiaccole appese ai muri illuminavano la stanza. Dei deboli raggi di luce penetravano dalle inferriate rasenti al soffitto.

L’atmosfera era gioviale, i tavoli assortiti di ogni delizia; cacciagione arrosto, lunghi filoni di pane appena sfornato, vassoi pieni di numerose varietà di formaggi; patate, funghi cucinati nelle maniere più varie; numerose torte di mele, lamponi, ciliegie, arricchivano ulteriormente le tavolate. Le pietanze erano varie e numerose, degne di un banchetto reale.

Eppure, quell’atmosfera apparentemente festosa, le tavole grondanti di cibo, non erano altro che ingranaggi silenziosi, per un’articolata strategia di guerra. Questo, Vander lo sapeva. Durante le sette ore che si trovava lì, non aveva fatto altro che ripensare agli ultimi due anni vissuti a Toomfast. Perché questo, era il tempo trascorso da quando firmò la tavola d’oro.

Da quel giorno, Vander divenne membro ufficiale dell’esercito di Toomfast. Smise di compiere missioni come mercenario, per seguire un vero addestramento militare. Le sue incredibili abilità in combattimento, lo portarono nel giro di un anno a conseguire numerosi successi sui campi di battaglia. Una fama che non aveva cercato, ma che arrivò inevitabilmente, scatenando l’invidia di molti militari che da prima di lui l’avevano inseguita, senza mai raggiungerla.

Ma come il generale Naugir gli aveva confidato, il suo ruolo nell’esercito di Toomfast, aveva un peso differente da chiunque altro. Sapeva che egli era legato al drago di sangue, e del suo futuro destino da cavaliere del drago, ma non gli era mai stato rivelato come ciò sarebbe accaduto. Ma da quando era in quella stanza, sapeva che quel momento era finalmente vicino.

I suoi pensieri, furono interrotti dal rumore dei pesanti chiavistelli che scorrevano nelle guide. La possente serratura fece un sonoro schiocco e la porta di legno massiccio si aprì… di nuovo. Il primo ad entrare fu il generale Naugir. Dietro di lui, altri dieci soldati entrarono nella stanza, disponendosi ai lati del generale.

Naugir si appoggiò al piccolo balcone troneggiando sull’intera sala. Come diretto da un unico comando, il chiasso della sala cessò di colpo. Tutti conoscevano il motivo della sua presenza, e tutti attendevano una sua parola. Il generale Naugir, fissava attentamente i tavoli dei suoi uomini.

“Cinque posti si sono liberati. Chi di voi si offre per occuparne il posto?”, disse il generale con il suo solito vigore.

Dal fondo della sala una bottiglia di vino si alzò, seguita da una voce rauca: “Tobran è pronto mio signore”, disse un uomo corpulento. Attraversò l’immensa sala, per nulla intimorito dalla dura prova che sapeva attenderlo. Delle pacche d’incoraggiamento e applausi si levarono al suo passaggio, che ricambiava bevendo grandi sorsate di vino e alzando la bottiglia in segno di saluto.

Quando arrivò al cospetto del generale Naugir, lo guardò fisso in volto. Bevve un ultimo sorso di vino, e lanciò la bottiglia a terra: “Ho bevuto abbastanza per compiere il mio dovere, signore”, disse mentre dei rivoli di vino solcavano la sua ispida barba rossa. Si asciugò il viso con il dorso della mano.

Il generale Naugir ricambiò il suo sguardo, con un ghigno di soddisfazione sul volto. Era orgoglioso della tempra dimostrata dal suo soldato. Poi i suoi occhi si posarono di nuovo sulla sala. “Chi altro?” urlò ancora. Nella sala echeggiò il suo intenso tono di voce.

Altri due uomini risposero al comando di Naugir, ma senza la spavalderia di Tobran.  Si disposero di fianco a Tobran, che non mancò di farsi una sonora risata, dando pacche d’incoraggiamento ai due soldati.

“Nessun altro?”, urlò ancora Naugir.

Questa volta nessun soldato rispose al suo comando. Gli occhi scuri del generale, solcarono attentamente la sala. Come sempre lasciava a loro il compito di decidere. Se un soldato si sentiva di offrirsi volontario era giusto dargli la precedenza, ma quando non accadeva spettava a lui stabilire a chi sarebbe toccato. I suoi occhi vagavano sicuri su ogni soldato. Era un duro compito che Naugir aveva deciso di accettare, poiché in virtù della sua enorme esperienza in campo militare, sapeva riconoscere chi aveva le potenzialità per resistere alla prova meglio di un altro.

Alla fine i suoi occhi trovarono il suo obiettivo: “Sergente, terza fila, il secondo da destra”, disse e immediatamente tre soldati scesero le scale per immergersi nella sala.

Il soldato chiamato in causa fece resistenza. Accadeva che un soldato non si sentisse pronto. In realtà nessuno di loro conosceva con precisione in cosa consisteva il compito che erano stati chiamati a svolgere, ma in quanto soldati non si potevano rifiutare. Ciò che sapevano, era che doveva trattarsi di una prova terribile, che metteva a dura prova la resistenza di una persona fino allo sfinimento. Non era mancato chi ci aveva rimesso addirittura le penne.

“Non sono ancora pronto. Chiamate qualcun altro. La prossima volta… la prossima verrò io”, continuava a implorare l’uomo, ma i soldati lo trascinarono a forza vicino agli altri tre, intimandogli di fare silenzio. Il generale Naugir fissava il soldato con occhi impenetrabili, che non tradivano il disprezzo che provava per un soldato così codardo. Tobran, il volto paonazzo dal troppo vino, non mancò di dargli delle sonore pacche d’incoraggiamento, come era suo solito ormai, spinto da un’euforia che sembrava concepire soltanto lui.

Ora ne mancava solo uno. Il generale Naugir squadrò di nuovo la sala. Questa volta però, ad alzarsi fu Vander. I lunghi capelli argentei gli cadevano ribelli lungo le spalle, coprendo le sue orecchie a punta. Il volto solcato da una barba di pochi giorni. Indossava abiti logori, ma emanava un’aura tranquilla, rassicurante. Percorreva con calma e sicurezza i tavoli, incurante dei volti che lo fissavano. Sapeva che in mezzo a loro c’era chi lo stava ringraziando in silenzio per essersi alzato, chi invidiava il suo coraggio, chi invece sperava vivamente che fosse giunto il tramonto della sua gloria battagliera. Si fermò dinanzi al generale, che lo fissava dall’alto in basso.

“Sei sicuro? Non è ancora giunto il momento”, disse il generale Naugir, con un tono che non tradiva alcuna emozione.

“Quanto sangue deve essere ancora versato, prima che finisca?”, il tono di Vander, era altresì sicuro e deciso.

Il generale distese le labbra in un ghigno: “Poco ormai. Il cerimoniale è quasi pronto”.

“Allora sarò io il quinto”, esclamò Vander.

“Come preferisci”, concluse il generale. Prima di uscire, lasciò ai soldati il compito di scortare gli uomini fuori della sala. Li disposero nel corridoio in fila, e li legarono con delle pesanti catene.

“Ci siamo offerti volontari, a cosa servono le catene?”, chiese uno di loro.

Il soldato ghignò: “Per quando vi pentirete della vostra scelta. E vorrete solo scappare”.

“Non c’è volta in cui Tobran si sia pentito di una scelta, mano moscia”, disse Tobran puntando un dito feroce contro il soldato. Il tintinnio delle catene echeggiò nel corridoio freddo e silenzioso.

Quando tutti furono legati, si avviarono verso l’uscita, alla scoperta del loro destino. Tobran conduceva il gruppo al ritmo stonato delle sue canzoni e della sua stramba andatura, incoraggiando tutti ad affrontare il loro fato senza timori.

Quando la porta di legno si richiuse, come se niente fosse, tutti gli altri ripresero il loro banchetto, alimentato dal miglior cibo e vino che il regno potesse offrire, felici che non fosse toccato a loro. Perché in quel tempo, in quella stanza, solo per brindare e mangiare allegramente ci voleva un grande coraggio.

***

Un boato assordante di urla e stridore di metallo contro metallo fece rizzare i peli della nuca di Galfred, mentre stava passando una fune intorno al collo della sua capra. Si voltò con un enorme peso sul cuore verso la direzione del frastuono, come a voler penetrare il folto degli alberi con la forza della mente, per vedere da dove provenisse tutto quel chiasso. Delle pesanti nuvole scure che si addensavano all’orizzonte, appesantirono ulteriormente il suo cuore.

Il giorno precedente, durante il pascolo, un tuono aveva spaventato il suo gregge, facendo scappare gli animali. Alcune capre si erano allontanate troppo, costringendo Galfred e il suo fedele amico Larcon, ad un’escursione per recuperarle. Dopo aver sistemato le capre trovate nei dintorni, insieme all’immancabile cane Rash, si erano imbarcati in piena sera per cercare le restanti prima che finissero preda di qualche lupo.

Non si resero conto di quanto si fossero allontanati, fino a che non trovarono un cumulo di corpi bruciati, dove gli ultimi esili fili di fumo donavano all’ambiente un tanfo acre e nauseabondo. Non si capiva bene se appartenessero ad uomini, ad animali o chissà quale bestia, ma quella vista bastò a fargli decidere di tornarsene a casa, abbandonando al loro destino quelle stupide capre. Ma Rash aveva abbaiato forte, segno che erano nelle vicinanze. Con un profondo sforzo di volontà, decisero di proseguire ancora per un po’.

Galfred era un uomo tarchiato, sulla quarantina, e una scura barba gli copriva il volto paffuto. Due piccoli occhi grigi facevano capolino ai lati del naso a tartufo. Larcon invece era alto, smunto e una livrea di capelli lunghi e ispidi gli donava un aspetto selvaggio. Un poderoso naso ornava i lineamenti appuntiti del volto. Aveva un’andatura curva tanto che, delle volte, dava l’impressione di essere un avvoltoio che scrutava il terreno. A differenza di Galfred, possedeva un’indole per il mistero e l’avventura.

Erano arrivati sul limitare di un’antica foresta a est delle sue terre. Lo spirito avventuriero di Larcon, lo esaltava non poco all’idea di addentrarsi nelle viscere di quei boschi. Galfred invece, era di tutt’altro avviso. Ogni passo era un’imprecazione contro quegli stupidi animali, e contro se stesso per essersi spinto fin laggiù. Se non aveva perso la bussola, quella doveva essere la foresta di “Cepposecco”, e non una volta aveva assistito, nella calda sala di una locanda, alle storie che si narravano di quei luoghi. Non era tanto pericolosa la foresta in sé, sentiva dire di continuo, ma ciò che vi si nascondeva dopo. Gli sembrava di udire ancora le parole del vecchio Manrol come se fosse ad un palmo dal suo naso: “Quella foresta è un campanello d’allarme per i viandanti sfortunati. Rappresenta il confine tra il mondo degli uomini e quello dell’oscurità. Chi la attraversa, è perduto”, diceva il vecchio accentuando la frase con un sonoro gesto di tagliarsi la gola. Ripensava a quei momenti, e a tutte le volte che ripeteva a se stesso che mai avrebbe osato spingersi fin laggiù. Lanciò ancora un’imprecazione.

“Vedila così. Vedremo se tutte quelle panzane che dicono su questo luogo sono vere”, lo incoraggiò Larcon. Aveva un cuore più sereno, e nell’animo più coraggio. O forse era semplicemente un incosciente senza cervello, come sentenziò Galfred.

Finalmente legò l’ultimo nodo delle sue capre, e si guardò intorno: “Dove diavolo si sarà cacciato quel vecchio scemo di Lar”, pensò, imprecando ancora silenziosamente. Non osava urlare per chiamarlo, ma non riusciva nemmeno a stare fermo in quella piccola radura ad aspettare il suo arrivo. Larcon si era allontanato pochi minuti prima, insieme a Rash in cerca dell’ultima capra. Il cane si era messo ad abbaiare improvvisamente, fiutando l’animale, e pochi istanti dopo Larcon era sparito tra gli alberi, rassicurando l’amico che sarebbe tornato presto. Un improvviso timore s’impadronì di lui: “E se gli fosse successo qualcosa? E se non tornerà?”. Sentì che riusciva a contenere a stento la paura, come se una forza invisibile all’interno del suo corpo si stesse gonfiando a dismisura per esplodere da un momento all’altro. Doveva essere tardo pomeriggio, ma le pesanti nubi non permettevano ai raggi del sole di penetrare, donando all’ambiente una semioscurità che rendeva il paesaggio più tetro di quanto fosse in realtà. In lontananza, l’eco dei tamburi insieme ad altri sordi rumori di varia natura, si diffondevano tra gli alberi come un sussurro malefico.

La sua capra iniziò a mordere la manica della sua maglia, e questo servì almeno per un momento a distoglierlo dai suoi pensieri.

Una mezz’ora più tardi, Larcon sbucò dagli alberi; in braccio un piccolo capretto e Rash che abbaiava e scodinzolava soddisfatto per il lavoro concluso. Galfred fu felice di costatare che il suo vecchio amico stesse bene, e che tutti i suoi timori erano solo frutto della sua fantasia.

“Credo che ci sia un esercito appostato nei paraggi”, disse Larcon entusiasta. Diversamente da Larcon, aveva un sorriso radioso.

“Qualunque cosa sia, non m’interessa. Dammi questo piccolo scocciatore e andiamocene da questo stramaledetto posto”, disse Galfred, prendendo il piccolo capretto e legandolo agli altri animali.

“Questo piccolo birbante si è spaventato a morte, quando ha sentito quei boati, e mi ha fatto sudare sette camice per acchiapparlo”, disse Larcon, spazzolando la testa del capretto.

Galfred capiva benissimo l’animale: “Chi non si spaventerebbe a udire un simile frastuono”, pensò, ma sapeva già la risposta. Larcon lo guardava con uno sguardo che preoccupò terribilmente Galfred.

“Galfred, potrebbe essere l’unica occasione di vedere un esercito in movimento. Deve essere uno spettacolo eccezionale”.

Galfred lo guardò torvo: “Hai idea di dove siamo? Conosci cosa si racconta di queste terre? Degli esseri che girano da queste parti? Orchi, spettri, bestie feroci. Io non voglio averci nulla a che fare”.

In quel momento un nuovo boato, accompagnato da un forte rombo di tamburi echeggiò lugubre nell’aria. Per poco le capre non scapparono di nuovo. Rash iniziò ad abbaiare forte, scrutandosi intorno come in cerca di qualcosa.

“Larcon stammi a sentire bene. Io non rimarrò un secondo di più in queste terre maledette. A casa ho una moglie e dei figli che mi aspettano, e non voglio finire nella pancia di qualche strano essere. Lega il cane e andiamocene, se vuoi venire con me. Altrimenti parto da solo. Non ho voglia di assecondare le tue stupidaggini”.

Larcon, con spirito di rassegnazione, prese una catena per legare Rash. Ma non fu facile, poiché il cane continuava ad agitarsi e ad abbaiare verso un punto non definito.

“Buono piccolo, buono”, cercò di rassicuralo Larcon, ma non c’era niente da fare. Sembrava irrequieto, come se qualcosa lo agitasse tanto da non fargli pensare ad altro.

Mentre cercava di assicurare la corda intorno al collo del cane, per evitare che si strozzasse, Rash, si divincolò graffiando con la zampa la mano del  padrone quel tanto che bastava per fargli allentare la presa e fuggire via verso il suo obiettivo. La catena ancora attaccata al collare, lasciava un solco nel terreno.

“Rash, vieni qua”, urlò Larcon, mentre un rivolo di sangue gli colava lungo le dita della mano. Usò uno straccio per tamponare la ferita. “Io vado a recuperarlo, non lo lascerò da solo in questa foresta. Tu parti, e non ci aspettare”, disse, e senza attendere risposta, iniziò a correre dietro a Rash scomparendo di nuovo nel fitto della vegetazione.

Galfred imprecò per la piega che avevano preso gli eventi.

***

Il carro che trasportava i cinque uomini incatenati si fermò bruscamente. Scesero curiosi di conoscere la loro destinazione. Si trovavano in un’ampia vallata circondata da un’immensa catena montuosa che si estendeva per chilometri lungo il versante ovest, mentre ad est era protetta dall’ansa del fiume Tranig, il più importante dell’impero. Il cielo era plumbeo. Un solitario raggio di sole cercava timidamente di farsi spazio tra le pesanti nubi, per poi arrendersi alla mole dei nembi. Sopra un’immensa propaggine, dominava la vallata un’enorme costruzione in pietra nera. Le mura colossali, erano lunghe diverse centinaia di metri, e alte almeno trenta. Quattro torri svettavano agli angoli delle mura. Dei sinistri orifiamma neri come la notte più scura penzolavano lungo tutto il perimetro del cornicione, danzando irrequieti alla brezza del vento. Ricoprivano tutta la parte superiore delle mura, lasciando scoperta l’altra metà. Vi era un enorme portone principale con sopra uno stendardo dove una possente testa di drago rosso come il sangue, dipinta su uno sfondo nero, scrutava con indomita cattiveria chiunque osasse varcarlo.

I cinque prigionieri, scortati da altrettanti soldati si avviarono verso il portone attraverso un sentiero che serpeggiava tra le numerose tende disposte intorno alla fortezza. La valle era affollata da numerosi guerrieri che sembravano prepararsi ad un’imminente battaglia. Vide un nano scagliare la sua ascia con incredibile precisione verso un palo di legno posto a decine di metri di distanza; altri uomini curavano le proprie armi con instancabile attenzione, altri ancora si esercitavano a migliorare le proprie tecniche di combattimento. C’era anche chi si dilettava in gustosi manicaretti. Forse, il loro compito era quello di vegliare su quella fortezza, pensò Vander. Percorrendo la strada che portava al cancello, notò che tutti avevano il corpo dilaniato da cicatrici uniformi. Solcavano i loro corpi in maniera troppo lineare per essere dei cimeli di antiche battaglie. Sembrava più che fossero state inflitte volutamente. In quel momento vi dovevano essere almeno trecento soldati, tutti con le stesse cicatrici d’uguale misura e lunghezza. Un nano che stava affilando la sua ascia, alzò il capo verso i cinque uomini, mentre gli passavano accanto. “Vuole sapere chi è stato tanto stolto da arrivare fino a questo punto”, pensò Vander, o magari erano solo attratti dalla sua figura. Da più di un anno, da quando quel rituale aveva avuto inizio, si erano visti uomini, e nani, ma mai un elfo si era avvicinato ad un simile rito. Ma per Vander quel discorso non valeva. Lui non apparteneva al suo popolo da molto tempo ormai.

Quando furono in procinto del portone la testa del drago li scrutò con molta attenzione. Vander notò che era un’immagine inquietante. I profondi occhi gialli ricambiavano il suo sguardo con una determinatezza che lo colpì. I dettagli delle sue squame, ornate ai bordi da piccole gocce rapprese dovute alla cicatrizzazione del sangue, i particolari con cui ogni singolo aspetto di quel viso serpentino erano stati raffigurati, erano straordinari. Sentì un moto di soggezione nei confronti di quella figura, come se a guardarlo fosse il drago in “sangue e ossa”. Si complimentò con l’ignara mano che aveva tratteggiato quei lineamenti perfetti, ammesso che quella, fosse opera di un uomo. Conferivano alla splendida creatura tutta la potenza che le leggende raccontavano sul suo conto.

Sentì le catene che lo trascinavano all’interno della fortezza, e suo malgrado dovette distogliere lo sguardo da quella splendida immagine.

Il possente portone si chiuse alle sue spalle con un sonoro schiocco. Attraversarono uno stretto corridoio di pietra, per sbucare in una sala dove c’erano numerosi tavoli. Si sedettero su una lunga panca di legno e aspettarono. Successivamente furono separati. Vide due suoi compagni che tremavano silenziosamente, in attesa del loro momento. Tobran invece serbava sempre il suo spirito di coraggio, entusiasta del momento che stava per affrontare. Come molti, voleva esserci in quel momento, partecipare agli eventi da protagonista, per poter raccontare un giorno, se il destino glielo avrebbe permesso, che il suo indomito cuore di guerriero non si era inchinato al volere della paura. In quale modo nessuno poteva dirlo esattamente, ma di qualunque cosa si trattasse, erano sicuri che sarebbe stato qualcosa di terribile.

***

Le pesanti nubi grigie stavano lentamente coprendo la foresta, immergendola in un’atmosfera tetra e lugubre. Era giorno, e da qualche parte il sole brillava in tutta la sua splendida luce, ma Larcon in quel momento non vedeva altro che le chiome degli enormi alberi che si univano tra loro, come le mani di un’enorme gigante che si raccoglievano in preghiera. Ancora più in alto, le scuri nubi vigilavano minacciose. Era bravo a seguire le tracce, perciò riusciva a stare dietro a Rash. Ma doveva trovarlo presto. Si stava inoltrando troppo nel cuore della foresta, e rischiava di perdersi e di vagare per sempre in quel posto infausto. Un lungo brivido gli attraversò la schiena all’idea.

Il pesante urlo di guerra echeggiò di nuovo nell’aria. Stavolta sembrava più forte, anche se per fortuna o sfortuna, doveva ancora deciderlo, distava ancora alcune leghe, a meno che il suo udito non gli facesse un brutto scherzo. Oramai non contava più il tempo. Era sicuramente più di un’ora che aveva abbandonato Galfred per inseguire Rash. Al pensiero del suo amico gli venne un groppo allo stomaco. Si chiese se era restato ad aspettarlo, oppure se avesse preso la via del ritorno abbandonandolo al suo destino. Iniziò a credere che dopotutto, non fosse stata una grande idea. Forse aveva agito impulsivamente, come suo solito, senza pensare alle conseguenze. Ma adorava Rash, per lui era più che un cane da compagnia. Era un amico fedele, uno di famiglia, con il quale aveva condiviso tanto nei sette anni che avevano vissuto assieme.

Quando i tamburi non suonavano, si accorse che un silenzio innaturale dominava quei luoghi angusti. L’aria permeava solo dei rumori del suo procedere, che svanivano nel cuore della boscaglia come un’onda che si perdeva lentamente nel mare.

I suoi pensieri furono interrotti da un suono familiare. Sentì alcuni rantoli, che era sicuro appartenessero a Rash. Era stanco, ma iniziò a cercare con rinnovato vigore, chiamandolo a gran voce. Sentì un debole latrato rispondere alle sue chiamate. Lo trovò accucciato a ridosso di un tronco, dove la catena del guinzaglio si era incastrata ad un ramo. Lo liberò, e Rash ringraziò il suo padrone, saltandogli addosso per leccargli la faccia.

“Torniamo a casa adesso”, disse Larcon mentre accarezzava forte Rash, felicissimo di averlo ritrovato.

Un boato di straordinaria potenza permeò di nuovo l’aria del suo macabro suono. Questa volta, sembrava spaventosamente vicino. E un antico, insano istinto di curiosità, si riaccese nel cuore di Larcon.

“Oramai sono arrivato fin qui. Tanto vale proseguire ancora un po’” pensò, e stavolta tenendo ben saldo il guinzaglio di Rash, proseguì nel cuore della foresta, come richiamato da una forza oscura e ipnotica. Spirali di nebbia iniziarono ad arrampicarsi lungo le falde dei colli. Le fronde degli alberi danzavano sospinti da un leggero venticello. Seguiva un piccolo sentiero erboso che serpeggiava tra gli alberi, che si andavano distanziando tra loro. Una stella solitaria fece capolino tra la coltre di nubi, per poi scomparire di nuovo. I rumori divennero sempre più forti. Il sentiero lo portò presso la sommità di un colle, che si ergeva sulla grande vallata. Era circondata al lato est dai boschi, mentre ad ovest si apriva uno strapiombo dove alberi maestosi si erano tagliati con forza il loro posto. Un grande fiume tagliava il paesaggio a metà, come  a voler separare due mondi. Più in là si ergeva maestosa una montagna nera come la notte, che sbucava dal terreno come un pugnale affilato puntato verso il cielo. Il suo cuore divenne di ghiaccio. Quella era la montagna di Urthan, un oscuro e antico relitto dimora degli esseri che servivano le forze oscure. Aveva sentito mille volte parlare di quelle terre, e mai nella sua vita aveva creduto che si sarebbe spinto fin laggiù.

A pochi chilometri di distanza da lui, un manipolo di soldati –o forse mostri, non riusciva a distinguere nell’oscurità- si era accampato per la notte. Sembrava che fossero in corso dei festeggiamenti. Il rombo dei tamburi ora echeggiava chiaro e forte nell’aria tetra di quelle pianure. Numerose fiaccole erano accese per diverse leghe, e Larcon capì che il numero era considerevole, ma non riusciva a quantificarlo. Poi vide dei fuochi che comparivano improvvisamente nell’oscurità, come richiamati da un antico potere, per poi spegnersi diversi metri più avanti, esibendosi in una spettacolare scia di luce. Questo avveniva ad intermittenza lungo tutto il perimetro del campo. Due fiamme incrociarono la loro strada per crearne una ancora più grande. Poi notò i lineamenti di grosse sagome che si muovevano in prossimità dei fuochi. Larcon aguzzò gli occhi, per cercare di perforare l’oscurità. Poi, una scia di fuoco gli mostrò la risposta. Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, lo avrebbe scambiato per un essere millenario immortalato per sempre in una posa di stupore, meraviglia, paura e gioia.

“Draghi! Quelli sono Draghi”. Ce n’erano almeno cinque. Gli ci volle un po’, ma quando mise da parte l’entusiasmo della scoperta, i suoi pensieri tornarono prepotentemente.

Era chiaro che era un esercito pronto per una battaglia. Ma per andare dove? Eppure non aveva mai avvertito sentori di una possibile guerra. O magari era un attacco a sorpresa per un’invasione? Chi poteva dirlo. Si chiese se avesse il dovere di avvertire l’esercito del re per quella scoperta.

I suoi pensieri furono interrotti dal cupo ringhio di Rash. Digrignava i denti, e puntava il suo sguardo ad ovest. Iniziò ad abbaiare più forte, e ad agitarsi come la volta precedente. Larcon impugnò la fune con maggiore forza, tentando di calmarlo. Poi udì un improvviso rumore di zoccoli. Spaventosamente vicino. Ebbe come la sensazione che il suo cuore avesse improvvisamente smesso di battere. Lo zoccolio di cavalli al galoppo risuonò nella sua testa più forte del rombo dei tamburi. Istintivamente si ritrasse dietro un albero, sperando di non essere stato troppo lento. Il fragore degli zoccoli sembrava avvicinarsi con rapidità disumana.  “Chiunque cavalcasse una strada tanto tortuosa con una simile velocità, non doveva essere di questo mondo”, pensò. Aspettò, la fronte imperlata di sudore.

Con uno strepitio assordante, decine di creature magnifiche, che Larcon aveva sentito nominare solo nelle leggende, sfrecciarono lungo il sentiero a pochi metri dal suo naso. Erano magnifiche. Metà cavallo, e metà uomini. Rash abbaiò forte al loro passaggio. Larcon cercò di tranquillizzarlo, per impedire che li notassero, ma troppo tardi. L’ultima creatura del gruppo arrestò improvvisamente la sua corsa, e si voltò verso di loro.

Larcon rimase impietrito, incapace persino di scappare, quando iniziò a risalire con velocità maestosa il pendio che li separava. I poderosi muscoli si gonfiavano per lo sforzo della salita. Larcon cadde riverso a terra, mentre cercava di indietreggiare al suo arrivo. Quando il centauro arrivò in cima, svettava in tutta la bellezza selvaggia e possente mole su Larcon disteso a terra, e Rash che abbaiava forte senza timore. Era un esemplare magnifico. Alto più di due metri, i lunghi capelli argentei che ricadevano copiosi lungo la schiena dritta e possente. Il busto nudo mostrava i massicci muscoli della creatura. Delle profonde venature che sembravano voler uscire fuori dalla pelle a forza, gli ornavano gli occhi vitrei e freddi.

Il centauro fissò Larcon intensamente. Poi il suo sguardo si posò su Rash, che smise improvvisamente di abbaiare come ipnotizzato dal piglio magnetico della creatura. I suoi occhi fissavano quelli del centauro come se una forza antica e misteriosa avesse stretto un legame impossibile da contrastare. Sembrava che fosse in atto una conversazione silenziosa. Larcon era troppo spaventato per capire cosa stava succedendo. Improvvisamente però, Rash digrignò i denti e si posizionò tra lui e Larcon.

Il centauro sbottò in un ghigno malvagio, mostrando una schiera di denti aguzzi. I suoi occhi di ghiaccio, si spostarono lentamente verso Larcon. Rash ringhiò ancora più forte.

“Vrael”, una voce tuonò come un lampo a ciel sereno. Fredda e tagliente.

Il possente centauro si voltò improvvisamente verso la strada maestra. Larcon guardò in basso, e vide un altro centauro fermo sulla strada che fissava dalla loro parte. Non poteva dirlo con certezza, ma sembrava più imponente. Aveva una capigliatura scura. Sembrò avvenire un’altra conversazione silente. Vrael sbatté gli zoccoli a terra, in preda a delle imprecazioni in una lingua arcana che Larcon non comprendeva. Il centauro s’impennò sulle zampe posteriori prima di scendere velocemente il pendio, e riprendere il loro cammino. Le due creature scomparirono inghiottiti dalla curva del sentiero, diretti ad est.

Larcon fece un gran sospiro e si distese completamente a terra: “Non mi crederanno mai”, pensò.

Ma Rash, invece non sembrava voler perdere tempo. Si voltò verso il suo padrone, e lo stimolò ad alzarsi in tutti i modi. Poi iniziò a tirare la fune che Larcon teneva ancora stretta in mano. Evidentemente Rash, in seguito al contatto telepatico con il centauro, aveva assaporato le oscure sensazioni che brulicavano nel suo animo severo, e comprendeva cose che Larcon ignorava. Cose che lo spaventavano inesorabilmente, e gli intimavano di allontanarsi il più presto possibile da quei luoghi e di non farvi mai più ritorno.

***

Vander attendeva il suo “turno” seduto sulla panca di legno. Indossava solo un paio di pantaloncini. Sul petto era visibile la cicatrice a spirale, raffigurante lo strano amuleto marchiato a fuoco sulla sua pelle. Tutti gli altri erano già oltre la porta di ferro massiccio. Una guardia entrò, per portarlo verso il suo destino. Arrivò in una stanza enorme, completamente vuota. Sul fondo della stanza, un’ampia scalinata precedeva una grande porta di legno. Mentre si avviava lungo il corridoio, i suoi occhi si posarono su un bambino che se stava da solo in un angolo dell’enorme salone. Era circondato da sei maestosi lupi neri. Sembrava assorto nei suoi pensieri, ma un occhio più attento avrebbe notato che era nel mezzo di una conversazione con i lupi che lo circondavano. Quel bambino, o almeno questo era ciò che sembrava, si chiamava Salfirel. Vander si ricordava perfettamente di lui, anche se il loro incontro risaliva ad almeno due anni prima. I suoi pensieri vagarono in un giorno lontano, in una cella angusta e tetra. Da quel momento, cambiarono molte cose. Conobbe il suo legame con il drago di sangue, che un giorno sarebbe rinato per combattere le forze oscure, e comprese quale sarebbe stato il suo ruolo in quella vicenda. Sebbene, in realtà non gli fu dato possibilità di scelta, alla fine concluse che era il destino che avrebbe preferito in ogni caso. Quella “scelta”, se è così che la si voleva chiamare, lo aveva portato fin lì.

Quando Vander passò, Salfirel alzò gli occhi verso di lui. Si scambiarono solo un’intesa che non tradiva nessun sentimento. Poi Vander concentrò la sua attenzione sull’imponente portone davanti a se. Solo quella barriera di legno lo separava dai suoi dubbi.

Salì gli enormi gradini, la fredda pietra sotto i suoi piedi nudi. Le ante si spalancarono con un pesante cigolio dei cardini, mostrando a Vander uno spettacolo terrificante.

Delle file ordinate di alberi rinsecchiti, perfettamente distribuiti in modo da utilizzare ogni singolo angolo della fortezza, custodivano i corpi di centinaia di persone. Vi era un ordine sovrumano nel modo in cui erano stati distribuiti. Tutto sembrava al loro posto. I corpi degli uomini, erano cinti da profonde liane che sbucavano dagli alberi, come tanti frutti appesi alle loro piante in attesa di essere raccolti.

Vander alzò gli occhi al cielo e vide che le nubi aleggiavano cupe e minacciose sopra le loro teste. Era la giusta atmosfera per coronare quello spettacolo. Persino il sole si rifiuta di vedere un simile scempio, e mandava le nubi avanti affinché gli coprissero quel ripugnante spettacolo. Il terreno era ricoperto da un pavimento di pietra intarsiato da piccole finiture che s’intersecavano per tutto il campo. Una sostanza liquida rossa, scorreva lungo i piccoli canali, come una marea di minuscoli ruscelli che s’intrecciano per confluire insieme in un grande lago di sangue posto in fondo allo spiazzo. Il paesaggio era collinare. Si tuffava dinanzi a lui in una piccola valle, per poi risalire poco più avanti, e continuare così per diverse centinaia di metri, dove un’immensa piantagione di corpi umani si stendeva per tutta la valle. Il paesaggio era stato modellato da abili ingegneri, affinché tutto il sangue confluisse in un grande cunicolo, che aveva il compito di trasportarlo giù, nei piani sotterranei.

“Se fuori fanno questo, chissà cosa ci sarà li sotto”, pensò Vander con un moto di disgusto.

Si chiese quale folle mente aveva potuto concepire tutto questo. Non sapeva darsi una risposta.

Fu guidato attraverso degli stretti sentieri che servivano ai soldati per spostarsi tra i corpi. Ogni albero, alto circa due metri, era completamente secco e la corteccia nera come se fosse stato carbonizzato, teneva stretto un uomo, come lunghe dita scheletriche che avvinghiavano il loro bambino per tenerselo stretto.

Notò con orrore che i loro corpi erano dilaniati da tagli dove sgorgavano rivoli di sangue, che venivano assorbiti dalle liane intorno ai loro corpi, ed espulsi dalle radici nei solchi di pietra, per poi scomparire, più giù nella gola di una grata sul pavimento. Ora capì perché tutti i corpi dei soldati fuori erano pieni di tagli. Si chiese per quanto tempo un uomo poteva stare in quelle condizioni? Per quanto tempo poteva resistere a quella continua fuoriuscita di sangue, prima di cedere? Ora comprendeva perché avevano avuto tutto quel cibo il giorno prima di essere chiamati e il perché del vino. Il cibo serviva a mettere in forze il soldato, mentre il vino ad inebriargli il cervello a tal punto da accettare un simile destino, volontariamente.

Vide Tobran in lontananza, lo sguardo meno austero del solito. Persino per lui, tutto questo era troppo. Vander credeva che qualunque cosa si aspettasse, questa lo avesse spiazzato alla grande. Ma si sforzava di mantenere un tono fiero e deciso. Proprio in quell’istante un coltello gli recise la pelle sulla gamba destra, e un improvviso rivolo di sangue, sgorgò dal corpo di Tobran. Dalla sua bocca spalancata eruttò un terribile grido che echeggiò nel silenzio di quel luogo. Anche lui aveva iniziato a dare il suo contributo alla rinascita del drago di sangue.

Finalmente arrivò nel punto in cui doveva occupare il posto del suo predecessore. Salì su un rialzo di pietra, mentre la guardia andò con un bastone a solleticare la corteccia dell’albero. Come risvegliato da un profondo torpore, il tronco vibrò, e lentamente le liane iniziarono a solleticare il corpo di Vander, fino a che non strinsero completamente il suo corpo. Non sentì forza in quell’abbraccio, bensì un inaspettato senso di comodità, come se l’albero fosse consapevole di stringere un oggetto prezioso e delicato al tempo stesso. I suoi piedi si distaccarono di qualche centimetro dalla pietra, ed ora era sospeso nell’aria, nelle strette e sicure mani della pianta. Il soldato estrasse un pugnale da una fodera bianca, e con la punta tracciò una linea lungo la coscia destra com’era successo a Tobran. Inizialmente non provò nulla, poi un improvviso dolore gli rimbombò nella coscia fin dentro le orecchie. Non gridò, ma contro la sua volontà, un sussurro di dolore echeggiò nell’aria, unendosi al lamento di altri corpi che venivano recisi in  quel momento.

Si chiese se in fondo ne valesse la pena. Il suo scopo ultimo però, era più importante del suo dolore. Serrò la mascella, e fece vagare la sua mente lontano da quei luoghi, in momenti e tempi dove il dolore non poteva arrivare.

***

Larcon aveva corso per tutta la notte. Non era mai stato un tipo particolarmente atletico, ma lo spavento di qualche ora prima, aveva pompato nel suo corpo tanta energia da non fargli sentire la fatica. Doveva allontanarsi da quei luoghi maledetti, e aveva giurato a se stesso che mai più nella sua vita si sarebbe spinto oltre i confini di quella stramaledetta foresta. Ora il sole stava facendo capolino dietro le montagne, illuminando il languido e sconfinato paesaggio familiare delle sue terre. Iniziò a sentirsi finalmente al sicuro. Per una qualche strana ragione, credeva che quei mostri, dovunque stessero andando non erano diretti in quella direzione. Si accasciò al suolo, sfinito dalla fatica del viaggio. Anche Rash sembrava stanco, e si distese sull’erba ancora umida del primo mattino. I magnetici occhi di quella creatura turbinavano ancora davanti ai suoi, e il possente tamburo gli tuonava nella mente come se qualcuno lo stese suonando alle sue spalle. Non poté fare a meno di voltarsi, colto da un’improvvisa paura di essere stato inseguito dai centauri. Fece un sospiro, quando si rese conto che la sua mente stanca gli faceva dei brutti scherzi. Accarezzò Rash, che insolitamente non era allegro come sempre. “Evidentemente, quell’incontro aveva spaventato anche lui”, pensò Larcon, mentre lo accarezzava preoccupato. Rash tremava come se avesse freddo, ma non era freddo. Qualcosa nell’animo lo tormentava, come se dovesse sopportare un peso più grande di lui. Rispose alle carezze del suo padrone con un timido brontolio. Larcon era seduto a ridosso di un albero di pino. Un’improvvisa folata di vento, trasportò un odore di carne arrosto. Si chiese chi mai poteva cucinare a quell’ora del mattino. Si accorse di avere molta fame, non mangiava dal giorno precedente, ma era troppo stanco per fare qualunque cosa, persino di capire da dove provenisse. Voleva solo dormire. Si sforzò di restare sveglio. Si chiese se Galfred fosse già arrivato a casa. Non si pentì di non avergli dato ascolto, ma per poco non ci rimetteva le penne. Un pensiero lo sollevò; se fosse riuscito ad arrivare a casa, se si fosse fatto un bel bagno caldo, se avesse fatto un sonoro pranzo come non ne faceva da tempo, aveva una storia incredibile da raccontare. Nessuno al villaggio, ne era sicuro, poteva competere per esperienze fatte, alla sua.

Fece un gran sospiro e si alzò con rinnovato vigore, ma si bloccò improvvisamente, quando udì un possente rumore di zoccoli in lontananza. “Ci hanno inseguiti” pensò paralizzato dalla paura. Non sapeva cosa fare. In lontananza vide delle figure avvicinarsi rapidamente. “Questa volta è davvero la fine” pensò mentre slegava il collare di Rash affinché almeno lui potesse mettersi in salvo. I cavalli, o quello che erano si avvicinavano rapidamente. Sapeva di non avere scampo, anche se avesse tentato la fuga, lo avrebbero scorto di sicuro. Rimase fermo dov’era, ad attendere il loro arrivo. Il cuore gli martellava nel petto furiosamente.

Aguzzò la vista e fu sollevato nel vedere che si trattava di un gruppo di cavalieri. Erano dodici, e galoppavano a gran velocità verso sud, come spinti da una grande fretta. Quando videro Larcon, arrestarono la loro corsa, dipingendo un grande cerchio nel terreno per circondare l’uomo. Larcon rimase folgorato dalla bellezza di quei destrieri, e dal portamento dei loro cavalieri. Sembravano degli dei, immersi nella divisa nera e rossa, scesi sulla terra per vegliare sulla debole razza umana. Tre archi tesi pronti a scagliare le loro frecce erano puntati su Larcon. Non conosceva l’emblema raffigurato sulle loro divise.

“Chi sei, che ci fai qui da solo?”. A parlare fu il capitano dei soldati, con una divisa grigia ma di uguale pregio. Due profondi occhi scuri scrutavano Larcon da sotto l’elmo.

“Il mio nome è Larcon, signore. Sto tornado a casa. Sono di Darmyn. La notte scorsa mi sono avventurato in queste terre infauste per recuperare il mio cane Rash che era scappato. Ed ora sono sulla via di ritorno”, Larcon si stupì con se stesso del sangue freddo dimostrato nel non dare troppe informazioni, per evitare inutili domande. Dopotutto se erano nemici, non voleva dare informazioni su Galfred.

Il capitano lo squadrò dall’alto del suo destriero, con sguardo interrogativo: “Sono terre pericolose per viaggiare da soli”.

“Oh lo so, signore. Dopo l’esperienza della notte scorsa, non ci metterò più piede”.

“Quale esperienza?”, domandò il capitano con tono sospettoso.

“Dannazione”, pensò Larcon. Al diavolo il suo sangue freddo. Ora non aveva scelta, se non gli raccontava la verità avrebbero capito che mentiva, se invece glielo diceva, ed erano amici dei centauri, era finito. “Comunque sia, sono in dodici, e io sono solo. Se vogliono uccidermi lo faranno comunque”, sentenziò alla fine Larcon.

Così gli raccontò l’intera storia, da quando si era avventurato nel bosco in cerca di Rash, della vista dell’esercito e dei draghi, e dell’incontro con in centauri. Modificò solo alcune parti, come ad esempio, disse di aver trovato morto il capretto che era andato a cercare.

Il capitano ascoltò con attenzione il racconto di Larcon, poi ordinò ai suoi uomini di abbassare gli archi. “La tua è una storia interessante straniero. Devo credere alle tue parole?”.

Rash abbaiò forte a quella domanda, come se avesse compreso appieno la conversazione e si fosse offeso a quelle insinuazioni. Mostrò i denti aguzzi al capitano, che lo guardò con stentorea attenzione. Si appoggiò con i gomiti sulla sella del suo destriero, con gli occhi fissi su Rash, come a voler conoscere risposte nascoste. Larcon notò per la prima volta questo strano atteggiamento, poiché nella foresta la sera precedente, era troppo impressionato dal centauro per accorgersi di quello che accadeva. Il capitano si scostò sulla sella istintivamente, come mosso da un improvviso spavento, e il cavallo fece diversi passi all’indietro per poi riavvicinarsi al cerchio.

“Capitano, che succede?”, gli chiese un soldato. Gli archi di nuovo tesi, pronti a scattare.

Il capitano destò la sua attenzione dal cane. “Sei libero di tornare a casa straniero. Se ci tieni alla tua vita, sta lontano da questi luoghi in futuro”, disse, poi ordinò di rimettersi in marcia, e i cavalieri si allontanarono al galoppo, come sospinti da una rinnovata urgenza, figlia dell’incontro con lo straniero. Larcon li vide allontanarsi, e dubbioso se ritenersi fortunato o meno di come si era concluso l’incontro, decise di riprendere immediatamente la via di casa.

Quando stava per andarsene però, un nuovo sbuffo di vento trasportò nell’aria, quell’odore di carne arrosto. Di nuovo si chiese chi mai poteva cuocere della carne all’alba. Ma il pensiero immediatamente successivo, fu che l’avrebbe assaggiata volentieri. “Chiunque stia cucinando, deve essere nei paraggi”, pensò. Spinto dalla sua curiosità, e anche dalla fame, che oramai attaccava le sue membra con inaudita ferocia, lo spinsero a cercare la direzione di quell’odore. Dopotutto il viaggio verso casa, sarebbe durato ancora molto, e non sarebbe arrivato prima di sera. E lui non mangiava da quasi due giorni. Avrebbe messo volentieri qualcosa sotto i denti. Improvvisamente, a non più di cento piedi di distanza, vide del fumo salire dalle fronde degli alberi. Rash abbaiò, alla sua vista. Costeggiò il limitare della foresta, dirigendosi a passi lenti verso la fonte di quel succulento odore. Più si avvicinava e più l’odore di carne diventava forte. Arrivò nel punto desiderato, ma ora si rese conto di dover proseguire nel bosco per alcune centinaia di passi. Afferrò stretto il guinzaglio di Rash, e s’inoltrò di nuovo tra gli alberi. L’aria era satura del profumo dell’erba. Larcon riusciva a camminare perfettamente sul terreno privo di sottobosco. In quel punto, gli alberi crescevano distanti tra loro, dando a Larcon una visione chiara dei dintorni. Notò che, sebbene si fosse appena inoltrato nella vegetazione, sopra di lui già si stendeva una cupola di foglie sostenute da giganti tronchi nodosi. Dopo pochi minuti, sbucò nei pressi di una radura, dove il verde tappeto formava un vasto spiazzo, circondato dalle fronde degli alberi. Nel centro, ardeva un piccolo fuoco. Sopra di esso, legato con cura ad un bastone di legno appoggiato su due tronchi laterali, un animale era stato messo a cottura. La carne, stava acquistando lentamente un dolce colore d’orato, cosparsa da piccole gocce di grasso che colava dolcemente dal corpo dell’animale, diffondendo nell’aria un odore appetitoso. Aveva un’aria squisita. A Larcon venne l’acquolina in bocca, a tal punto da desiderare di andare e mangiarsi quell’animale anche mezzo crudo. Si avvicinò lentamente al fuoco, chiedendosi dove fosse la persona che lo avesse acceso. La risposta, non si fece attendere.

“Fossi in te, ci penserei molte volte prima di avvicinarmi a quell’arrosto. Può essere pericoloso”, disse una voce profonda, alle sue spalle. Larcon si voltò istintivamente e vide un vecchio che lo fissava. Aveva una tunica blu con un cappuccio, una corta barba scura gli copriva il volto, e due occhi saggi lo scrutavano attentamente. Impugnava un bastone ornato di strani simboli. “Mentre stai cocendo un tacchino del bosco di Arhen, devi tenere gli occhi bene aperti, poiché hanno l’abitudine di non morire fino a quando la carne non è ben cotta”, disse il vecchio avvicinandosi al fuoco, per controllarne la cottura. “Di punto in bianco, ti possono saltare addosso e pizzicarti a ripetizione. Ma se sopravvivi alla cottura, ti posso assicurare che la carne è buonissima. Ho sentito che una volta un uomo, ne stava cucinando uno, e per la fretta di mangiarlo non si assicurò di averlo cotto per bene, così una volta ingoiato, i pezzi di carne iniziarono a ballare dentro il suo stomaco all’impazzata. Ha passato un brutto quarto d’ora”, disse il vecchio mentre aggiustava con bastoncino il fuoco per controllare la fiamma.

“Mi stai prendendo in giro?”, chiese Larcon incredulo.

Il vecchio si voltò verso Larcon; due occhi penetranti lo fissavano da sotto le folte ciglia. Le sue labbra, lentamente, si distesero in un ghigno: “Dipende”.

“Dipende?”, ripeté meccanicamente Larcon.

“Già. Dipende”, disse il vecchio. Se ne stava con le gambe incrociate davanti al fuoco, rovistando nella tasca interna della sua tunica. Alla fine estrasse una pipa. “Se pensi che ti stia prendendo in giro, allora no, non ti sto prendendo in giro. Se invece pensi che non mi stia prendendo gioco di te, allora si, ti sto prendendo in giro. Dipende” concluse, mentre un leggero sbuffo di fumo usciva dalla sua pipa.

Larcon represse a stento una risata. “Questo tizio è davvero suonato” pensò tra sé. Fissava il vecchio con aria stralunata; iniziò a chiedersi se tutta quella storia fosse un sogno, o il frutto di qualche astuta stregoneria.

“Allora, pensi di sederti o vuoi startene in piedi come un allocco per tutto il giorno?”, disse il vecchio, fissando di nuovo Larcon.

“Non lo so, e se questo coso mi salta addosso?”, disse ironicamente Larcon.

“Se osa muoversi, gli do una sonora botta in testa e lo secco una volta per tutte. Questo tacchino sarà la nostra colazione, che gli piaccia oppure no”, disse il vecchio, sbuffando una nuvola di fumo.

In seguito Larcon, quando ripensò a quello strano incontro, non ricordò come mai, dopo le recenti disavventure, avesse dato retta ad uno sconosciuto, con una dubbia sanità mentale, nel pieno del bosco. Ovviamente, in fondo conosceva la risposta; “la sua maledetta curiosità”, come la definiva lui.

Si sedette di fianco al vecchio, restando in ogni caso ad una distanza di sicurezza. La fame era tanta, e decise che non se ne sarebbe andato, senza prima aver mangiato. Rash si accucciò sulle gambe di Larcon. Gli occhi fissi sul tacchino. Notò che non tremava come prima. Questo rassicurò un poco Larcon. Se il suo cane era tranquillo, lo era anche lui. Il vecchio fissò per un momento Rash, poi tornò al suo arrosto, arricchendolo con delle spezie aromatiche.

“Non mi sembra di aver compreso il vostro nome…”,chiese Larcon.

“Mavrog. È così che mi chiamano in queste terre”, rispose il vecchio, poi guardò Larcon e disse: “Io invece, conosco il tuo, Larcon Biriador. Lo conosco da quando tu e il tuo amico, l’altra notte avete varcato i confini di questa foresta. A proposito, t’interesserà sapere cosa gli è successo?”.

“Perché, che gli è successo?”, chiese agitato Larcon.

Mavrog fece spallucce: “Oh, assolutamente niente. È tornato a casa insieme ai suoi animali. Pensavo che volessi saperlo”.

Larcon fu felice di sapere che Galfred stava bene. Per quanto le parole del vecchio fossero attendibili, ovvio. Ed era proprio questo il punto. Poteva fidarsi di quell’uomo? O forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi e andarsene finché era in tempo.

Rash si alzò improvvisamente dalle sue gambe e si diresse verso Mavrog. Il vecchio era intento e tenere d’occhio il tacchino, quando Rash si avvicinò col muso, cercando la sua attenzione. Mavrog gli accarezzò dolcemente la testa. Larcon avrebbe voluto richiamare Rash vicino a sé, eppure per una qualche strana ragione non lo fece.

“Lo so, piccolo. Lo so”, mormorò Mavrog mentre accarezzava dolcemente Rash. Poi improvvisamente, le mani del vecchio si tesero come lunghi artigli ad un palmo dalla sua sulla testa. Il lineamenti del volto di Mavrog, si allungarono lievemente, gli occhi non più calmi e soavi, bensì arcigni e sgranati, come concentrati in un’antica lotta. Larcon assistette a quella scena inerte, incapace di dire o fare qualcosa. Poi le mani del vecchio si rilassarono di nuovo, e il suo volto tornò sereno come prima.

Anche Rash sembrava di nuovo tranquillo. Smise di tremare, e tornò sereno e felice come sempre. Era come se un pesante fardello si fosse improvvisamente tolto dalla sua anima.

Tutto questo accade nel giro di pochi istanti.

“Che cosa hai fatto?”, chiese Larcon preoccupato.

“Un favore a Rash. E lui ha ricambiato il favore mostrandomi come si sono svolti gli eventi. Devi ritenerti fortunato di essere ancora vivo. Non molti possono dire di aver incontrato i centauri Nabrryr ed essere sopravvissuti”.

“Come lo sai?”, chiese di nuovo Larcon frastornato.

“Mi sembra di avertelo appena detto. A quanto sembra, il tuo cervello se la prende piuttosto comoda”, ribatté asciutto Mavrog.

Larcon fissò Rash, tornato sulle sue gambe. Qualunque cosa fosse accaduta, era chiaro che Rash, adesso era sereno. “Tu sai cosa sono? I centauri intendo?”.

“Chiunque abbia un minimo di buon senso conosce quei mostri, e sta alla larga dai luoghi che frequentano. Ma a quanto vedo, la natura ha fatto le cose un po’ alla leggera con te”.

Larcon decise di ignorare il commento del vecchio. “Che cosa puoi dirmi su di loro?”.

“Quel nome, tradotto nella lingua corrente, significa spettri di sabbia. Hanno poteri mistici molto forti, e sono dotati di una grande capacità ipnotica. Il povero Rash ne sa qualcosa. Sono avversari pericolosi, fuori della portata di un uomo. Se mai avessi la sfortuna di incrociare di nuovo la loro strada, l’unico consiglio che posso darti, é di cantare una canzone allegra, ma solo nei tuoi pensieri. Non osare farlo ad alta voce. Non importa cosa canti, l’importante è che ti rievochi pensieri felici. Questo impedirà loro di penetrare nella tua mente. Ma alla prima occasione, scappa il più lontano possibile”.

Mavrog diede ancora un’occhiata al tacchino, alla fine decretò: “Finalmente la colazione è pronta; o forse nel tuo caso si dovrebbe parlare di pranzo, o cena, o magari tutte e due le cose”, disse allontanando la carne dal fuoco. Ne staccò un pezzo e lo porse a Rash, poi a Larcon, e infine ne prese uno per se. Larcon aveva una gran fame, e lasciò da parte ogni dubbio per addentare una coscia dell’animale. Il vecchio aveva proprio ragione. Quella carne era squisita. Anche Rash sembrava entusiasta del pranzo.

L’arrosto finì velocemente, divorato da Larcon e da Rash. Mavrog si limitò ad un pezzo del petto dell’animale, che nemmeno finì. Lanciò il resto del suo tacchino a Rash, poi riprese la pipa, soffiò qualche rivolo di fumo e fissò il fuoco come perso in ricordi lontani. “Ora che hai ricaricato le tue membra, ti narrerò una storia sorprendente, una storia che parla di un drago”, disse Mavrog.

“Le storie di draghi non sorprendono più al giorno d’oggi”, esclamò freddamente Larcon.

“Questa ti piacerà. Narra di un drago di sangue, e del suo cavaliere. Ma la cosa più interessante, è che appartiene ai nostri tempi, molto più di quanto immagini”.

“Un drago di sangue…” ripeté tra sé Larcon. Il vecchio aveva ragione. Per quanto Larcon era a conoscenza di molte vecchie leggende, questa non l’aveva ancora sentita. Accarezzò il pelo di Rash, e decise di ascoltare ciò che aveva da raccontare.

“Prima di iniziare però, ti avviso che è una storia che pochi conoscono; solo qui e oggi tu potrai udirla. Ma bada bene, non starò a spiegarti come e perché conosco certi avvenimenti. Ci saranno molte domande che reclameranno una riposta, senza mai riceverne. Non perché non possa, ma perché non ne ho nessuna voglia, stamattina. Se dovessi raccontarti l’intera storia, staremo qui fino all’anno venturo, e non saremo che all’inizio. Quindi tieni a freno la tua ingordigia di informazioni, e non fare domande inutili. Intesi?”.

“Intesi. Basta che ti muovi”, voleva dire Larcon, ma ciò che disse fu: “Intesi”.

Il vecchio distese un braccio, il dito indice, lungo e scheletrico, puntato verso est. Larcon seguì la direzione del suo indice.

“Quelle che vedi all’orizzonte, sono le antiche vette di Maal-Misar, o “Vette Sacre” come vengono chiamate nel linguaggio corrente. La mia storia inizia da lì.

Una notte di mezza estate di non più di un anno addietro, una compagnia formata da cinque membri, capitanata da un mezz’elfo di nome Salfirel, si addentrò nelle oscure profondità di quei monti. Scesero fin nelle sue viscere, dove pochi uomini avevano osato addentrarsi, sapendo di portare il peso di una grande missione. Da quando varcarono la soglia della prima grotta, ci vollero cinque giorni di cammino nell’oscurità, prima di arrivare a Minas-Tarmul, il luogo dove erano diretti. Inutile dire che il viaggio fu difficile e in parte pericoloso, ma il loro coraggio venne premiato dalla vista dell’enorme portone del tempio, alto più di cento piedi, che svettava dinanzi ai loro occhi in tutta la sua imponenza. Esso è la dimora di Imshaark, uno degli esseri più antichi che il mondo ancora ricordi. Poco di lui si sa nelle terre degli uomini, poiché il suo compito non ha nulla a che vedere con i problemi degli esseri umani. I suoi sudditi, le cui sembianze non sono mai state descritte in nessuna storia, sono amanti della terra, e non conoscono altra luce se non quella emanata dalle lanterne di cristallo che illuminano a giorno l’intera costruzione.

Il capitano della compagnia, appoggiò tre volte il suo bastone sull’enorme portone di pietra. Si spalancò, silente come una foglia che cade da un ramo per poggiarsi sull’erba. Le guardie, scortarono la compagnia attraverso sentieri di pietra e cunicoli che scavavano a forza la loro strada tra le imponenti muraglie. Le strade dell’intero tempio, erano illuminati da alti lampioni dove lucevano luminosi cristalli color oro. Una piccola oasi di luce nel deserto dell’oscurità. Dopo un lungo cammino, arrivarono nei pressi di un nuovo portone, di uguale fattura ma meno imponente del precedente; quando si spalancò, rivelò alla compagnia un’ampia scalinata di marmo grigio, che scendeva giù nel cuore della terra. Ad illuminare il cammino, vi erano due solchi di fuoco ai bordi della scalinata. Tutt’intorno il buio li avvolgeva in una stretta minacciosa, nascondendo agli occhi della compagnia costruzioni, precipizi, o la fredda pietra della montagna. La compagnia scese per diverso tempo, sempre più in basso, respirando l’alito gelido che saliva dalle viscere della terra. Di tanto in tanto, la scalinata curvava, per poi continuare dritta. Occasionalmente, un manipolo di guardie, appostate su uno spiazzo ai bordi della scalinata, scrutava con occhi attenti le fitte tenebre. Non si voltavano nemmeno verso i visitatori quando gli passavano accanto, come se non gli importasse altro che il mare di oscurità dinanzi a loro. Dopo aver sceso per un tempo incalcolabile, videro dei fuochi baluginare più in basso. Da lì sembrava un’isola di fuoco sospesa nel vuoto.

Ancora un’enorme portone, intarsiato di rune antiche e simboli arcaici, si stagliava dinanzi alla Compagnia. Quando si aprì, mostrò loro una sala immensa. Delle colonne enormi svettavano verso l’alto sorreggendo l’enorme soffitto a cupola, talmente alto da riuscire a stento a vederlo. Il rumore dei loro passi echeggiò nella sala, percorrendo lo splendido pavimento di pietra nero con scanalature argentee. La compagnia si dirigeva verso i sette gradini in fondo alla sala, dove svettava imponente un enorme trono di pietra, anch’esso nero, tanto da sembrare un’eruzione del pavimento stesso. La sala era deserta, ma la compagnia sapeva che nell’oscurità, occhi vigili e attenti ne controllavano il lento procedere. Quando furono vicino al primo gradino, si fermarono. Il trono era vuoto. Il mezz’elfo che capitanava il gruppo, salì i gradini per fermarsi sul penultimo. Fissava il trono vuoto, come un bambino fermo di fronte ad un gigante di pietra. Lo fissava immobile, poi improvvisamente lanciò un grido che echeggiò sinistro nell’immensa sala sotterranea. Un attimo dopo, un vortice di nebbia scura, iniziò a vorticare in prossimità del trono, formando via via una grande ombra, che raffigurava una pallida imitazione di un corpo umano; solo immensamente più grande.  Sebbene fosse evanescente, pareva incarnare i secoli; un antico potere sembrava sprigionarsi dalla sua figura, come una manifestazione concreta dei tempi remoti. Due occhi vuoti, come pozze di tenebra, fissavano il mezz’elfo, dall’alto del trono di pietra. Ma Salfirel non sembrava per nulla intimorito.

In seguito ad una lunga e difficile trattativa, che non sarà mai rivelata, Imshaark donò al mezz’elfo, un oggetto molto prezioso; esso era il simbolo di una speranza per il mondo intero. Si trattava di un amuleto molto potente, in grado di domare una creatura leggendaria, che non solcava i nostri cieli dai tempi dei tempi. Il suo nome è Vudrokan, e si tratta del leggendario drago di sangue. Esso non è un drago qualunque. Per aspetto e stazza potrebbe sembrarlo, ma è un’arma talmente potente da far impallidire un esercito dell’oscuro signore. La sua forza micidiale, deriva dall’arcano incantesimo che bisogna conoscere per liberarlo dalle catene del tempo; è una procedura che molti hanno rinnegato, poiché ritenuta oltraggiosa per la persona umana, ma necessaria per conferirle la sua antica forza. Fu una creatura creata attraverso il sangue di migliaia di corpi, ed è così che dovrà essere richiamata. È l’unica procedura possibile, per conferirle la sua antica forza.

Ora, la cosa più interessante di questa storia, e che a poche miglia da qui, in un luogo recondito del reame di Toomfast, si stanno svolgendo i preparativi per richiamare quell’antica creatura. A breve, tutto il mondo sentirà di nuovo parlare di Vudrokan, il drago di sangue”. Il vecchio, creò una densa nuvola di fumo, poi disse: “Questo è tutto”.

Se Larcon non avesse vissuto le sue ultime avventure, avrebbe già deriso Mavrog per le scemenze che andava blaterando. Ma qualcosa gli diceva che non erano affatto stupidaggini. “Perché mai si dovrebbe richiamare questo drago di sangue?”.

“Perché il mondo ne ha bisogno. La guerra sta arrivando; gli oscuri meccanismi del Nemico si sono messi in moto. Bisogna prepararsi ad affrontare tempi difficili. La maggior parte delle persone dell’Impero, credono che stiamo vivendo un’epoca felice, che durerà per sempre, ma non sarà così per molto. La Torre Bianca, si sta dimostrando insufficiente contro le armate del Nemico; poiché esso ha sperimentato angoli della magia oscura, che gli hanno rivelato poteri al di là di ogni immaginazione. Il re è un grande sovrano, saggio e giusto, ma ha di fronte un nemico troppo potente”.

“Mi è difficile crederlo. Dovunque non si fa che elogiare il re per come tiene a bada le forze dell’ombra”.

“Che cosa pensavi? Che l’Impero fomentasse la paura tra il suo popolo ancor prima del tempo? Il fatto che il re di questi tempi sia alla Torre Bianca a guidare personalmente le sue truppe, dovrebbe farti capire molte cose. Ciò che hai visto l’altra notte, è la prova che il re sta perdendo il controllo sulle sue terre”.

“Se deve essere un segreto, perché lo stai dicendo a me?”, chiese Larcon sospettoso.

Mavrog, spense la pipa e la ripose nella tasca della sua tunica. Fissò Larcon con sguardo penetrante, poi disse: “Perché quando il drago di sangue solcherà di nuovo i cieli, tu avrai il tuo ruolo da giocare in questa faccenda”.

Larcon scoppiò a ridere: “Io… ma per favore. Le mie braccia sono fatte per coltivare la terra, non per maneggiare una spada”.

“Può darsi”, rispose Mavrog. “E chissà che non sia questa, la tua arma più affilata”. Mavrog non diede modo a Larcon di rispondere, poiché si alzò di scatto discendo: “Ora è tempo di andare. Il tuo viaggio verso casa è ancora lungo, e farai bene a incamminarti se vorrai arrivare prima di sera”. Mavrog stava buttando della terra sul fuoco per spegnerlo.

“Non puoi andartene così. Dopo ciò che mi hai appena detto”, disse Larcon indispettito da quel suo improvviso atteggiamento.

“Come ti ho avvertito, ci sono domande che non troveranno risposta. Almeno, non oggi”.

“Aspetta, una almeno me la devi concedere”, insistette Larcon.

Mavrog lo fissò per un istante, poi disse: “E sia. Ma che non sia più di una”.

“Quando hai parlato di Vudrokan, hai detto che il drago rinascerà dal sangue umano. Ebbene, io ti chiedo che cosa spingerebbe un uomo a concedere il suo sangue per risvegliare il drago?”.

“Molte cose. Il dovere militare che lo obbliga ad eseguire gli ordini. La consapevolezza di contribuire ad una grande causa, cercando di donare al re l’arma per fronteggiare il nemico. Senza contare che c’è un premio finale”.

“Un premio?”, chiese incuriosito Larcon.

“Corre voce che uno, tra coloro che avrà donato il suo sangue volontariamente, diverrà il suo cavaliere. Quell’uomo entrerà nella leggenda. Molti cavalieri dei draghi esistono al giorno d’oggi, ma quanti possono dire di aver cavalcato un drago di Sangue? È un po’ come vincere alla lotteria. Personalmente, credo siano solo dicerie. Un’astuta strategia per incoraggiare più soldati possibili a donare il proprio sangue. C’è qualcosa che mi dice, che il drago di sangue ha già il suo cavaliere, e quando risorgerà lo andrà a cercare”.

Così dicendo, Mavrog raccolse il suo bastone, e assicurandosi che il fuoco fosse completamente spento disse: “Ti auguro una buona giornata”. Senza aspettare risposta, si diresse fischiettando verso gli alberi, scomparendo nel fitto della vegetazione.

Larcon restò a guardarlo, fino a che non udì più alcun rumore. Si chiese se era davvero il caso di prendere sul serio le parole di quel vecchio. Decise che ci avrebbe pensato in un altro momento. Accarezzò Rash, e insieme s’incamminarono verso casa. Se non altro, aveva fatto un buon pasto.

Per quel giorno, e per chissà quanto tempo, concluse, ne aveva abbastanza delle avventure.

***

Il generale Naugir strinse forte i pugni, tanto che le nocche diventarono bianche. Fissava l’uomo dinanzi a lui, con una forte preoccupazione in volto. “Ne sei proprio sicuro, Volgar?”.

“Amico mio, conosci fin troppo bene le mie capacità per farmi una simile domanda”. L’uomo aveva un tono calmo e sicuro. Fissava il generale con due penetranti occhi scuri. Una barba curata gli copriva il mento. Indossava un’armatura grigia e nera, di pregevole fattura. Si trovavano in una stanza della torre che sovrastava la fortezza. Era una sala scarna. Gli unici arredi erano un tavolo di pietra al centro della sala, e otto sedie disposte intorno. Volgar ne occupava una. Naugir invece, era in piedi vicino alla finestra. Si voltò per affacciarsi all’esterno. Riusciva a vedere una parte dell’accampamento dei soldati. All’orizzonte, incombevano minacciose delle pesanti nuvole grigie. Era in arrivo un temporale. Chissà di quale natura. Nella stanza, oltre a loro vi erano altri due soldati, uno dei quali era un sergente. Un uomo fidato del generale Naugir.

Nella notte dodici soldati avevano varcato il portone della fortezza, per chiedere un incontro urgente con Naugir. Il generale li stava aspettando. Era stato proprio lui ad affidarsi a loro per conoscere gli spostamenti del suo nemico. Mai aveva immaginato però, che gli portassero una simile notizia. Volgar gli aveva raccontato dell’incontro con lo strano viandante, ma Naugir fu sorpreso che la vera notizia l’avesse appresa dalla mente di un cane. Conosceva le qualità telepatiche del suo vecchio amico, e si fidava di lui. Per questo non dubitava della sua parola.

“Quanto tempo abbiamo?”, chiese il generale Naugir, con un  tono che no tradiva la sua ansia.

“Da quello che ho scorto, intendono attaccare molto presto. Credo tra stasera o domani”, il capitano si avvicinò al generale. “Vogliono fermare l’operazione. Ma non è tutto. Un esercito di Goblin si e mosso dalla nera montagna, con tutta probabilità diretto verso La Torre Bianca. Credo vogliano attaccare il re alle spalle, mentre è impegnato a respingere un altro attacco”.

“La situazione è molto più grave di quanto credessi. Quanti sono? Pensi che possiamo intercettarli con una milizia?”.

“Sono troppo numerosi. Ma non è questo il pericolo maggiore”, disse Volgar.

Il generale si voltò verso Volgar, gli occhi carichi di tensione. “Che c’è ancora?”, esclamò allarmato..

“Draghi, Naugir. Almeno cinque”

“DRAGHI. Come fanno dei Goblin a governare dei draghi?”.

“Non lo so. Il re può respingere qualche Goblin succhiasangue. Ma con i draghi è tutta un’altra storia”.

Naugir sbatté i pugni sul davanzale della finestra: “Questa non ci voleva. Sergente”.

“Si, generale?”.

“Manda un messaggero ad avvertire il re della nuova minaccia. Poi raduna gli stregoni. Daremo inizio al rito oggi stesso”.

“Ma… non siamo ancora pronti generale”, obiettò il sergente.

“Non le ho chiesto se siamo pronti, sergente. Il tempo non è più dalla nostra parte. Esegui i miei ordini. Immediatamente”.

Naugir aspettò che il sergente uscisse dalla stanza, insieme all’altro soldato, prima di rivolgersi a Volgar. “Tu cosa farai, amico mio. Ho bisogno di tutto l’aiuto possibile”.

“Naugir, mi conosci da troppo tempo per non capire quanto io non approvi ciò che sta accadendo tra queste mura. È una cosa che va al di là della concezione umana. Ma se vuoi che rimanga, devo sapere tutto quello che sta succedendo”.

“Sai che fu una decisione presa dal re. E sinceramente non mi sento di biasimarlo. In questo momento sta difendendo la Torre Bianca con tutto l’esercito che gli rimane. Se cadrà non ci sarà più scampo. Quello contro cui stiamo combattendo richiede un’arma adeguata alla sua potenza. Non c’è più il tempo di pensare a cosa è giusto o sbagliato. Ma a cosa è meglio fare per sopravvivere”.

“Anche se il prezzo è così alto da pagare?”.

“Gli abbiamo dato l’occasione di offrirsi volontari per questa prova. Io stesso versai la prima goccia”, disse alzandosi la manica per mostrare l’avambraccio pieno di tagli ormai cicatrizzati. Sembrava che la sua pelle fosse formata da tante piccole righe. “Non puoi chiedere un sacrificio senza prima sacrificarti”, concluse il generale.

Il capitano si allontanò dalla finestra. Girò intorno al tavolo, picchiettando col pugno sulla fredda pietra. “Un drago che risorge dal sangue umano. Devo ammettere che l’idea è geniale, per quanto sadica. Difficile pensare che l’abbia concepita una mente umana. Dunque è così che il re vuole difendere il suo popolo?”. Nel tono di Volgar c’era molto sarcasmo.

“Come ti ho detto, all’inizio ci siamo posti l’obbligo di accettare l’aiuto solo di coloro che si offrissero volontari per questo compito. In questo modo, ritenevamo anche che il drago sarebbe stato più facile da domare”.

“Teoria interessante. Ma poi cos’è successo?”.

“Sfortunatamente i volontari erano troppo pochi, e poiché le tecniche studiate portavano solo alla massima donazione di sangue che un uomo potesse concedere, senza che corresse gravi rischi, ci siamo resi conto che andavamo a rilento. Così siamo stati costretti ad imporre ai nostri soldati il loro contributo”.

“Dunque siete tornati al punto di partenza. Il drago rinascerà dal sangue tirato con la forza”.

“Che cosa potevamo fare? L’oscuro potere stava acquistando troppa forza, mentre sprecavamo tempo a difendere le nostre terre con la spada” .

“Così siete diventati voi i mostri”.

“Abbiamo aperto le porte ad una speranza”.

“Con il sangue dei tuoi uomini”.

“C’è anche il mio sangue, per diamine”, disse Naugir sbattendo forte i pugni sul tavolo, gli occhi colmi di un’ira repressa. “Se sei qui per farmi la predica puoi tornartene da dove sei venuto”.

Il capitano gli allargò un sorriso sghembo per tutta risposta. “Da quando tempo non combatti, vecchio scemo?”.

Il generale Naugir mosse le labbra in ghigno.

“Prego per l’anima di quel povero diavolo che incrocerà la tua spada”, disse il capitano girando intorno al tavolo. “Come ti ho detto, non condivido la scelta del nostro re, è una prova disumana quella che avete sottoposto ai vostri soldati, ma non abbandonerò un vecchio amico nel momento del bisogno. Volevo capire fin quando credevi in questa missione. Quando metto in pericolo i miei uomini, devo sapere se ne vale davvero la pena”.

Il generale si eresse in tutta la sua statura imperiosa. Fissava Volgar con uno sguardo fiero.

“Affila la spada, generale. Tra poco ci sarà da divertirsi. E poi questa… non  me la voglio proprio perdere”, disse con un ghigno.

Il generale Naugir venne informato che i preparativi erano finalmente pronti. Scese nei sotterranei insieme al capitano Volgar.

“Tutti i soldati sono in allerta. Se attaccheranno, non ci coglieranno di sorpresa”, disse il generale, mentre scendevano le scale.

Quando arrivarono nella sala sotterranea, il capitano Volgar si trovò di fronte uno spettacolo surreale.

Un’immensa sala di pietra, larga centinaia di metri, ospitava un’enorme voragine che si propagava nelle viscere della terra, occupando con prepotenza il centro della sala. Il capitano ebbe modo di notare che il sangue che veniva sottratto dai corpi dei soldati, confluiva nel pozzo, come un ruscello che precipita da un’alta rupe per tuffarsi nel lago sottostante. Delle profonde tacche erano state segnate all’interno del pozzo, come per indicare il livello del suo contenuto. Il capitano si sporse, e vide una profonda melma rosso cupo, che arrivava quasi al bordo. Ancora due tacche e avrebbe raggiunto il limite massimo. Nonostante fosse un uomo di battaglia, abituato alla vista del sangue, riuscì a stento a trattenere un conato di vomito. Non aveva mai visto una cosa simile, né nella sua più fulgida immaginazione, aveva mai concepito un simile scempio. Due archi univano i lati del cerchio. Si intersecavano al centro dove in una grande brocca baluginava un fuoco verde.  La sala era gremita di gente. Vi erano decine di maghi e stregoni dalle lunghe barbe, che si scambiavano le ultime indicazioni. Era evidente che nell’aria ci fosse una forte trepidazione per l’attesa oramai giunta agli esiti finali. Ancora poco, e avrebbero saputo se tutti i sacrifici di quei soldati sarebbero serviti  a qualcosa.

Una figura più piccola, se ne stava in un angolo, dove la luce delle torce appese lungo le pareti di pietra non riusciva ad arrivare. Notò che sei lupi neri, gli stavano accanto, come attente sentinelle pronte a scattare al minimo pericolo. Il capitano si chiese chi fosse, e come mai un bambino era presente in un luogo simile. Si chiese che cosa avrebbe pensato il popolo, se avessero saputo che il loro re, l’eroe che si vantava di difendere la patria contro i poteri dell’oscura minaccia, torturasse in segreto i suoi soldati, mungendo il loro sangue per poter evocare un’antica creatura rinchiusa da secoli in un luogo arcano, lontano dalle comprensioni della mente umana.

Il suono acuto di un tamburo echeggiò nella sala, infrangendo di colpo i suoi pensieri. Il rumore risuonò come un antico richiamo proveniente da un luogo recondito della realtà. Era il segnale. Il rito stava iniziando.

Sei uomini si disposero lungo il perimetro del cerchio. Impugnavano dei lunghi bastoni di diverse tonalità. Ognuno era adornato di strani simboli. Come mossi da una stessa mano, i sei stregoni batterono contemporaneamente il bastone sul pavimento, e il tamburo cessò il suo suono.

Il bambino che se ne stava tranquillo in un angolo celato della sala, si avvicinò all’enorme pozzo. Indossava una tunica rossa sopra i suoi vestiti. Non doveva essere alto più di un metro e cinquanta. Quando si avvicinò, il capitano lo osservò meglio. Notò che aveva le orecchie a punta, e una capigliatura riccia e argentata. Gli occhi verdi, non lasciavano per un attimo il pozzo di sangue. Sembrava incredibilmente concentrato.

Poi capì. Sarebbe stato lui ad eseguire il rito, o qualunque dannata cosa stessero per fare. Ma come poteva. Era solo un bambino. Non doveva avere più di dieci anni. Ancora una volta, quella situazione lo spiazzò. Affidare un compito di simile portata nelle mani di un bambino, gli sembrava una cosa stupida e insensata, nonché perversa.

“Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Il suo aspetto tradisce la sua età. Non conosco nessun altro che vorrei al suo posto in questo momento”, disse un uomo al suo fianco, probabilmente un alchimista. Evidentemente il suo sguardo tradiva le sue emozioni.

Decise di darsi un contegno e di concentrarsi sul rito.

Il bambino, o così sembrava, s’incamminò sull’asse che partiva dal bordo del pozzo per dirigersi verso l’enorme brocca al centro della voragine. Sotto di lui, un lago di sangue. Era una scena indescrivibile. Quando arrivò all’enorme brocca dove ardeva vivida una fiamma verde, il bambino allargò le braccia, chinò la testa all’indietro, e con gli occhi chiusi iniziò a pronunciare delle parole incomprensibili. Gli stregoni rispondevano a loro volta. Con una sincronia eccezionale, gli stregoni impugnarono decisi i loro bastoni, per puntarli tutti verso la vampa verde. Quando tutti e sei i bastoni ardevano alla punta della stessa fiamma, li immersero nel sangue. Un istante dopo iniziò a bollire, come se fosse un enorme pentola posta sopra una grande fiamma sotterranea. Il bambino alzò lievemente il tono di voce nel pronunciare i suoi arcani incantesimi. Per la prima volta il capitano udì la sua voce. Gli si rizzarono i peli della nuca nel sentire un timbro tanto rauco e profondo uscire dalle labbra di quello che sembrava essere un fanciullo. Poi, improvvisamente il bambino tacque. Aprì gli occhi, e diede un poderoso calcio alla brocca, facendola precipitare nel pozzo di sangue, che la inghiottì come una bocca famelica che non aspettava altro se non il suo spuntino.

Improvvisamente avvertì un suono sordo provenire dai piani superiori. Sembrava un’esplosione. Un’intesa silenziosa con i suoi uomini fece scattare due soldati fuori della stanza per andare a vedere cosa stava accadendo.

Quello era il secondo giorno per Vander. Non sapeva esattamente quanto sangue avesse versato, ma il suo corpo oramai era pieno di piccoli tagli. Sembrava un uomo dalla carnagione rossa. Pensò che persino un orco, se lo avesse visto in quello stato sarebbe fuggito via senza nemmeno provare a combattere. Il cielo era sempre più scuro. Le nubi s’infittivano sempre di più, tanto che non riusciva più a distinguere se fosse giorno o notte. Numerosi soldati erano appostati lungo tutto il perimetro, mentre altri girovagano tra i corpi appesi, come un contadino fa il giro del suo orto per vedere che tutti i frutti stessero crescendo bene. Di tanto in tanto un soldato recideva con un taglio la carne di un mal capitato. Un timido eco delle urla viaggiava nell’aria, per poi spegnersi in lontananza. Guardò verso Tobran, quattro file più in là. Il suo corpo era sporto in avanti, la testa china. Non riusciva a vedere il suo volto, ma immaginò che stesse dormendo. Era un uomo nato per la battaglia. Di sicuro era uno dei pochi a resistere a quella strenua situazione, ma poteva immaginare la sua delusione. Quando il generale Naugir convocava i soldati ancora ignari degli eventi, si esibiva in un discorso magistrale, mirato ad invogliarli ad aderire al compito convinti che avrebbero contribuito ad una causa grande quanto il mondo intero. Forse si aspettava di combattere qualche drago, o un manipolo di Goblin a mani nude. Non certo di restarsene appeso come un salame, ad aspettare che un albero succhiasangue lo privasse lentamente di tutte le sue energie. Distolse i suoi pensieri da Tobran, e notò alcuni soldati sul fondo, che non riconobbe. Avevano delle armature nere, con degli ornamenti rossi, dello stesso colore dei loro mantelli. Non sapeva dire a quale casato appartenessero, ma erano più imponenti degli altri soldati. Aleggiava una silenziosa inquietudine. Come se qualcosa li mettesse in allerta. Capì immediatamente il perché.

La quiete di quel luogo sepolcrale, venne interrotta da un’improvvisa esplosione provocando un’apertura nello spesso muro di pietra. Ombre di una sostanza irregolare, si riversavano improvvisamente all’interno della fortezza, come un flusso d’acqua fuoriesce da una crepa nel condotto. Sembrava sabbia, ma non ne poteva essere sicuro da quella distanza. Poi gli esseri iniziarono a prendere lentamente forma, i lineamenti dei loro corpi da cavalli si componevano agli occhi dei soldati. I maestosi centauri si mostrarono in tutta la loro ferocia. I soldati si trovarono a fronteggiare una minaccia sconosciuta.

Il capo centauro, affrontò il primo soldato, lo disarmò e lo stordì con una sonora botta in testa. Non erano lì per uccidere. “Ricordate. Frenate i vostri istinti di morte. Liberate i corpi e null’altro. Non versiamo altro sangue”, sentì il bisogno di rammentarlo anche ai suoi compagni.

Vrael gli rispose con un sonoro disgusto sul volto, ma eseguì gli ordini del suo comandante. Si diresse verso le scale che portavano ai sotterranei.

Nonostante la distanza, Vander ebbe un sussulto. Riconobbe immediatamente gli aggressori. Erano Nabrryr, o spettri di sabbia come venivano chiamati nella lingua comune. Si trattava di una razza molto antica e potente. Avevano la grande facoltà di tramutare il loro corpo in sabbia, questo gli permetteva di passare inosservati, quando ne richiedeva l’esigenza. Ma a quanto pareva, potevano utilizzare quella magia solo per spostarsi, o sfuggire ad un attacco. Poiché per combattere, dovevano riprendere la loro forma originale.

I centauri tagliarono velocemente i tronchi d’alberi che tenevano legati i corpi, e li scaraventavano fuori della cerchia di pietra, cosicché nessuna goccia di sangue potesse più alimentare quell’insana avidità. Avevano una forza poderosa, e nessun soldato riusciva a contrastarli in combattimento. Nessuno si era accorto all’esterno della lotta che si stava consumando dentro la fortezza. Quelle mura erano state progettate per far si che all’esterno non arrivasse nulla dello strazio, e delle urla che avvenivano all’interno. Ironia della sorte, per la stessa ragione rischiavano di perdere il conflitto. Nessuno sarebbe arrivato in loro soccorso, perché nessuno li avrebbe sentiti. Nemmeno se tutti i cadaveri viventi che stavano in quel buco urlassero all’improvviso con tutto il fiato che ancora gli rimaneva in corpo.

Vander assisteva immobile a quello spettacolo straordinario e devastante al tempo stesso. Conosceva la battaglia. Aveva affrontato nemici di straordinaria forza, ma doveva ammettere che vedere un centauro combattere era uno spettacolo impressionante. I possenti muscoli del corpo si gonfiavano per lo sforzo, mentre sollevavano alberi interi per scagliargli metri più in là.

Un improvvisa vitalità riemerse dalle sue viscere assopite, e cercò invano di liberarsi. Più si avvicinavano e più il suo cuore batteva all’impazzata. Conosceva gli spettri sabbia, e ancor più la loro ferocia sanguinaria. Non erano venuti per fermare quell’abominio, ma per fermare l’evocazione del drago, ne era sicuro. Una volta compiuto il loro dovere, li avrebbero sterminati comunque. Se l’oscuro potere aveva dalla sua parte esseri di una simile portata, forse iniziò a condividere l’idea dei suoi generali, forse le sofferenze di tutti quegli uomini erano necessari, perché solo con un drago sanguinario dalla loro parte potevano avere una speranza di vittoria. Si chiese come si era potuto arrivare a quel punto.

Vander cercava ancora invano di liberarsi, ma i centauri menavano falcate a destra e a manca, staccando i corpi dagli alberi come un macellaio taglia la carne per metterla in un angolo, in attesa di essere ultimata. Per giunta Vander era un elfo, la loro razza nemica per eccellenza. Se con gli altri avessero aspettato di portare a termine la missione, con lui avrebbero trovato una soluzione migliore. Più sbrigativa. Vander digrignò i denti per lo sforzo. “Non è così che deve finire” pensò, ma i centauri erano sempre più vicini.

Nello spiazzo, vi era una confusione infernale. Il tintinnio delle spade che cozzavano l’una contro l’altra, fece risvegliare Tobran dal suo torpore. Sembrava che fosse arrivato lì in quel momento. Un famelico desiderio di combattere s’impadronì del suo corpo. Si agitava furiosamente per cercare di liberarsi, ma anche lui non vi riuscì.

Dalle scale che portavano ai sotterranei, due soldati comparirono sul campo di battaglia, le spade sguainate per bloccare l’ingresso ai centauri. Immediatamente corsero a dare man forte ad altri soldati già impegnati nell’arduo compito. Nonostante gli sforzi il centauro dalla capigliatura argentea, sconfisse il suo avversario, e si tuffò lungo la scalinata scomparendo alla sua vista. Gli altri cinque centauri, stavano ancora combattendo contro i soldati.

Vander abbandonò quello scontro, per concentrarsi su quello che accadeva dinanzi a lui. Altrettanti centauri si stavano avvicinando rapidamente.

….

Il rito era in pieno svolgimento, ma il capitano in quel momento aveva il cuore in tumulto. C’era qualcosa che non andava. Il suo istinto glielo diceva, e il suo istinto non lo aveva mai tradito. Per giunta, nessun soldato tornava per riferire. Lasciò il bambino che stava versando una goccia del suo sangue nella voragine “Come se non ce ne fosse abbastanza” pensò, e si diresse con passo spedito verso l’uscita. Mancavano pochi metri alle scale quando un rumore di zoccoli lo bloccò. Il tamburo cessò il suono, segno che alle sue spalle stava succedendo qualcosa di importante, le voci dei presenti si fecero concitate, ma il capitano era concentrato sui rumori provenienti delle scale. Era come se un cavallo stesse scendendo lentamente, un gradino alla volta, come a voler assaporare ogni singolo passo di quella discesa.

Poi, dallo spigolo delle scale, apparve una figura maestosa, fiera, in tutta la sua potenza. Davanti a lui si stagliava un magnifico centauro dalla chioma argentea. Aveva una spada sguainata, la cui lama era avvolta in un liquido rosso, che colava sul pavimento durante la lenta ma micidiale discesa. Non riusciva a scorgerne il volto, poiché i capelli gli coprivano parte del viso. Quando vide il capitano che lo stava osservando si fermò. Alzò la testa, il suo ghigno malvagio ornava i suoi lineamenti sfociando in uno sguardo agghiacciante. Il centauro pulì la lama della spada con la lingua, assaporando il sapore del sangue misto all’acciaio, nelle sue più esili sfumature.

“Puoi decidere di non morire oggi. Non sei tu il mio obiettivo”, disse la creatura con un tono di voce freddo e pungente.

“Dimmi il tuo nome, così saprò cosa incidere sulla tua tomba. Se mai ne avrai una”, disse il capitano con il tono di voce che non tradiva il suo crescente nervosismo.

Il centauro fece un ghigno malefico. Era evidente che non aspettava altro che quella risposta. Aveva promesso di non uccidere, ma se qualcuno glielo chiedeva in quel modo, come fare a rifiutarsi?

Fece roteare la spada in cerchio, e iniziò a scendere gli ultimi tre gradini che lo separavano dal suo avversario. Con un veloce fendente si avvicinò al capitano, che con pronti riflessi parò il colpo. Era violentissimo, tant’è che Volgar temette che il braccio si potesse spezzare per l’urto. Fece scivolare la lama sulla spada del centauro, e si liberò della presa. I due giravano in tondo, per studiarsi. Il capitano capì subito che quello era uno scontro impari. La creatura, di una bellezza terrificante, stava giocando con lui come un predatore gioca con la sua preda, sicura di averla in pugno. A pochi metri da loro, ma sembrava in un’altra epoca, in un altro continente, il rito si stava concludendo, e qualcosa d’importante stava accadendo, ma il capitano non poteva voltarsi per vedere cosa. Il sibilo di una freccia attirò la sua attenzione, ma a pochi passi dal centauro cambiò improvvisamente direzione come se una volontà innaturale le avesse impartito un ordine diverso. In soccorso del capitano arrivarono altri tre soldati. Iniziò un veloce e violento scontro. Il centauro sembrava tener testa tranquillamente a tutti. La velocità con cui si difendeva e contrattaccava era sorprendete. Era un poderoso guerriero. Come mai il capitano ne aveva affrontati. Come se non bastasse utilizzava la magia. Non una volta schivò un affondo di Volgar con velocità disumana lasciando una scia di sabbia nell’aria. Il centauro afferrò un soldato per il collo, lo alzò con la sola mano sinistra ad un metro da terra, e gli conficcò la spada nel petto. Poi lo lasciò cadere a terra privo di vita. Ne uccise un altro con un veloce fendente, dopo che aveva parato un suo colpo. Un altro morì per via di un potente fulmine blu e argento che fuoriuscì dal palmo della sua mano.

“Siamo di nuovo noi due”, disse il centauro con un ghigno malvagio.

Era chiaro il suo scopo. Aveva ucciso di proposito tutti i suoi soldati, per dimostrargli che era un guerriero formidabile, e che non sarebbe morto per mano di uno stolto. “Gentile da parte sua”, pensò Volgar.

In quel momento arrivarono altri sei centauri. Dovevano impedire che il rito fosse portato a termine. Si diressero verso il pozzo, ignorando completamente Vrael e il suo antagonista.

Come comandati da una volontà innaturale, i soldati si disposero in posizione difensiva, le armi sguainate pronte a respingere le creature.

“Difendete il ragazzo elfo. A qualunque costo”. Un urlo di guerra echeggiò nell’intera sala, sovrastando qualunque altro suono. Era la voce del generale Naugir. I sei lupi neri si disposero intorno al ragazzo, pronti a scattare.

I sei centauri si tuffarono verso la voragine dove decine di soldati li attendevano con le spade sguainate. Era una scena spettacolare. I centauri cercavano in ogni modo di perforare la difesa impeccabile impostata dal generale Naugir, senza successo. Aveva una grande esperienza di guerra, e lo stava dimostrando in pieno. Lui si occupò di proteggere personalmente il bambino. Era un compito delicato, e non si fidava di nessuno, se non di se stesso. Se avessero superato anche lui, dovevano vedersela con i lupi. Quando un centauro riuscì a crearsi un varco tra le fila di soldati, trovò il generale ad aspettarlo. Con un sorriso sconvolgente e un’ira maestosa, sfoderò la sua ascia e si tuffò di gran carriera verso il nemico. L’acciaio cozzò contro l’acciaio e una miriade di scintille si propagarono tutt’intorno. La forza del centauro era strepitosa, ma il generale non era da meno. Riusciva a tenere tranquillamente testa alla creatura che lo sovrastava in stazza e altezza. Il duello fu violento. Sembrava che due esseri titanici si stessero affrontando nelle viscere della terra. Il quel miscuglio di duelli, spade, corpi che cadevano, il rito procedeva come se niente fosse. Era una scena surreale. I soldati di Naugir avevano il preciso compito di impedire che il rito fosse interrotto, e sembravano riuscirci. Con un poderoso affondo il centauro riuscì a disarmare il generale, facendo volare la sua ascia diversi metri più in là. Poi si erse in tutta la sua altezza, troneggiando sul generale, un ghigno malefico stampato in volto. Sapeva di aver vinto lo scontro. Naugir, allargò le braccia in segno di resa, e indietreggiò come a volersi allontanare il più possibile dalla furia di quella creatura. Quando il centauro fece per avvicinarsi per scagliare il colpo finale, il volto del generale Naugir si distorse in un sorriso malefico. Con un movimento velocissimo, si slacciò la cintura borchiata, che divenne improvvisamente una frusta. La fece sibilare nell’aria come un serpente, per poi attaccare la creatura con tutta la sua ira. La frusta dentata avvolse il centauro nella stretta feroce, dilaniando il suo corpo di atroci ferite. Lo disarmò con una rapidità sorprendente, e gli squarciò la gola con un ultimo affondo. Un urlo rauco di vittoria fuoriuscì dalla gola del generale. Poi andò a riprendere la sua ascia, e si rimise a pochi passi dal bambino. Attendeva impaziente che un altro centauro oltrepassasse il muro dei suoi soldati.

Dal lato opposto, un’altra battaglia solitaria si stava consumando. Mentre il capitano attaccava, il centauro schivava i suoi colpi con una velocità impressionate. Il suo corpo si tramutava in una vaga forma sabbiosa della sua figura, per poi ricomparire più in là in forma fisica. Era un potere arcano che sapeva di non poter fronteggiare. Se quello era il nemico che avrebbe decretato la sua morte, decise che avrebbe combattuto con onore. Si lanciò all’attacco della creatura, sfoderando le abili qualità di guerriero, che però sembravano apparentemente inutili. Tuttavia il centauro non riusciva a penetrare facilmente la difesa di Volgar. Lo stava facendo stancare volontariamente, per poi approfittare del primo attimo di distrazione. Volgar diede una leggera occhiata alle sue spalle. La battaglia infuriava violentemente. Il centauro si avvicinò con una velocità micidiale al capitano, con una mossa velocissima lo disarmò e poi fece penetrare la lama della spada nel suo petto.

“Il mio nome è Vrael. Principe di Nurg”, sussurrò il centauro nelle orecchie del capitano, poi estrasse la spada dal petto e gli recise la testa con un colpo secco.

In quello stesso istante, un poderoso ruggito tuonò all’interno della sala, e fece destare Vrael dai corpi dilaniati ai suoi piedi. Alzò la testa, per fotografare giusto il momento in cui una terrificante testa di drago rossa, seguita dal suo possente corpo fuoriusciva dalla voragine al centro della sala. Per la prima volta nella sua vita, il centauro rimase impietrito. Il drago precipitò sul terreno incapace di volare, schizzando sangue dappertutto. Era un essere straordinario. Le squame erano di un rosso vivido, la stazza era possente, seppur nella media per un drago. Ma non era la grandezza la sua arma. Vrael lo sapeva bene. Quella era una creatura leggendaria, creata con una magia occulta oramai proibita e cancellata per sempre dalle memorie, con il sacrificio di migliaia di persone che donavano il loro sangue per far crescere il suo potere. Cosa era un po’ di dolore, se in cambio il tuo esercito poteva disporre di un’arma simile, pensò Vrael. I suoi compagni scesero nei sotterranei per ammirare quello spettacolo incredibile.

Un domatore di draghi cercò di legare la creatura con una catena. Quando ci riuscì però, la catena si ghiacciò improvvisamente con una tale rapidità che l’uomo non riuscì a staccare le mani prima che si ghiacciassero. In un secondo l’uomo scomparì tra le fauci possenti del drago.

“Che facciamo Vrael?”, chiese un centauro.

“Dov’è Zarnog?”, rispose Vrael.

“E’ con gli altri per liberare i corpi”.

I combattimenti nella sala sotterranea si erano improvvisamente fermati. Tutti ammiravano lo splendido drago rosso, le cui membra erano formate unicamente di sangue. I centauri indietreggiarono intimoriti da quella creatura, sapevano di non avere scampo in un duello con il drago.

L’iride gialla del drago si volse verso i centauri. Per qualche recondita ragione, li aveva scrutati. Si voltò, scaricando la sua indomabile ferocia in un ruggito assordante. Poi il drago cercò di alzarsi, ma non vi riuscì, e cadde di novo a terra.

Varel sorrise con rinnovata fiducia. “A quante pare, hanno accelerato un po’ gli eventi. Non era pronto per essere richiamato. Thorne, chiama Zarnog e raduna gli altri. Dobbiamo uccidere questa bestia prima che si riprenda”.

Un centauro saettò da dove era sceso.

Vrael si avvicinò lentamente al drago, i suoi compagni centauri al seguito.

Anche il generale Naugir si avvicinò al drago.

“Generale, non si avvicini, è ancora incontrollabile. Potrebbe attaccarla”, disse un domatore di draghi.

Il generale lanciò uno sguardo alla creatura, con un ghigno. “Non lo farà. Parte del mio sangue scorre nel suo corpo”, poi tornò a guardare i centauri. Un grido feroce di battaglia echeggiò nella sala, mentre si lanciava all’attacco delle creature.

Mentre gli altri erano impegnati nella lotta, Salfirel, il bambino elfo, si avvicinò al drago. Aveva un amuleto in mano. Come incantato dal piccolo elfo, il drago si calmò, e si accucciò davanti al bambino. Salfirel gli carezzò il muso come un padrone accarezza il suo cane, e poi poggiò l’amuleto sulla fronte del drago. Pronunciò un incantesimo nella sua lingua, e l’amuleto penetrò nel cranio del drago, che ruggì di dolore, mentre l’oggetto prendeva il suo posto con forza nella fronte del drago. Si dimenava, agitando pericolosamente la coda. Anche Salfirel dovette prestare attenzione a schivare alcuni fendenti. Poi, quando il dolore cessò, sembrò che il drago avesse subito una trasformazione. Il suo animo indomabile, sembrava sereno, come se fosse consapevole di quello che accadeva intorno a lui. Guardò il piccolo elfo.

“Ben arrivato Vudrokan. Il tuo cavaliere ti aspetta”, disse Salfirel in una lingua sconosciuta.

Il drago si voltò verso il luogo dello scontro. Conosceva i suoi nemici. Si eresse in tutta la sua maestosa statura. Spalancò le ali possenti, sventolando nella stanza delle folate di vento turbinati. Le ammirò soddisfatto. Funzionavano alla perfezione. Un ruggito poderoso echeggiò nella stanza. Sembrava un avvertimento per i suoi nemici. Finalmente si accorsero di lui. Avanzò sulle quattro zampe lungo la stanza. Le sue possenti iridi scrutavano i presenti. Ora i soldati, ora i centauri. Si fissarono sul generale Naugir per un momento. Lo guardò con uno sguardo soave, che Naugir ricambiò. Un centauro osò attaccare Naugir mentre era di spalle. Ma il drago ringhiò ferocemente, e scagliò contro l’essere una fiammata rossa che lo incenerì all’istante. Vrael rimase sconvolto dalla facilità con cui aveva ucciso il centauro.

Un altro centauro si fece avanti minaccioso. “Quello era mio fratello. Ti ucciderò per quello che hai fatto”. La creatura era imponente, eppure sembrava minuscolo di fronte al drago. Vudrokan lo ignorò, e si diresse verso il canale di sangue che scorreva dai piani superiori. Annusò il sangue che confluiva ancora nel pozzo.

Il centauro, irritato dal comportamento del drago, si scagliò contro. Vudrokan gli sferrò un colpo con la coda che però mancò il centauro, poiché era stato più svelto, tramutando il suo corpo in sabbia. Così si voltò verso la creatura.

“Sei solo un ammasso di poltiglia rossa”, ghignò il centauro.

Il drago ruggì violentemente due volte facendo vibrare le mura, poi con una velocità sorprendente si scagliò contro il centauro afferrandolo tra le sue fauci, e spezzandogli il corpo in due parti, lasciandole cadere sul pavimento con un sonoro tonfo.

Gli occhi del centauro erano ancora aperti per lo stupore di quell’attacco.

Vrael decretò la riturata. Sapeva di non poter vincere contro quell’essere. Così fuggì prima che il drago decidesse di attaccare anche loro.

Vudrokan, guardò il soffitto. Il suo corpo venne scosso da un potente fremito, poi un boato assordante eruttò dalla sua gola. Una parte del soffitto crollò a terra. Il drago spalancò le ali, e con un poderoso sforzo sulle gambe posteriori spiccò un salto verso l’alto.

Il centauro si era accorto di Vander. Lo aveva scorto, mentre stava staccando un albero due file più avanti. La sua chioma argentea e le orecchie a punta erano inconfondibili. Il vecchio rancore che provavano per gli elfi, memore di antichi conflitti, lo portò a puntare dritto verso di lui, dimenticandosi di tutto il resto. Vander cercò ancora di liberarsi dalla presa dell’albero, per un ultimo disperato tentativo. Non voleva morire. Per giunta infilzato da un animale da soma infuriato, mentre se ne stava appeso ad un albero come un salame. Un ruggito echeggiò cupo da una parte indefinita nel sottosuolo. La terra vibrò, e poi una voragine larga diverse metri si aprì appena dietro al centauro, che fu inghiottito dal terreno mentre cedeva. Poi emerse la figura di un possente drago rosso come il sangue. Aveva una mole impressionate. Si voltò intorno spaesato, poi le sue enormi iridi gialle si posarono su Vander. Con un balzo superò la voragine, per atterrare davanti a lui. Afferrò l’albero che lo teneva legato, e lo sradicò con un feroce morso. Le liane che stringevano il corpo di Vander, si allentarono all’istante. Vander cadde al suolo in ginocchio. Gli girava un po’ la testa, per la gran quantità di sangue che aveva perduto. Con uno sforzo, si alzò. Quello era il suo momento.

“Finalmente sei arrivato. Stavo iniziando a perdere le speranze”, disse con un ghigno.

Il drago rispose con un poderoso ruggito. Poi si chinò per permettere a Vander di salire sulla sua groppa.

“Meglio tardi che mai” disse poggiando i piedi sulla coscia per arrampicarsi sul dorso. Era debole, e il suo corpo era pieno di sangue, ma questo non poteva aspettare. Doveva salire sul drago e spiccare il volo. Tutto il resto sarebbe venuto dopo.

Il drago eruttò dalle mura della fortezza, come un’improvvisa freccia rossa lanciata nei cieli per dare inizio ad una nuova era. Volarono sopra le centinaia di facce meravigliate dei soldati intorno alla fortezza. Ma lo stupore e la meraviglia durarono un attimo, perchè, quando Vudrokan ruggì, una miriade di voci tonanti di gioia risposero.

Vander era pulito e in forze. Stava percorrendo con le dita la forma che Vudrokan aveva sulla fronte, simile alla sua cicatrice sul petto. Una sella di pregevole fattura era stata montata sul dorso del drago, per facilitare la sua cavalcata. Salfirel, gli stava davanti. Un vento gelido soffiava dalla torre più alta della fortezza.

“Vola a nord. Più veloce che puoi. Verso la Torre Bianca. Il re ti sta aspettando. Mostra al mondo intero l’arma che contrasterà le forze oscure. Qui ha inizio il tuo cammino verso una nuova vita. Sii un guerriero saggio, e di cuore sincero e troverai la tua strada. Ma ricorda sempre; questo drago è il frutto del sacrificio di tante persone, che hanno donato il loro sangue per contribuire a questa causa. Onora il loro sacrificio. Quando ti calerai in battaglia, avrai la forza di mille soldati al tuo fianco. Ma ci saranno molte salite da percorrere, molti inganni da superare. La forza che abbiamo scatenato su questa terra, appartiene ad una magia molto potente e antica. Un giorno reclamerà il suo prezzo. Quel giorno dovremo essere pronti”.

Ancora una volta Vander ebbe la sensazione di parlare con un essere centenario, chiedendosi quante cose ancora non conosceva di quella storia, ma sapeva che non avrebbe conosciuto la risposta in quel momento.

“Vorrei ringraziarti, ma non so ancora se è quello che devo fare”. Vander salì sul dorso di Vudrokan. Si affacciò al bordo della torre. Sotto di lui centinaia di persone stavano aspettando la sua partenza. Il drago ruggì al mondo, e il mondo gli rispose con un sonoro boato che echeggiò nell’aria come un grido feroce di guerra per i suoi nemici. Poi il drago si lanciò in picchiata dalla cima della torre, per riprendere quota a pochi metri dal suolo. Volteggiò una volta sopra i soldati, e poi si allontanò versò le montagne a nord, per volare verso il suo destino.

***

Larcon stava seduto con i piedi sull’asse di legno davanti alla locanda principale del paese. Molti compaesani stavano intorno a lui, per ascoltare le sue avventure degli ultimi giorni. Stava raccontando la sua versione della storia, ovviamente con particolari che solo lui conosceva.

“Ve lo assicuro. La testa era di un drago, e il corpo di cavallo”.

“Un drago sopra un cavallo?”.

“No vecchio scemo. Era metà drago e metà cavallo”.

“Dunque, era un drago tagliato a metà, e cavallo tagliato a metà. Forse volevano risparmiare sul prezzo?”, disse un uomo paffuto, e un coro di risa echeggiò nell’aria.

Larcon era troppo preso dal suo racconto per capire che lo stavano prendendo in giro. “Poi mi ha afferrato al collo, e allora in quel momento gli ho sferrato un cazzotto nell’occhio. Solo in quel momento ha lasciato, ed è scappato via”.

Larcon stava davvero esagerando nella descrizione degli eventi. Così alla fine nessuno crebbe veramente alla sua storia. Solo il suo vecchio amico Galfred credeva che c’era un fondo, molto velato, di verità nei suoi racconti.

Un ruggito cupo e lontano vibrò nell’aria.

“Che cavolo è stato?”, disse un uomo precipitandosi in strada; gli occhi fissi verso il cielo.

Tutti quanti si affacciarono per vedere di quale animale si trattasse. Una sagoma in lontananza, piccola e scura solcava i cieli.

“Guardate là?”.

“Che cos’è?”.

”Hei Lar, vieni a vedere. Forse il drago-cavallo è venuto a reclamare vendetta”. Ancora una sonora risata echeggiò tra gli uomini.

“Non credo. Sarà un uccello enorme come il tuo naso Laars”, disse Larcon fissando l’orizzonte. Il suo cuore divenne di pietra.

“Ehi che ti prende Lar, sembra che tu abbia visto un fantasma”, disse un uomo.

“Forse è così”, disse Larcon. Immediatamente le parole di Mavrog gli tornarono in mente. “Quando il drago di sangue solcherà di nuovo i cieli, tu avrai il tuo ruolo da giocare in questa faccenda”. Ma che ruolo poteva mai avere lui, ammesso che quello fosse il drago di sangue, in una storia dove re, stregoni, esseri millenari e draghi avevano la loro parte da recitare. Scosse la testa, sorridendo tra se. No, quel vecchio aveva preso un abbaglio.

Tornò a sedersi sul porticato, insieme ai suoi compaesani,

“Allora, dove eravamo rimasti…”

STORIA SENZA UN TITOLO di Camilla Carniello

STORIA SENZA UN TITOLO

di Camilla Carniello

Sgambettò sul linoleum color crema dell’ospedale, producendo un ritmico ciaf ciaf che risuonò indisturbato per il corridoio semibuio e deserto.

Aveva una testolina perfettamente rotonda.

Era la particolarità che lo rendeva più tenero agli occhi di tutti. Una testolina tonda tonda, coperta solo da una pallida peluria. E due grandi occhi color nocciola.

Con fare esperto correva da una porta all’altra, fermandosi immediatamente prima e controllando che non ci fosse nessuno a controllare lui.

Era un po’ un gioco, un po’ un’avventura da compiere ogni sera.

Indisturbato arrivò fino al bancone grigio, coperto di carte e illuminato dal neon che penzolava pigro dal soffitto, dando a tutto un’aria asettica.

Non c’era nessuno. Come aveva previsto, l’infermiera di turno era a compiere il suo giro d’ispezione in quel reparto.

Lentamente, già assaporando il piacere della vittoria, che aveva il gusto dei biscotti al cioccolato a cui mirava, girò attorno al mobile e socchiuse il cassetto dove sapeva si trovava il suo tesoro.

Non c’era niente dentro. Vuoto! Completamente vuoto!

«Mattia!»

Il bambino si girò di scatto, colto con le mani nel sacco, sulla faccia dipinta un’espressione delusa, quella sera aveva perso.

«Cosa ci fai in piedi alle undici? Fila a letto.» disse Sara, l’infermiera del turno di notte.

Mattia aveva sette anni e otto mesi. Quasi otto, come diceva lui, e viveva in quell’ospedale da poco dopo il suo ultimo compleanno. Precisamente nel reparto Leucemia Infantile.

Vispo e allegro il bambino era diventato subito amico di tutti gli adulti all’interno della struttura ospedaliera ed era ormai un’abitudine quella del biscotto serale che ogni volta, puntualmente, Sara gli regalava.

La tradizione, tuttavia, essendo tra un’adulta e un bambino, voleva che l’infermiera se ne “dimenticasse”, in modo da fornire a Mattia l’occasione di conquistarsi il suo premio.

«Beh che aspetti? Su, muoviti» continuò lei, avvicinandosi. Svelto il bimbo si rifugiò dietro la sedia imbottita, guardando la sua interlocutrice con un sorriso così grande e birichino che la diceva lunga su quanto si stesse divertendo.

Mettendo le mani sugli abbondanti fianchi fasciati dalla divisa verde acqua, Sara lo fissò fingendosi esasperata, «Se ti do un biscotto, poi vai a letto?».

Drizzando la schiena, felicissimo di aver ottenuto, in un modo o nell’altro, il suo scopo quotidiano, Mattia ampliò il sorriso che evidenziò le deliziose fossette sulle sue guance e annuì soddisfatto.

Avvicinandosi ad un’anta, poco lontana dal cassetto in cui il bimbo aveva rovistato prima, Sara tirò fuori un sacchetto pieno di biscotti; ne prese uno e tenendo per mano Mattia, lo accompagnò di nuovo nella sua stanza.

«Ecco tieni – gli disse consegnandogli il prezioso bottino, – mi raccomando fa silenzio, altrimenti mi tocca dare tutti i biscotti anche agli altri e non è più il nostro segreto».

Mattia annuì facendo sparire il biscotto in due bocconi.

«Come si dice?»

«Grazie Sara» rispose il piccolo sparendo nella penombra della grande sala. Altri quattro letti occupavano quello spazio e il lieve respiro di altre persone riempiva il soffice silenzio della notte.

Accolto dai sogni dei suoi coetanei, Mattia si arrampicò sul proprio letto e si addormentò pensando che il biscotto, quella sera, era davvero buono.

Elisabetta cercava, in modo piuttosto impacciato, di farsi un timido spazio tra la marea di gente che si ammassava attorno alle bancarelle del mercato, quel sabato mattina.

Tutti sembravano parte di un unico corpo, alquanto aggressivo ed egoista, che si accaniva contro la minuta giovane donna.

Cercando di proteggere il sacchetto con le mele che aveva appena acquistato, indietreggiò fino a urtare qualcuno che era dietro di lei, che a sua volta fu quasi investito da una bicicletta che aveva sfortunatamente trovato abbastanza spazio da arrivare fino a lì.

«Mi scusi!» si affrettò Elisabetta, girandosi e inchinandosi leggermente per capire se la sua vittima fosse integra.

Accucciato per terra l’uomo alzò la testa, sorridendole: «Non si preoccupi signorina, non erano nemmeno buone le arance.»

«Oh, sono desolata, gliele ricompro se vuole!»

«Se ne trova di migliori volentieri, ma dubito in questo mercato oggi. Davvero, non si preoccupi.» rispose lui alzandosi e rivelandosi piuttosto alto, ben piazzato, capelli neri leggermente brizzolati sulle tempie, un accenno di barba sul mento e un grosso naso a patata.

«Ma che maleducato, non mi presento nemmeno. Giovanni Falchini, molto piacere.» aggiunse alzandosi e porgendole la mano, solo dopo aver raccolto tre arance ed essersele infilate nelle tasche dell’impermeabile color camoscio.

Ipnotizzata, più che stupita, dal bizzarro modo di comportarsi di quello semisconosciuto, la ragazza ci mise qualche secondo per riordinare le idee, ricordarsi il suo nome e quindi rispondere con voce persa: «Elisabetta Rossi.»

«Sembra più scioccata lei di me, dal nostro scontro.» scherzò il signor Falchini, tenendo le mani in tasca e dondolandosi sui piedi.

«Ehm, sì… Davvero mi dispiace tanto. Oggi il mercato sembra essere il punto di ritrovo del mondo intero. Cosa posso fare per farmi perdonare?» disse la donna, imperterrita nel volergli rendere giustizia.

Giovanni sorrise vedendo quella cocciutaggine concentrata in un esserino così piccolo, «In effetti… Mi permetta di aiutarla. Le porto la borsa della spesa, stia tranquilla non sono un ladro, né un maniaco.»

Alla faccia stupita di Elisabetta, Giovanni rispose con un ulteriore sorriso «Sono medico.»

«Che coincidenza, io sono infermiera. O meglio, mi sono appena laureata» disse lei, consegnandogli apprensiva la borsa con le mele. Non era pesante, anzi, non rappresentava la minima fatica, non c’era ragione di farsi aiutare da uno sconosciuto, ma il signor Falchini era un composto di bizzarria, sorrisi e buone maniere che invogliava a conoscerlo.

Il dialogo tra i due proseguì, leggero e tranquillo, come un colibrì blu che con grazia svolazza da un frutto all’altro. Guardandoli, uno sconosciuto avrebbe pensato che fossero già amici intimi; solo ripensandoci in seguito, Elisabetta realizzò che, durante quella conversazione incredibilmente spontanea, strada facendo, erano passati dal lei al tu prima ancora di arrivare alla sua macchina, parcheggiata a neanche dieci minuti dalla strada principale del mercato.

Guardando la vettura allontanarsi, Giovanni Falchini pensò che non aveva mai incontrato nessuno così piccolo, così evidentemente timido e al tempo stesso così sicuro. Gli ricordava una simpatica formichina; non un insetto fastidioso, ma una gran lavoratrice, instancabile, altruista, forse invisibile agli occhi di molti, ma in grado di fare la differenza.

Avviando il motore e dando un’ultima sbirciata all’uomo che l’aveva accompagnata fino a lì, che si era premurato di sistemarle le mele nel bagagliaio e che ora se ne stava fuori dalla vettura, Elisabetta Rossi era ben contenta del riparo offertole del finestrino scuro, che le consentiva di osservare un po’ meglio quell’uomo senza che lui se ne avvedesse.

Le capitava spesso di riuscire a mettere a fuoco l’opinione nei confronti di alcune persone solo continuando a osservarle dopo che ci aveva parlato.

Lo tenne d’occhio mentre si faceva sempre più piccolo nel suo specchietto retrovisore, mentre le sventolava la mano in segno di saluto e poi si allontanava tirando fuori da una delle tasche dell’impermeabile un’arancia e facendola roteare in aria.

La prima cosa che le veniva in mente se ripensava a Giovanni era patata. Forse era a causa del suo naso importante che rammentava la forma di quel tubero. Non che fosse una brutta cosa; gli dava infatti un’aria simpatica ed alla mano e sembrava proprio che lui ne fosse consapevole e addirittura sfruttasse la cosa, traendo energia e cordialità proprio da quella buffa appendice nasale.

Si erano salutati con una forte stretta di mano e la profonda voce di Giovanni che diceva: «E’ stato un piacere.»

Elisabetta pensò che non era suonata come la solita frase detta tanto per rispettare i canoni di un galateo piuttosto sgangherato; quelle parole continuavano a ronzarle ancora in testa e le ripetevano che un piacere, per entrambi, lo era stato davvero.

«Non si preoccupi signora, si tratta solo di una micro-frattura al piede, niente di grave, nonostante l’età.» disse il dottor Milani uscendo dalla stanza del paziente Ario Berni.

La donna, sulla quarantina, si girò a osservare la porta semiaperta dietro cui riposava suo padre, come se potesse vederlo attraverso la spessa lastra di plastica immacolata e potesse in qualche modo riportare il tempo a quando era lui a prendersi cura di lei e non il contrario.

«Tuttavia, vorremmo tenerlo in osservazione e fare altre analisi, per capire meglio a che punto della malattia è ed inoltre è più sicuro, se capisce cosa intendo. Qui avrebbe sorveglianza ventiquattrore su ventiquattro e lei si sentirebbe senz’altro più tranquilla sapendolo qui, si fidi di me.» continuò.

Le parole del medico erano dettate dall’esperienza e senz’altro sensate, per non dire che, sì, nonno Ario sarebbe stato curato meglio in ospedale che a casa, dove lei non avrebbe potuto essere presente a causa del lavoro. Tuttavia, al pensiero di lasciare suo padre in ospedale, così come fosse solo un peso di cui liberarsi per un po’, Rita Berni, signora Renzi da quando aveva sposato suo marito parecchi anni prima, sentiva uno scomodo non- so-che che le si attorcigliava in fondo allo stomaco.

«Per quanti giorni?» chiese.

«Ora come ora non saprei dire con precisione. Ci vorranno 20 giorni di gesso, poi il piede deve avere il tempo di riprendersi. Niente di speciale, ma richiederà tempo. Diciamo approssimativamente tre, quattro settimane.»

La donna arricciò il naso leggermente adunco, spostando gli occhiali che ci stavano in bilico e passandosi una mano tra i fitti ricci tinti di un rosso acceso si decise: «Va bene, mio padre rimarrà qui. Verrò a trovarlo appena posso, quando sono gli orari di visita?»

Dopo aver indicato alla donna il bancone grigio dover poter richiedere informazioni, il dottor Milani si rivolse alle infermiere ordinando di non lasciar entrare nessuno nella stanza di Ario Berni, in quanto il paziente aveva un assoluto bisogno di riposo.

Erano le cinque in punto della sera quando l’ordine del dottore venne violato da una testolina rotonda coperta da una pallida peluria.

Mattia corse dentro la camera e socchiuse la porta, spiando fuori nel caso qualcuno lo avesse seguito. Accertatosi di essere al sicuro si guardò intorno e fissò i suoi occhi curiosi in quelli altrettanto curiosi e infantili di un vecchio signore accartocciato sul letto.

Nessuno dei due spiccicò parola per una buona manciata di minuti. La prima cosa che il bimbo pensò fu quanto sembrasse bianco quel nonnino. I capelli candidi rassomigliavano a fili di puro cotone, la pelle, nonostante rughe profonde la solcassero, era immacolata e pareva soffice come quella di un bambino. Nell’aria si poteva respirare l’odore di un dopobarba che sapeva di nonno e di storie vissute e mai raccontate. Due occhiali da orsetto lavatore ingrandivano gli occhi dell’uomo fino a renderli buffi e anormali; dalla montatura marrone torba, il naso spuntava come una collina di neve e i baffi, l’unico tratto ad avere ancora qualche colore tendente al grigio, grigio perla, incorniciavano una bocca rosea e tremante.

Se ne stava appollaiato tra le coperte, come un gufo, con l’aria spersa di chi non sa dove si trova. Ma si sa come sono i bambini e, incurante della sua intromissione non autorizzata, Mattia si sentiva a sua agio come in ogni stanza di quella che ormai era casa sua.

«Ciao, come ti chiami?» chiese spostando la sedia pieghevole dall’angolo della stanza al bordo del letto e arrampicandocisi sopra.

«Io mi chiamo Mattia e abito qui da tanto tempo. Sei venuto qui perché vuoi una nuova casa? E’ divertente quando hai tanti amici come me. Ma tu non puoi avere i miei, perché loro sono già miei, sai.» continuò quando il vecchietto non diede cenno di voler parlare.

Ario Berni fissò il suo giovane ospite come un bambino osserva per la prima volta un giocattolo nuovissimo e luccicante e incuriosito allungò il suo lungo braccio bianco, liberandolo per un momento dalla calda sicurezza della coperta, e appoggiò la sua mano ossuta sulla testa di Mattia.

Aveva una testa perfettamente rotonda, pensò e questo scombussolò la sua memoria disastrata dall’Alzheimer, frugando bruscamente tra quei ricordi che non era più cosciente di avere, rispolverandoli all’istante, rendendoli scintillanti quasi come un tempo.

«Ad un certo momento avanzò un soldato tedesco e noi non sapevamo se sparare o no. Questi mi disse di consegnare le armi puntandomi il mitra addosso. Feci consegnare tutte le armi e da lì iniziò la nostra discesa prima verso la resa, poi verso la prigionia.

Quello che mi dispiaceva era che avevo una bella Beretta, un’arma che ci invidiavano tutti e io non avevo mai sparato neanche un colpo.

Quel giorno, prima di incontrare i soldati tedeschi, avevo tirato qualche colpo, poi la avevo smontata e gettata nel fiume che stavamo costeggiando.

Quando il tedesco mi chiese della mia pistola, vedendo che non l’avevo più mi prese a calci. Da quel momento capii di non valere più niente.» disse Ario improvvisamente con voce dolce e calma.

Per nulla colpito dalla stranezza del ricordo del vecchio signore, Mattia tirò fuori dalla tasca del pigiama una caramella e se la mise in bocca. «Cos’è una Beretta?»

«E’ una cosa per sparare. Era molto bella e mi piaceva, però non ricordo che fine ha fatto.» rispose quello, improvvisamente confuso, i ricordi annebbiati nuovamente dalla sua personale maledizione patologica.

«Hai detto che l’hai buttata via. Ma quindi tu facevi il soldato quando lavoravi?» chiese Mattia che, molto più facilmente di quanto avrebbe potuto fare un qualsiasi adulto, era in grado di tener testa alla stranezza di quella conversazione. Non che fosse piena di senso, ma il bambino non si preoccupava di sapere se ciò che stava ascoltando fosse vero o falso, se avesse una valore cronologico oppure no, se fosse importante o meno, se rappresentasse qualcosa di logico o no.

«Tenente Ario Berni, 55 fanteria, soldato nella Seconda Guerra Mondiale e deportato nei campi di concentramento.» disse il vecchietto, come fosse una frase che aveva ripetuto mille e una volta nella vita.

«Vuoi una caramella, nonno Ario?» domandò innocentemente Mattia.

Immediatamente complici, i due condivisero quel piccolo zuccherino che ebbe il potere di unirli come amici.

In quel momento la porta si spalancò senza che i due se ne accorgessero e Rita che era entrata intenta a piegare il foglio con gli orari di visita che si era appena procurata, sollevò gli occhi e li interruppe con un: «E tu chi sei?» rivolto al piccolo Mattia.

Il bimbo rispose, guardandola storto. Quella donna, troppo elegante e con il naso leggermente adunco non gli piaceva, gli dava un senso di prurito nella parte destra della testolina, come se il suo cervello si ribellasse all’idea di averla come amica.

«E’ Mattia, il mio nuovo amico. Mi ha dato una caramella e mi stava raccontando una storia.» aggiunse Ario, ben felice di ricordarsi qualcosa.

«No tu stavi raccontando qualcosa a me.» lo corresse l’altro.

«Che cosa?» si stupì il vecchio.

«No, no, fermi – li interruppe la donna, alquanto scioccata, – Ario tu sai chi è lui?»

Confuso, il signor Berni guardò quella che per lui era niente più che una donna e ripeté che Mattia era il suo nuovo amico.

«No, quello che intendo è se riesci a ricordare chi è Mattia. Riesci? Ora?» provò a spiegarsi Rita.

Capendoci sempre meno, Ario si limitò ad annuire timidamente.

Credendo di trovarsi di fronte a un miracolo, la signora Renzi si affrettò a chiamare il dottor Milani e, dopo avergli spiegato il suo punto di vista, insistette che suo padre venisse visitato all’istante.

«E’ possibile un miglioramento, dottore? Insomma, non intendo una totale guarigione, ma è possibile che mio padre riesca a ricordare cose che prima aveva dimenticato? Guardi lei stesso, sta con quel bambino da dieci minuti ormai e non gli ha mai chiesto chi sia! Questo succedeva solo qualche anno fa, recentemente non l’ho mai visto ricordare la stessa persona nemmeno per pochi minuti!» si emozionò.

Restio a crederle il dottor Milani seguì Rita all’interno della stanza.

«Mattia! Che ci fai qui? Avevo detto che nessuno doveva entrare in questa stanza, il signor Berni deve riposare.» esclamò il medico accorgendosi di chi fosse il soggetto dell’improvvisa funzionante memoria del padre di Rita.

«Ma Ario è mio amico.» protestò lui.

«Sì. – confermò Ario, per poi rivolgersi a Rita, – E tu? Vuoi un amico pure tu? Non puoi avere lui, perché lui è già mio.»

Come a evidenziare tutto ciò che aveva detto prima, la donna guardò il dottore facendo cenno con la testa in direzione dei due di fronte a loro.

Il dottor Milani, dopo aver ordinato a Mattia e alla signora Renzi di uscire e dopo che ebbe chiuso la porta assicurandosi con uno sguardo che non ammetteva repliche che nessuno, in nessun caso, nemmeno Mattia, avrebbe potuto entrare in quella stanza, domandò: «Mattia, di cosa stavate parlando tu e il signor Berni?»

«Non so, di cose strane. Ha detto che una volta aveva una Beretta e che sparava con quella, anche se io non so cosa sia. E poi che è stato portato in alcuni campi e che ha incontrato dei soldati tedeschi. Però secondo me era una bugia perché dopo non si ricordava più tanto bene.» rispose lui prima di correre via e sparire tra le gambe degli infermieri e delle persone che giravano per i corridoi a quell’ora.

«Signora, suo padre ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, se non sbaglio, giusto? Ecco credo che guardando Mattia, rasato e di conformazione esile, si sia semplicemente ricordato di quando fu deportato e di tutte le persone rasate e denutrite del campo. Essendo affetto dalla sindrome di Alzheimer è normale che il signor Berni ricordi meglio cose che sono accadute nel passato, perché è ciò che, per così dire, è rimasto nella sua memoria più a lungo. Più a lungo di lei e della famiglia che si è creato dopo la guerra. Purtroppo miglioramenti, a questo stadio della malattia, sono rari, quasi impossibili. Si ricorda del bambino solo in quanto è la persona che più corrisponde a tutto ciò che ha visto in gioventù. Mi dispiace, ma non si illuda, la farebbe stare peggio.» spiegò in tono perfettamente professionale il medico, posando fraternamente una mano sul braccio della donna, come per darle quel minimo di conforto di cui, dopo venticinque anni di esperienza, due lauree e una specializzazione, sapeva ogni paziente bisognava.

Da sola lungo il corridoio ospedaliero Rita Berni Renzi si mise le mani in tasca e si decise ad andare a casa. Si affacciò qualche secondo alla porta dietro cui riposava suo padre, decidendo di non svegliarlo; non sarebbe servito comunque dato che non si sarebbe ricordato di lei.

Prese l’ascensore, scese al piano terra e si fermò prima di uscire. Pioveva. Scocciata scosse la testa, pensando che proprio quel pomeriggio era stata dal parrucchiere. Ovviamente avrebbe piovuto, data la sua fortuna.

Per un momento pensò di rubare uno degli ombrelli abbandonati davanti alla grande porta d’ingresso, ma poi ci rinunciò, tanto, peggio di così non poteva andare quel giorno. Sollevando il cappotto fin sopra alla testa, pensò che suo marito avrebbe dovuto accontentarsi di qualcosa di pronto, non aveva la minima voglia di preparare qualcosa, quella sera era davvero troppo stanca.

Elisabetta parcheggiò la sua piccola e vecchia Cinquecento nell’immenso parcheggio dell’ospedale, pronta per il suo primo giorno lavorativo.

Per un attimo credette di essersi persa in mezzo a quel dedalo di immensi edifici; avrebbe dovuto farci l’abitudine, pensò, e imparare ad orientarsi, non voleva certo arrivare in ritardo ogni giorno.

L’idea di divisa verde, mascherina e zoccoli la elettrizzava come può capitare solo a chi si reca a lavorare per la prima volta.

Il camicione e le larghe braghe di tela le davano un aspetto oltremodo dolce, come di una mamma in pigiama che si appresta a prendersi cura del mondo intero, paziente ed amorevole.

Inutile dire che la mattinata volò in uno schiocco di dita per lei cui tutto sembrava nuovo e incantevole.

Il pranzo si rivelò una dolce sorpresa per la ragazza. Infatti, uscendo dal bagno dove si era lavata le mani, incontrò, senza scontrarsi questa volta, Giovanni Falchini, vestito con tanto di camice.

Una volta distolti gli occhi dal suo importante naso a patata Elisabetta notò che il camice del medico era ricoperto di disegni e colori, come se l’uomo fosse appena tornato da una passeggiata attraverso un vivace arcobaleno.

«Buongiorno! Felice di vederti già al lavoro, appena laureata. E’ una fortuna che pochi hanno.» la salutò cordialmente.

La donna lo guardò da sotto in su e gli sorrise calorosamente.

Invitandola a pranzare con lui, Giovanni le fece strada verso la grande mensa dove gran parte del personale ospedaliero si riuniva a mangiare quando non c’era il tempo di recarsi presso un bar all’esterno del complesso.

Tre bocconi di pasta al pomodoro più tardi Elisabetta riuscì a chiedere il motivo dei sgargianti toni che avvolgevano il suo interlocutore il quale, felice nel vederla interessata, si apprestò di buon grado a risolvere ogni dubbio.

«Lavoro come medico normale, per così dire, tutti i giorni tranne il giovedì, in cui faccio volontariato per l’associazione Dottor Sorriso. In pratica si tratta di far ridere i bambini che soggiornano all’ospedale. Ci improvvisiamo un po’ clown, un po’ giocolieri; all’inizio è difficile perché tutti i bambini sono diffidenti e non hanno la minima voglia di ridere trovandosi qui, ma quando dimostri di essere capace di giocare, diventano aperti e solari. E’ uno spettacolo incredibile vedere i loro sorrisi, dovresti assistere!» e suonava proprio come un invito. Giovanni ci mise poco a convincere la pignola e diligente signorina Rossi a spendere un’oretta del suo tempo libero con i bambini.

Ed in effetti lo spettacolo non fu affatto male. Il dottor Falchini con un gruppo di colleghi si dedicò alla giocoleria e ai giochi di prestigio: prima fece roteare in aria tre palle arancioni e poi le trasformò agli occhi dei piccoli in tre magnifiche e luccicanti arance che distribuì tra i rumorosi e stupiti pazienti.

Ecco il perché delle arance al mercato, pensò subito Elisabetta. Non era certa che fossero le stesse, ma ora comprare arance al mercato le sembrava ovviamente un acquisto da fare unicamente allo scopo di far ridere i bambini.

Verso la fine uno dei bimbi, uno dei più piccoli, che la giovane donna notò aveva una testolina rasata perfettamente tonda, rubò il naso rosso di Giovanni. Non che lui ne avesse bisogno, in effetti, bastava che si colorasse di rosso la punta del suo vero naso e poco si sarebbe notata la differenza.

Dopo vari tentativi, tutti andati a vuoto, di ripescare il grosso nasone di plastica rossa, Giovanni ci rinunciò e presentò il piccolo a Elisabetta.

«Questo signorino qui è Mattia. Furbetto, vero compare? E’ qui da quasi un anno ed è amico di tutti.» disse posando una grande mano sul capo del bimbo che dapprima annuì distratto, giocando col nuovo trabicolo che era appena riuscito a procurarsi, poi sgattaiolò via di corsa.

«Non vive con la famiglia? Insomma un anno è lungo da passare in ospedale.» si accigliò la ragazza, non ancora abituata del tutto alla vita all’interno di quell’edificio che sapeva di malattia, di disinfettante, di pianti, di medicine, e dove ciò nonostante un vago profumo aleggiava nell’aria, misterioso e invisibile, lasciando dietro di sé una scia che tutti, volenti o nolenti, si trovavano a seguire: la speranza.

«Mattia ha una famiglia stupenda. Purtroppo soffre di leucemia e deve seguire delle terapie lunghe e costanti, quindi per forza di cose deve rimanere qui. Ma lo vengono a trovare tutti i giorni. La mattina, prima di andare a lavorare e la sera. Tutti i fine settimana sono qui e a volte gli portano anche degli amici. E’ dura, sono prigionieri dell’ospedale tanto quanto il figlio, ma si fanno forza a vicenda. Per il piccolo c’è speranza per un futuro lungo abbastanza, il suo corpo reagisce bene ed è un tipetto tutto sale e pepe, lo conoscerai. Tutti lo conoscono qui.» rispose il dottor Falchini con un sorriso.

Come a dar credito a quelle parole si sentirono delle esclamazioni di protesta provenienti dall’atrio di fronte a loro e in una manciata di secondi videro apparire una sedia a rotelle che correva come spinta da una furia; quando fu abbastanza vicina, poterono notare che la suddetta furia era appunto il piccolo Mattia.

«Brum brum! Spazio gente!» gridava di continuo. Fortunatamente il corridoio era semideserto. Il piccolo sgambettava veloce per poi darsi una spinta e appendersi al retro della carrozzella su cui sedeva uno sventurato vecchietto dall’aria allegra e divertita.

Il signor Berni, aggrappandosi ai poggiabraccio della sedia a rotelle si stava divertendo come mai in vita sua; non che fosse difficile farlo divertire dato che, dimenticando sempre tutto, ogni volta era come la prima.

Spalancava la bocca urlando dall’eccitazione, sgranava gli occhi tentando di cogliere ogni secondo di quell’insolita avventura e si sporgeva in avanti cercando di aumentarne l’ebbrezza.

«Ossignore!» si preoccupò Elisabetta.

«Mattia!» sibilò Giovanni, come rassegnato, per poi mettersi al centro esatto del corridoio con una mano protesa in avanti, sperando vivamente che il bambino riuscisse a frenare la corsa.

Con un «Oh!» di sorpresa il piccolo piantò i piedi per terra trattenendo la carrozzella. Essendo troppo leggero, però, non riuscì a frenare nell’immediato (cosa che tra l’altro salvò Ario Berni da uno sicuro schianto sul pavimento tirato a lucido) e quasi andò a schiantarsi contro il dottor Falchini.

«Mattia, quante volte te lo devo dire? E’ pericoloso, ci sono persone qui che devono lavorare, inoltre il signore avrebbe potuto cadere e farsi molto male.» disse il dottore in tono severo.

«Ma Ario mi ha detto che lui non aveva mai fatto una corsa!» obiettò il bambino.

«Non m’interessa, l’ospedale ha delle regole e vanno rispettato. La gente viene qui per stare meglio, non per farsi più male.»

Il bambino chinò il capo con aria colpevole. Andava sempre così: lui faceva qualcosa per divertirsi e finiva che lo sgridavano sempre!

Elisabetta si offrì di accompagnare l’anziano signore nella sua camera, ma la premura dell’infermiera si rivelò vana quando, alla domanda in quale stanza soggiornasse, Ario non seppe dare una spiegazione.

«Io lo so, lo porto io!» esclamò trionfante Mattia, contento di poter stare ancora con il suo nuovo amico.

Tuttavia, volendo evitare altri possibili incidenti di percorso, il dottor Falchini preferì seguire i due, lasciando così libera Elisabetta di tornare al suo reparto.

Con le mani saldamente ancorate ai manici della sedia a rotelle, Giovanni spingeva il signor Berni, affiancato dal salterellante Mattia che non la finiva più di parlare di come era stata eccitante la loro corsa.

«Dovresti portarla fuori a cena.» disse improvvisamente Ario. Mattia si zittì subito e il dottor Falchini si portò davanti per capire se ci fosse qualche problema.

«Cosa?» chiese il medico.

«La signorina, dovresti portarla fuori a cena, è molto carina.» ripeté il vecchietto. Rilassatosi una volta visto che il paziente gli stava solo fornendo un consiglio, Giovanni riprese a spingere la carrozzella. Eppure l’idea di una cena con Elisabetta non suonava affatto male…

Elisabetta Rossi era ancora nella fase in cui si gioisce nel recarsi a lavorare. Ogni mattina quindi, era di ottimo umore e trasmetteva il sorriso a chiunque incontrasse. Non che fosse una persona sempre positiva o eccessivamente spensierata, ma si sa che quando una cosa piace la si affronta nel migliore dei modi.

Quel giorno si recò al lavoro e iniziò a controllare alcuni pazienti nel reparto malattie sistemiche progressive.

Quando però entrò nella stanza 45E la trovò vuota. Pensò ad un errore nell’assegnazione che le avevano consegnato qualche ora prima, ma poi si accorse che il letto, seppur ordinato, era stato usato e che un paio di pantofole grigie era stato abbandonato in prossimità del letto.

Si guardò intorno, dentro la cabina armadio, fuori dalla stanza, ma non sembrava esserci nessuno.

Passando di fronte alla camera adiacente si sentì chiamare.

«Se cerca il paziente della camera qui vicino, è andato a cercare il bagno. – disse un visitatore al capezzale del letto dell’occupante della stanza. – Gli ho detto che è qui dietro l’angolo, ma non l’ho più visto tornare. Saranno passati trenta minuti abbondanti, forse si è sentito male.»

Subito preoccupata, la giovane infermiera si diresse quasi correndo al punto indicatole: il bagno era vuoto.

Si guardò intorno rilassandosi leggermente. Se il paziente si era sentito male, almeno non era chiuso in bagno tutto solo.

Stava rimuginando su dove potesse trovarsi un signore anziano, affetto dall’Alzheimer, quando arrivò alla saletta ricreativa dove una fila di poltroncine rosse era occupata da visitatori in attesa e da pazienti troppo stufi di stare rintanati nelle rispettive camere.

In mezzo a loro, quasi piangente, stava il vecchietto che la dolce infermiera aveva visto qualche giorno prima correre impazzito sulla sedia a rotelle spinta da Mattia.

Il poveretto sembrava così sperso e spaurito che pareva l’incarnazione della pietà stessa, quella pietà che sembrava suscitare in tutti i presenti tranne che nell’anziana donna al cui fianco si era accasciato, pregandola di ascoltarlo.

La vedova Politti faceva parte di quel ristretto gruppo di persone che non sono più nel fiore degli anni, ma che ancora non si arrendono alla vecchiaia. Quella fascia d’età, insomma, in cui vorresti che alcune persone importanti della tua vita fossero più vecchie di te, come il tuo medico, il tuo prete, il tuo presidente, e che invece, per forza di cose, ad un certo punto arrivano ad essere più giovani.

La signora, essendo consapevole di tutto ciò ed essendo una professoressa di storia in pensione, si sentiva più che autorizzata a dare i proprio consigli a chiunque le capitasse a tiro e, in particolare a quelli che sembravano più giovane di lei per il semplice fatto di avere anche una sola ruga in meno.

Non appena si accorse della presenza di Elisabetta, evidentemente lì per recuperare quell’appiccicosa acciuga che le stava a fianco, si apprestò a dare il suo parere non richiesto e a sgridarla per essere arrivata così in ritardo, causandole un tal siffatto disturbo.

«E’ piuttosto fastidioso quando un paziente che visibilmente non è in grado di star da solo è lasciato libero di importunare altre persone che sono in visita.» disse con tono altezzoso.

Presa alla sprovvista e prigioniera della sua timidezza la signorina Rossi biascicò un paio di scuse a mezza voce e si apprestò a recuperare il signor Berni che non voleva saperne di seguirla.

«No! Margherita, perché non mi ami più. Siamo sposati!» continuava ad urlare.

«Lo scusi, è affetto da Alzheimer.» spiegò l’infermiera.

Non volendosi far giudicare dai presenti per il suo comportamento freddo e distaccato, la vedova Politti rispose dicendo di non preoccuparsi, «Però è alquanto scioccante il suo flirtare con le signore a quest’età; si potrebbe pensar male, ecco tutto.» si giustificò poi.

Un paio di infermieri corsero in aiuto di Elisabetta e riuscirono finalmente a trascinare il povero Ario di nuovo nella sua stanza.

«Non so come sia arrivato lì, sono entrata nella sua stanza ed era vuota. Credo si sia diretto al bagno, ma che si sia dimenticato di doverlo usare strada facendo.» spiegò ai colleghi.

Ario aveva un’aria afflitta e sconsolata: credeva di aver visto nella vedova sua moglie e non si capacitava del perché non l’amasse più.

Ma il dolore amoroso fu presto dimenticato, sostituito da un sonno ricco di sogni che arrivarono appena si coricò. Chissà se in quel mondo notturno la sua memoria funzionava ancora.

Più o meno nello stesso momento un vivace bambino irruppe nella saletta con i divanetti rossi e si precipitò tra le braccia della vedova Politti.

«Nonna!» esclamò felice Mattia.

«Tesoro santo!» rispose l’anziana donna. Nonna e nipote stettero insieme, godendosi quegli attimi come fossero dolce miele su pane croccante.

Dopo quell’incontro tuttavia, il dottor Falchini, che quel giorno indossava un normale camice bianco ed uno stetoscopio come collana, trovò il piccolo a vagare per i corridoi con aria triste, cosa inusuale per lui.

«Mattia, che succede? Credevo fossi felice con la nonna, poco fa.»

Il piccolo scosse la testa come per dire che quello non c’entrava e che non c’era nulla da fare. Preoccupato che avesse ricevuto qualche pessima notizia sulla sua leucemia, il medico si apprestò a chiedergli cosa stesse succedendo.

«Mamma e papà oggi non possono venire perché sono al matrimonio della zia.» spiegò sconsolato. Gli occhioni da cerbiatto si fecero ancora più grandi e lucidi, le lunghe ciglia, accentuate dalla mancanza di capelli, si muovevano frettolosamente come per impedire alle lacrime che stavano per prorompere di cadere, ma non vi fu verso di trattenerle e così grosse perle salate cominciarono a scivolare sulle guance paffute di Mattia.

Il piccolo si sentiva così timido in quel momento e appariva così diverso dal concentrato di pura energia che era di solito.

Addolcito, Giovanni prese tra le braccia Mattia che riuscì a farsi piccolo piccolo contro il suo petto.

«Sai cosa facciamo ora? Andiamo a chiedere a Elisabetta di uscire a cena con me, ti va?»

Incuriosito dall’idea il bambino si fece già meno malinconico di prima e, sempre in braccio al dottore, si avviò a cercare l’infermiera che nel frattempo era tornata a controllare il signor Berni.

Non appena entrarono nella camera di nonno Ario, Mattia recuperò il suo buon umore, si arrampicò in fretta sul letto dell’anziano signore che, straordinariamente, riconobbe in lui il suo nuovo amico, e tutto emozionato proruppe: «Giovanni vuole chiedere all’infermiera di essere la sua morosetta!»

Elisabetta si girò curiosa verso Giovanni e immediatamente arrossì. Ario, dal canto suo, non ci capì molto e si limitò a guardare la scena da dietro i suoi spessi occhiali.

«Non è proprio corretto. – disse il dottor Falchini con voce tranquilla, – Io mi accontento anche solo di una cena.»

Le guance dell’infermiera si infuocarono e la stanza si fece improvvisamente troppo calda; la tentazione di imboccare la porta e fuggire via, magari in direzione dell’Antartide, era forte, ma Giovanni era esattamente di fronte all’uscita e la giovane si sentiva come un animale braccato.

Non che non ci volesse andare, a quella cena, anzi le piaceva passare il tempo con Giovanni, pranzavano insieme alla mensa dell’ospedale quasi sempre, ma la sua timidezza le rendeva difficile affrontare situazioni più impegnative. Inoltre la presenza di due persone, anche se erano Mattia e il signor Berni, le incuteva ancor più soggezione.

Consapevole che stava esagerando, Elisabetta fece tre respiri profondi e, fissando il linoleum bianco e concentrandosi sulle imperfezioni del medesimo, con voce sottile rispose di sì, sarebbe andata volentieri a cena con il Dott. Falchini.

Perfettamente a suo agio Giovanni fece l’occhiolino a Mattia, come per sottolineare il fatto che aveva vinto una sua personale scommessa.

Volendosi liberare dell’imbarazzo del momento, l’infermiera disse a tutti di andarsene perché doveva mettere il pannolone al signor Berni.

«No! No, neanche per sogno, mica sono un bambino eh!» si scandalizzò quello.

«Io non uso il pannolone!» disse subito Mattia, indeciso se sentirsi offeso o divertito, al che Ario annuì con la testa, come se fosse una prova inconfutabile del suo diritto al bagno.

«Ma questa mattina si è perso in giro per l’ospedale, mentre voleva andare al bagno. Starà più comodo , si fidi di me, non avrà preoccupazioni e non è poi così inusuale alla sua età.» protestò la donna.

Il vecchietto allora, si liberò dalle coperte che lo avvolgevano e a fatica tentò di mettersi in piedi sul letto, nonostante l’ingombrante ingessatura al piede sinistro. In un qualche modo ci riuscì pure e cominciò a barcollare pericolosamente avanti e indietro, urlando di voler andare al bagno.

In quell’esatto istante Rita Berni Renzi entrò nella camera e rimase pietrificata sulla soglia. Nessuno le badò, tutti quanti impegnati, Mattia a ridere, Elisabetta e Giovanni a tentare di acciuffare l’agitato paziente, Ario a far valere i propri diritti.

«Cosa sta succedendo qui?» esclamò con voce acuta la donna.

Mattia continuò a ridere, ma fu furbo abbastanza da capire che era meglio se non si faceva vedere, quindi si nascose dietro il letto. Ario si bloccò chiedendosi chi fosse quella tipa magra e dai capelli rosso acceso. Elisabetta si immobilizzò e Giovanni, grande e grosso com’era approfittò del momento e prese il mingherlino vecchietto tra le braccia e lo ridistese sul letto. Quest’ultimo, appena fu messo comodo, fece pipì tra le lenzuola.

Il silenzio di piombo che calò sembrò far rimbombare i secondi come fossero spari.

«Ci scusi signora, il signor Berni era piuttosto agitato, ma come vede la situazione è risolta.» disse in tono conciliante Giovanni.

«Risolta? Mi avevano assicurato che mio padre qui era al sicuro, ma da quel che ho visto non lo è affatto! Forse è meglio che lo porti a casa con me, dove almeno potrà usare un bagno.» strillò con voce pungente la donna già sentendo prossima una crisi di nervi per l’orribile giornata che aveva appena passato a cui si aggiungeva la preoccupazione per un genitore che sembrava catalizzare ogni possibile sciagura si potesse immaginare.

«No, non portare via Ario, lui è mio amico!» esclamò Mattia uscendo dal suo nascondiglio e precipitandosi addosso a Rita.

A quel punto Ario con voce tremante disse: «Io voglio stare qui, con il mio amico.»

Portandosi una mano alla tempia e massaggiandosela come se quel gesto potesse spazzare via tutto lo stress che sembrava ucciderla, la signora Renzi in quel momento avrebbe probabilmente preferito essere in un manicomio. La prospettiva le sembrava meno illogica che stare in quella stanza che piena di matti lo era davvero.

Un padre smemorato che diventa amico di un bambino con la leucemia ed è l’unica persona al mondo a riconoscere; un’infermiera così piccola e minuta da sembrare piuttosto una ragazzina e un medico che più che un professionista sembra un pagliaccio, pensò Rita, bell’ospedale!

«Dov’è il dottor Milani?» si limitò a chiedere. Giovanni si offrì immediatamente di accompagnarla al banco delle informazioni per chiedere e uscendo si girò in direzione di Elisabetta, roteando gli occhi al cielo come per dire: «Questa è pazza!» riuscendo così a strapparle un sorriso.

«Vieni con me, dai.» sussurrò Mattia avvicinando la sedia a rotelle al bordo del letto, così che Ario potesse sedercisi.

Erano le dieci e mezza di sera e quasi tutti erano a letto a dormire, solo gli infermieri del turno di notte girovagavano pigri per i corridoi immersi in una rilassante (o inquietante, se eri un bambino) penombra.

«Dove andiamo?» chiese il vecchietto indossando le comode pantofole grigie.

«A mangiare i biscotti di Sara.» rispose il piccolo spingendo la carrozzella fuori dalla porta.

Silenziosamente come spie professioniste i due si diressero verso il bancone grigio. Nel farlo passarono di fronte ai tre ascensori argentati di quella zona dell’ospedale.

«Cosa sono?» chiese Ario.

«Sono ascensori. La gente li usa per andare su e giù, come le scale, ma sono più veloci e non devi camminare. Sono belli vero? Guarda – disse il piccolo premendo il pulsante di quello centrale, quello più grande. Si avvertì uno spostamento d’aria, accompagnato da un fruscio proveniente dalla fessura tra le due ante scorrevoli e con un bip metallico le porte si aprirono mostrando un interno altrettanto argentato e molto ampio, illuminato da una luce bianca che agli occhi dei due lo faceva assomigliare una navicella spaziale.

Beh, più agli occhi di Mattia che a quelli di Ario, dato che la sua memoria non gli permetteva di rendersene conto; ma comunque avvertiva che assomigliava a qualcosa di strano e insolito.

«Ci andiamo?» propose il signor Berni.

«No, non possiamo andarci noi, perché poi vanno al piano terra e lì è sporco. E dove c’è sporco è pericoloso e poi muori. Me l’ha detto la mia mamma.» disse con voce risoluta il bambino. Quella, forse, era una delle poche regole che non aveva mai avuto il coraggio di infrangere.

Automaticamente la soggezione provata dal piccolo passò nella mente dell’anziano, come per contagio; come succede tra amici.

La loro corsa si fermò proprio di fronte alla grossa infermiera che sedeva sulla sua poltrona imbottita aspettando la visita del bambino.

«Cosa abbiamo qui oggi?» chiese con fare sospettoso, accorgendosi della presenza di Ario.

«Lui è il mio nuovo amico. E’ simpatico, si chiama Ario.» lo presentò Mattia.

Stupita Sara si rimise seduta. Non era mai successo che Mattia portasse con sé un amico con cui dividere i suoi biscotti; era alquanto egoista in quel campo, come ogni bambino con le sue cose preferite, ovviamente.

Ario doveva essere importante abbastanza per il bambino, o per lo meno farlo ridere parecchio.

«Signore, va tutto bene?» l’infermiera si sentì comunque in dovere di compiere il proprio lavoro.

«Sì, sì. Mattia è mio amico.» rispose quello con un tono infantile che alla donna parve parecchio strano.

«Io sono l’unico che lui si ricorda, sai? – disse il bambino tutto orgoglioso per poi aggiungere a bassa voce come fosse un segreto, vedendo l’espressione confusa di Sara, – Ario si dimentica le cose, ma tu non dirglielo perché poi ci rimane male, anche se alla fine se lo dimentica.»

A quel punto la preoccupazione dell’infermiera triplicò. Lasciare un paziente affetto dall’Alzheimer nelle mani di uno spericolato bambino di otto anni, in giro per l’ospedale di notte, non era certo consigliabile. Decise quindi di tenerli d’occhio.

Vedendoli confabulare si ricordò dei biscotti e ne consegnò uno a ciascuno, godendosi le loro facce golose e contente.

Li seguì, assicurandosi che l’anziano paziente venisse riportato nella sua camera senza problemi. Si stupì, di come Mattia si prendesse cura del suo nuovo amico, come se si conoscessero da sempre. Come se si volessero davvero bene, vivendo la loro amicizia tra quei corridoi in penombra, come in penombra era la loro vita all’interno di quell’edificio che un po’ li teneva prigionieri, un po’ li lasciava sognare. Insieme intrecciavano tra quelle stanze una storia che non aveva bisogno di un titolo.

Una storia intessuta tra amici altrimenti impensabili, un’amicizia che forse non sarebbero stata tale al di fuori di quel luogo.

Rimuginando su quanto può essere complicata, disarmante e incomprensibile la vita, Sara ritornò al suo posto. Vide il sacchetto con i biscotti ancora sul ripiano del banco. Ne prese uno e, mordendolo, pensò che, quella sera, osservando i due amici, si era sentita ancora bambina.

Prima di dirigersi al grande ascensore argentato per andare a casa alla fine della giornata, Elisabetta si diresse verso la camera del signor Berni. Si era infatti presa a cuore l’anziano paziente dalla memoria sbrindellata e ogni giorno lo andava a salutare, e nonostante lui non si ricordasse mai di lei i due si trovavano a loro agio insieme. La signorina Rossi, dolce e paziente, aveva un carattere che ben si adattava a quello del signor Berni, reso ingenuo dalla malattia.

Aveva legato molto anche con il piccolo Mattia che regolarmente la seguiva nella camera di Ario per fargli visita.

Giovanni rappresentava il quarto elemento di quella bizzarra combriccola. Quando ripensava a Giovanni, Elisabetta arrossiva leggermente. Le piaceva il suo sorriso e la sua cordialità, per non parlare del suo affetto verso tutti i piccoli pazienti dell’ospedale.

Era un tipo stravagante, probabilmente adatto più a un circo che al camice bianco, così diverso da lei, e la tempo stesso così complementare.

La signorina Rossi pensò alla cena che avevano in programma l’indomani sera. Sentiva le gambe molli, non era il tipo di ragazza spavalda e pronta a tener testa a un uomo, lei.

Forse era per questo che piaceva tanto a Giovanni. Però lei ancora non lo sapeva.

Entrando si accorse che a fare compagnia ad Ario c’erano Mattia e la vedova Politti.

Stupita si chiese la ragione di tale visita.

«Buonasera.» la salutò cordialmente la signora. Sembrava avere un carattere totalmente diverso rispetto al giorno in cui si erano incontrate la prima volta.

Ario come sempre aveva un’aria persa, ma molto allegra, come se fosse consapevole che quello era un bel momento, ma non riuscisse ad afferrarne esattamente il perché. Continuava a sorridere in direzione di Elisabetta, poi voltò lo sguardo verso la vedova e stupito chiese: «Margherita?»

«Ario, per la millesima volta! E’ mia nonna, non tua moglie.» esclamò il piccolo.

Il vecchio si riscosse, ma non perse il sorriso.

«Lei assomiglia molto a mia moglie, sa?» disse gentile alla signora accanto a lui. Lei sorrise di rimando e annuì con estrema pazienza.

«Bene credo sia giunto il momento di andare, vero Mattia?» disse lei dopo un attimo.

«Cinque minuti!» cinguettò il bimbo.

L’anziana donna si diresse fuori dalla porta dicendo che lo avrebbe aspettato in corridoio. Passando vicino a Elisabetta le sorrise dolcemente e a bassa voce le sussurrò: «So di essere stata scortese l’altro giorno, mi perdoni. Non che ora mi senta troppo cordiale, ma mio nipote era così entusiasta nel presentarmi il suo nuovo amico che non ho potuto dirgli di no e quando mi sono resa conto che si trattava di questo signore non ho voluto dirlo a Mattia. Non lo faccia, la prego, quest’uomo è una delle poche persone a cui l’ho visto affezionarsi così negli ultimi tempi. Lei mi capisce, vero?»

L’infermiera annuì comprensiva, i suoi dubbi chiariti. Dopo che i due visitatori se ne furono andati controllò che tutto fosse a posto, parlò per qualche minuto con il signor Berni e si assicurò che non dovesse nuovamente andare al bagno.

Alla fine, contenta della giornata, si decise ad andare a casa.

«Allora vuoi sapere come è andata con Elisabetta o no?» chiese divertito Giovanni.

«Sì, certo.» rispose il piccolo Mattia intento a giocherellare con il suo stetoscopio.

Al dottor Falchini piaceva parlare della sua vita con il bambino. Non era pettegolo e offriva le sue opinioni innocenti senza tacere nulla.

«Siamo andati a mangiare in un ristorante elegante, il cibo era buonissimo e abbiamo parlato per tutta la serata! Lei è molto simpatica quando la conosci bene.»

«Lo so, è gentile. Ed è anche piccolina, a volte sembra mia sorella. – rispose il bimbo. – L’hai baciata?»

«No, no per carità.» disse il medico.

«Bene.» annuì il piccolo soddisfatto, rabbrividendo alla sola idea di toccare una ragazza.

«La vuoi sposare?» aggiunse poi.

Giovanni scoppiò a ridere osservando la faccia disgustata del suo giovane interlocutore e, tanto per fargli dispetto disse: «Magari sì!»

A quel punto Mattia corse via, come se il dottor Falchini fosse diventato improvvisamente un portatore di peste nera.

Elisabetta dal canto suo era felicissima della cena e ci aveva pensato per tutta la mattinata, il semplice ricordo era una sorta di benzina che la spingeva a compiere ogni gesto con più entusiasmo.

Tutto sembrava per lo più perfetto in quel momento della vita di Elisabetta Rossi e di Giovanni Falchini. Per quanto riguardava invece Mattia Politti e Ario Berni, se non c’era certezza riguardo al futuro, almeno il presente era roseo e spensierato.

Tuttavia bisogna ricordare che ogni storia, anche la più bella, anche quella composta da tante storie diverse, ha una fine. In questa storia più che una fine ci fu un cambiamento, che arrivò il giorno in cui Elisabetta si trovò costretta a fare i conti con il lato negativo del suo lavoro. Arrivò il giorno in cui Ario Berni fu dimesso dall’ospedale. Per Elisabetta era la prima volta. Giovanni ormai ci aveva fatto l’abitudine ai pazienti che andavano e venivano, ma per Elisabetta era una nuova triste esperienza.

Mattia non ci aveva mai realmente pensato a quel momento e Ario, se anche l’aveva fatto, se n’era dimenticato.

Non è mai facile dire ciao, specialmente quando quel ciao è un addio. A volte si ha la forza di farlo perché si spera che l’altro conserverà un bellissimo ricordo di noi. Sapere che ciò non sarebbe successo con il signor Berni rendeva il tutto ancora più difficile.

Rita aspettava battendo nervosamente il tacco lucido sul pavimento, facendolo risuonare con un rumore sordo e fastidioso, troppo impaziente anche solo per appoggiarsi al muro.

Con stizza allungò un braccio, quasi colpendo un infermiere che passava di corsa, per spostare la manica della giacca color crema quel tanto che bastava per guardare l’ora.

Pensava al traffico che l’avrebbe attesa lungo la strada per tornare a casa, alla cena che suo marito avrebbe voluto trovarsi davanti già pronta e a come avrebbe potuto trovare una badante in pochi giorni. Quei problemi che annerivano il suo immediato futuro costituivano una prorompente fonte di nervosismo che la spingeva a volersi allontanare da lì, come se, dando inizio alla catastrofe che avrebbero sicuramente causato, tutto avesse la possibilità di concludersi il prima possibile.

Due profonde rughe si disegnarono attorno alla sua bocca magra quando vide correre verso di lei la piccola figura di Mattia. Ancora una volta si chiese perché avesse accettato tutta quella messinscena. Dopotutto lei non aveva niente a che fare con quel bambino e, se anche suo padre ci teneva in quel momento e nonostante Mattia si fosse rivelato l’unica persona del presente che Ario Berni era in grado di ricordare, egli se lo sarebbe comunque dimenticato nel giro di breve tempo, non appena non l’avesse più visto con regolarità.

Quel bimbo sgambettante e vivace sarebbe stato l’ennesimo pasto dell’implacabile Alzheimer.

«Lo guido io, lo guido io!» esclamò il piccolo come a dar ulteriore fastidio alla signora Renzi. Spalancò la porta e quando i suoi occhi si furono abituati alla luce che entrava dalla grande vetrata, poté vedere il vecchietto che lo aspettava tutto ben vestito, nel suo completo elegante di velluto verde bottiglia che sapeva di cose antiche, seduto sulla sedia a rotelle, in una mano un cappello dalla visiera larga che si intonava all’abito, nell’altra un bastone di legno lucido.

Elisabetta finì di sistemare il colletto della camicia immacolata di Ario e accolse i due nuovi arrivati nella stanza.

«Siamo pronti, vero signor Berni?» disse con la sua voce dolce che tanto s’intonava alla sua piccola statura, accentuata dalla divisa da infermiera.

Non ricordandosi il nome della giovane donna, ma calmato dalla sua voce posata e sicura, l’anziano signore si limitò a sorridere e annuire con entusiasmo. Se da una parte sentiva che c’era un posto migliore dell’ospedale che lo stava per accogliere, dall’altra una parte di se stesso gli sussurrava che lì c’erano delle persone che non voleva lasciare, anche se non riusciva bene a metterle a fuoco, ad eccezione di Mattia,.

«Signor Berni, questa è Rita Berni Renzi, sua figlia. Se la ricorda? Si prenderà cura di lei, non si preoccupi.» spiegò Elisabetta, come ogni qual volta che introduceva quella donna ad Ario.

Incapace di riportare alla mente qualunque ricordo di sua figlia, in quel momento almeno, il dolce vecchietto si limitò ad annuire, questa volta con meno entusiasmo, come rendendosi conto che Rita non era una di quelle persone che sentiva di non voler lasciare; lei era quella con cui sarebbe andato a vivere. La guardò cercando di provare qualcosa, sapendo che si trattava di una sua parente, ma non riuscì a sentire nulla: sua figlia era per lui una totale sconosciuta. Ciò lo rese particolarmente suscettibile in quel momento e, arrabbiato con sé stesso, preferì non dire nulla.

Accordandosi silenziosamente con lui, Rita lo imitò e uscendo dalla stanza lasciò che Mattia si mettesse dietro alla sedia a rotelle e iniziasse a spingerla lungo il corridoio.

Il bimbo si divertiva, camminava sempre più veloce, fino quasi a correre la loro ultima corsa in quell’ospedale; rallentò solo in prossimità del bancone grigio dove Giovanni li aspettava nel suo camice colorato e la palla rossa ben attaccata al naso.

«Buon giorno signor Berni, come sta?» chiese allegro.

«Bene bene, grazie.» rispose Ario educatamente, per poi chiedere a Mattia: «Chi è quell’uomo?»

«E’ Giovanni. Vedi? Sta con Elisabetta, l’infermiera che ti ha vestito. Secondo me finiscono per sposarsi. Ti immagini che schifo baciare una donna? Bleah!» rispose quello con una smorfia di innocente disgusto.

Il signor Berni non rispose, non del tutto certo che quanto descritto dal bambino fosse poi così rivoltante.

Elisabetta e Giovanni si fermarono vicini e agitando le mani salutarono Ario Berni, mentre Rita proseguì, superandoli e dirigendosi verso l’ascensore, quel limite che Mattia non poteva varcare e che per tutto il tempo in cui il suo vecchio amico aveva soggiornato nell’ospedale era stato luogo di mistero e fantasie e timore.

Il bambino e l’anziano, accomunati il primo dalle esperienze che forse non avrebbe mai potuto avere, il secondo da quelle che aveva dimenticato, si avviarono verso il corridoio principale, la carrozzella accompagnata dall’ormai familiare ciaf ciaf dei calzini antiscivolo del bambino.

Mattia si fermò proprio di fronte al grande ascensore argentato, quello di mezzo, quello più grande affiancato dai due più piccoli.

Rita aspettava dentro, tenendo bloccate le porte. «Fate presto, che qui gli ascensori servono.» intimò. Lei, delle scene d’addio, si era stufata tanto tempo addietro, ormai avvezza alla smemoratezza di suo padre. Dentro di lei, in realtà, si rattristava sapendo che quest’ultimo avrebbe dimenticato anche quell’ennesimo momento e se ne dispiaceva per il bambino. Il suo essere brusca, in fondo, era forse un barriera di difesa che aveva eretto intorno a sé per impedire che ciò con cui doveva combattere tutti i giorni la toccasse troppo profondamente. Non avrebbe potuto farci i conti, altrimenti.

Troppo magrolino per compiere il gesto, Mattia lasciò che Rita voltasse la sedia a rotelle in modo da farla entrare nell’ascensore in retromarcia.

Proprio prima di varcare quella misteriosa soglia, che pure esercitava sui due un certo fascino, Ario si sporse e prendendo una mano del bambino chiese: «Restiamo amici, vero?»

«Certo. – rispose quello, – Amici per sempre.»

Camilla Carniello

LA MORTE TI FA CANE di Daniela Bellandi Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE TI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

LA MORTE DI FA CANE

di Daniela Bellandi

Primo Livello- Corso Adulti

Da lassù poteva vedere tutta la città. Le luci colorate dei negozi che si accendevano una dopo l’altra con l’imbrunire. Era bello guardare dall’alto ciò che lo circondava. Dava un senso di potere. Era come se quel senso di inferiorità e frustrazione per un attimo lo avesse lasciato. Ma aveva deciso ormai, troppi anni aveva passato con questo disagio, troppe le umiliazioni che aveva dovuto superare ogni giorno. E’ vero, aveva solo 15 anni, presto avrebbe cambiato scuola, non avrebbe più visto quelli che sarebbero dovuti essere i suoi amici, ma non ce la faceva più a sostenere tutto e era certo, che come una calamita, avrebbe attirato a sé solo fallimenti, perciò era la decisione giusta. L’ultimo pensiero a sua madre Lisa.

Lei aveva messo al mondo Martino all’età di 19 anni. Nonostante la giovane età, dal momento che aveva stretto tra le braccia il suo bambino aveva acquisito la maturità e il senso di responsabilità di una vera mamma.

Di certo non si poteva dire lo stesso di suo padre Federico. Pochi mesi dopo la sua nascita aveva sposato sua madre, perché messo alle strette dai genitori, ma non aveva mai dimostrato realmente amore per Lisa e soprattutto per Martino, che considerava la causa della sua prigionia matrimoniale.

In casa stava pochissimo, probabilmente frequentava altre donne, e le poche volte che c’era, o litigava con la madre o si chiudeva nella sua stanza a strimpellare con la chitarra elettrica che aveva ricevuto il Natale prima proprio da Lisa.

Era molto giovane anche lui e questo lo poteva forse giustificare, ma lasciare sua moglie e suo figlio il giorno del suo quinto compleanno era imperdonabile. Martino era piccolo, ciò nonostante l’immagine di suo padre che usciva di casa con le valigie, senza degnarlo di uno sguardo, senza nemmeno avergli fatto un regalo di compleanno o meglio di addio, era vivida nei suoi pensieri. Ma ancora più viva e ancora più terribile era l’immagine di sua madre seduta in terra, in bagno, straziata dalle lacrime, e quella frase detta per dolore e rabbia «è tutta colpa tua». Martino sapeva che non lo pensava davvero ma il suo cuore non l’aveva mai accettato realmente. Era colpa sua se il loro amore era finito, colpa sua se suo padre li aveva abbandonati, colpa sua se da quel giorno sua madre dovette fare almeno due lavori al giorno per mantenerli, colpa sua se il sorriso della donna era sempre velato da un’amara tristezza.Era per tutto questo che si era convinto che togliersi la vita avrebbe risolto le cose. E poi a scuola, quello stupido di Davide. Non aveva mai odiato nessuno così tanto, nemmeno suo padre. Ogni giorno c’erano insulti, umiliazioni e talvolta anche schiaffi. Sua madre diceva che era lui che si estraniava senza darsi l’opportunità di avere degli amici. Diceva che anche ai suoi tempi c’erano i “bulletti” della classe e che stava a lui tenerli a debita distanza o magari diventarci addirittura amico. Ma lei non poteva capire e Martino non aveva intenzione di darle altre preoccupazioni.

Fu grazie a Davide che decise che quella fosse la giornata adatta per farla finalmente finita. La mattina in classe, non si sa perché avevano litigato e Davide con solo l’intento di ferirlo gli aveva detto ridendo che aveva fatto bene suo padre ad abbandonarlo, perché era solo un fastidio per tutti e che nemmeno lui evidentemente lo sopportava. Il cuore di Martino si riempì di quella convinzione e prima di diventare un fastidio anche per la sua adorata madre decise di sparire. Il vento tiepido primaverile gli accarezzava dolcemente i capelli. Non era più andato a tagliarli: «mamma si arrabbierà di nuovo», ma ormai sua madre non l’avrebbe più rivisto perciò non esisteva nemmeno più quello stupido problema. Chiuse gli occhi e si librò nell’aria. «Chissà se farà male?», fu l’ultima cosa che pensò e poi più nulla.

Si stava allacciando le scarpe quando un colpo di tosse attirò la sua attenzione. Non ricordava come fosse arrivato nella sua stanza, ricordava soltanto di trovarsi sul tetto della scuola. E soprattutto non si ricordava minimamente del ragazzo che seduto sul suo letto lo guardava con un sorrisetto maligno e sarcastico. Aveva pressappoco la sua età ma fisicamente non si assomigliavano per niente. Martino non era molto alto e piuttosto magro. I suoi capelli erano perennemente spettinati e all’altezza delle spalle, brillavano di un rosso carota, ovviamente naturale. Nonostante il colore dei capelli e due grandi occhi verdi la carnagione di Martino non era poi così chiara. Quella dell’estraneo davanti a lui invece era del colore del latte. Era inquietante, soprattutto perché metteva in risalto due occhi azzurro ghiaccio e dei lunghi capelli biondi. L’altezza poi già notevole era accompagnata da una longilineità innaturale.

Continuando a sorridere quest’ultimo porse la sua mano a Martino in attesa che lui gliela stringesse. «Morriss» si presentò. Martino non fece in tempo a rispondere che lo sconosciuto lo interruppe «si so chi sei e mi stupisco di scoprire che sei dannatamente stupido, visto che non hai ancora capito chi sono. Come ci chiamate voi? Dei della morte? Angeli sterminatori? O quel termine giapponese che amate tanto voi adoranti dei manga, Shinigami? Beh più o meno è così, ovviamente non abbiamo un nome così stupido: chi ci conosce davvero ci chiama tramiti. Coloro che guidano le persone che… beh… si, sono finite.. oops… morte, all’entrata del a) paradiso b) inferno a/b) purgatorio. Una sorta di hostess ma senza quel noioso giochetto con le mani per spiegare le uscite di sicurezza. Ahimè qui non ce ne sono. Anche se…» ma si interruppe velocemente. «Parlami di te piuttosto, perché mai hai deciso di splash! Tuffarti sbadatamente senza acqua?» Martino era confuso, intimorito e poi non avrebbe mai pensato che un Dio della morte, o quello che era si presentasse vestito in giacca e cravatta…bianchi! Non riuscì a rispondere così Morriss incalzo’ «tremendamente noioso… Eppure non sembravi così male da vivo. Sai di anime in pena come te ne ho accompagnate tante, si lo ammetto mai come Peter del “reparto over 70”, ma anche io me la cavo. Si…devi sapere che ogni Tramite ha una fascia di età. E a me sono toccati gli adolescenti, per la mia apparente giovane età, anche se in realtà ho superato da poco la novantina. Anche io sono morto alla tua età, ma di morbillo. Erano altri tempi, c’era la guerra e avrei pagato qualsiasi cosa per ritornare a casa con i miei genitori. Invece ho chiuso gli occhi per sempre in ospedale. Ma ero in gamba e presto sono stato promosso Tramite.» nel suo viso un velo di assoluta tristezza l’aveva reso più umano che mai. Martino ebbe un sussulto: «ma che ho fatto? Suicidarmi a 15 anni! Ma come ho potuto fare una cosa simile? E mia madre? Come l’avrà presa? Sarà distrutta! Io ero l’unico nella sua vita. L’ho uccisa con me..» Il ragazzo non riusciva a calmarsi, a nastro dalla sua bocca frasi che spesso diventavano prive di senso logico. Si era finalmente reso conto di quanto fosse importante quello che aveva, ma era troppo tardi. «Morriss ti prego riportami indietro!» il Tramite perse totalmente il suo sorriso sarcastico. «tutti me lo chiedono, sai, e a tutti do la stessa risposta. Spiacente non si può’ tornare indietro! Ma vedi tu mi piaci particolarmente e io non amo per niente le regole. Ci sono cose della tua vita ormai passata che devi ancora capire. Persone che devi rincontrare e conoscere più a fondo. Non posso riportarti indietro ma posso darti la possibilità di vivere un anno, ma nei panni..beh…di un cane. Un cucciolo randagio in cerca di risposte e della sua strada. Che ne dici accetti?» Martino rimase attonito, la confusione che prima regnava nella sua testa si trasformò in caos totale. Un cane? Aveva capito bene? Era uno scherzo! Morriss lo osservava impaziente, finché non ruppe il silenzio «Hey! Non ho tutto il giorno…perfetto, deciderò io per te. Vedrai che da randagio ti divertirai tantissimo e ridendo a squarciagola sparì». Rimasto solo sentì l’esigenza di uscire di casa, intanto sua madre non sarebbe ritornata fino alla sera o fino a che qualcuno l’avesse informata di quello che era accaduto a suo figlio. Attraversò velocemente il piccolo giardino che separava la strada dalla porta di casa. Camminava senza una meta vera e propria e fu durante questo sconosciuto itinerario che cominciò a percepire i primi cambiamenti. I colori attorno a lui perdevano la solita luminosità era come se un pittore avesse ripassato tutto con scale di grigio. Non serviva strofinarsi gli occhi incredulo, l’effetto non cambiava. Improvvisamente il profumo di sua madre lo fece fermare e incredulo si trovò ad annusare il muretto che costeggiava il marciapiede. Lei era stata qui. Nel frattempo altre decine di odori lo attiravano e piano piano si catalogavano nella sua testa. Non sapeva come reagire. Capiva perfettamente che non c’era niente di normale nell’alzare la gamba su un muro e farsi prontamente pipì nei pantaloni, ma era un istinto incontrollabile che doveva assecondare ad ogni costo. Era nella piazza centrale davanti al suo negozio di videogiochi preferito quando di punto in bianco si trovò accasciato in terra. Sentiva di non avere più le scarpe ma soprattutto sentiva il terreno sotto di lui in modo diverso, come se sotto ai piedi ci fossero dei veri e propri cuscini. Ma presto capì che non era nulla di tutto ciò, bensì le zampe e i polpastrelli tipici dei cani. Non fece in tempo a stupirsi che d’impulso cominciò a grattarsi ripetutamente il collo. In un attimo scoprì che i suoi capelli erano stati sostituiti da del pelo corto ma morbido e che le sue orecchie adesso erano sporgenti e dritte sulla sua testa, con la parte più alta piegata verso il basso.

Il suo corpo si era completamente trasformato in quello di un cane, ora restava l’ultima prova da fare: la voce! Provò a dire il suo nome scandendo lentamente le lettere ma invece di una parola uscì un guaito davvero ridicolo. Si poteva dire che non aveva certo un abbaio molto virile, tanto da pensare che pure da cane era un cosiddetto “sfigato”. Questo pensiero, non sapeva perché, lo metteva di buon umore. Morriss gli aveva anticipato che sarebbe stato un randagio e per prima cosa un vagabondo doveva trovarsi da mangiare anche perché così affamato non era mai stato.

Girava per le strade con il naso per aria in cerca dell’odore di qualcosa di commestibile e vicino, ma tutto sembrava inutile finché non capitò davanti al panificio dove era solita comprare il pane sua madre. Il profumo del pane appena sfornato non fu l’unica cosa che attirò la sua attenzione dalla vetrina riuscì per la prima volta a vedere la sua nuova immagine. Era palesemente ancora un cucciolo, sembrava un batuffolo di cotone tutto bianco, a parte una mascherina nera sul muso e nell’estremità più alta delle orecchie. Stava ancora guardando la sua immagine riflessa quando dalla porta di fianco a lui un giovane ragazzo uscì sorridendo. L’unica persona che non avrebbe mai voluto incontrare: Davide!

D’istinto a Martino si drizzò il pelo e gli ringhiò minaccioso. Finalmente poteva vendicarsi. Ma più cercava di essere minaccioso più gli uscivano dei suoni ridicoli e dolcissimi come un peluche che veniva schiacciato.

Davide non solo non fu intimorito ma si dimostrò completamente impazzito di gioia e di affetto per quel cucciolo. « Sei affamato piccolo?» Martino provò ad intimorirlo in qualche modo ma improvvisamente il suo stomaco “rispose” alla domanda del ragazzo.

Un panino caldo e soffice gli si presentò davanti al muso e Martino non seppe resistere. Senza nemmeno accorgersene si trovò in braccio al ragazzo. Era davvero stanco, gli occhi gli si chiudevano da soli. Cercava di combattere il sonno per pianificare una via di fuga ma l’abbraccio di Davide era caldo e in men che non si dica Martino si era già addormentato tra le braccia del suo nemico.

Si svegliò dopo un paio d’ore e notò che era su un enorme cuscino morbidissimo posto su un letto singolo. Doveva essere la camera di Davide. Lo aveva intuito dai poster di personaggi sportivi alle pareti e dalle decine di fumetti che riempivano la libreria. Guardando i titoli scoprì che erano davvero molti quelli che anche lui aveva amato quando era ancora un ragazzo. Gli sembrò di ridere, ma uscì prontamente un buffo guaito. Sentì arrivare di corsa Davide. « ti sei svegliato Casper?»

Aveva sentito bene il suo nuovo nome? Era Casper? Come il fantasmino dei cartoni. Era uno scherzo? O il destino era stato così sadico e ironico da farlo chiamare in quel modo? Ahimè, anche questa volta fu Davide a decidere e Casper sia!!

Le giornate con il suo nuovo padrone passavano inaspettatamente bene, nonostante cercasse ripetutamente di morderlo “Martino/Casper” si stava affezionando davvero. Gli aveva insegnato un sacco di giochi, passavano tutto il tempo libero insieme e quando Davide non poteva giocare con lui, magari per lo studio Casper si appallottolava sulle sue gambe e dormiva felice. Spesso aveva malinconia di sua madre ma le cure del ragazzo celavano prontamente quel dolore. Della sua vita si occupava esclusivamente lui con amore e responsabilità, dalla pappa ai bisogni fuori, dal bagnetto alle cure veterinarie, tutte detratte dalla sua paghetta. Casper o meglio Martino cominciava seriamente a domandarsi se fosse stato lo stesso ragazzo che a scuola lo umiliava e spesso lo picchiava.

Ma solo una mattina capì davvero che dietro alla maschera di durezza di Davide c’era una persona molto sensibile e buona. Stavano facendo colazione, quando sua madre esordì: «ho visto la madre di Martino ieri pomeriggio. Pensano seriamente che si sia suicidato. E’ una cosa terribile!» il ragazzo subito non aprì bocca, ma poi rispose in un modo davvero inaspettato: «pensa come doveva stare male, mamma. Pensa cosa doveva sentire dentro di lui per fare una cosa del genere. Sai spesso lo prendevo in giro pesantemente, non avrei mai dovuto.» la madre lo interruppe rassicurandolo e spiegandogli che Martino sapeva che erano scherzi tra ragazzi e che purtroppo ci sarà stata una motivazione ben più seria. Ed ecco che Davide fece rimanere di sasso il giovane cane che lo stava osservando attentamente: «A volte mi manca davvero molto». Ma non ebbe il tempo di elaborare il valore di quest’ultima frase che dalla porta d’ingresso entrò un uomo molto alto e robusto. Doveva essere suo padre. Era la prima volta che Casper lo vedeva. Nemmeno a scuola si era mai fatto vivo. Nonostante fossero parecchi giorni che l’uomo non si presentava a casa il figlio e la moglie lo salutarono come se fosse rientrato dopo essere stato via solo cinque minuti. E ancora più strano fu il repentino cambio di argomento in modo quasi imbarazzato se non spaventato. Solo più avanti Casper avrebbe capito che la sensibilità di Davide non sarebbe di sicuro stata capita dal padre. Dopo la scuola Davide si chiuse in camera sua per studiare come ogni giorno, ma questa volta a distrarlo c’erano le urla dei suoi genitori che litigavano nella camera a fianco. « La tradisce continuamente e vuole pure avere ragione» la faccia di Davide si era trasformata, sembrava come deformata da una rabbia accecante. «non lo sopporto più, sono stanco» con le lacrime agli occhi strinse tra i pugni la matita, spezzandola. Il cane gli portò il guinzaglio con l’intento di farlo scappare un attimo da quella casa. E quando, come ogni volta, suo padre cominciò a insultare la moglie per aver cresciuto un inetto di figlio, un buono a nulla, Davide raccolse l’invito del suo amico a 4 zampe. Casper cominciava a capire molte cose. Erano davvero simili loro due e quell’atteggiamento superiore e strafottente che aveva sempre avuto verso di lui era il suo modo per nascondere tutto il suo dolore. «Dove stai andando? Devi finire i compiti! vedi di diplomarti se non vuoi che ti cacci a calci nel sedere insieme al tuo cane. Cerca di prendere esempio da tuo padre che alla tua età era già caporeparto di un’officina. Prendi esempio e cerca di diventare come il tuo vecchio!» Era un monologo. Il figlio non poteva e non voleva rispondere. Chiuse la porta di casa con foga e morsicandosi le labbra disse rivolto al cielo: «io non sarò mai come te. Io lotterò e sarò migliore di te! Lo giuro!» Casper gli leccò le mani, avrebbe voluto stringerlo e dirgli che ce l’avrebbe fatta, che ne era sicuro. Erano molto simili, ma la forza di Davide che era mancata a Martino. Chissà dove sarebbero arrivati se fossero diventati amici?

Ormai aveva dimostrato a Davide che nonostante la giovane età sapeva tornare a casa solo e spesso saltando la staccionata del giardino lo andava a prendere a scuola, con in cuor suo la speranza di vedere sua madre. E fu proprio in questo modo che la rivide dopo quasi due mesi dalla sua morte. Stavano proprio tornando da scuola, quando incrociò il suo sguardo. «ciao Davide, che bel cagnolino» Casper cominciò a tirare verso la donna voleva saltarle in braccio, baciarla e piangere con lei. «Le piace particolarmente signora, guardi come tira per venire da lei». Con un debole sorriso ammise di essere terrorizzata dai cani declinando cosi l’invito del cucciolo e cambiando strada salutando il ragazzo. Casper era deluso ma convinto che per un attimo gli occhi di sua madre avessero visto dentro di lui dentro il vero Martino.

Ma del vero Martino ogni giorno rimaneva sempre meno. I ricordi di ragazzo sembravano piano piano dissolversi lasciando posto a quelli della sua nuova vita da cane e questo non gli dispiaceva affatto. Ma era tutto troppo bello.

…La piazza era gremita di gente, un rumore assordante, e poi un altro, e un altro ancora…Gli venne in mente la prima volta che, ancora bambino, lo portarono a vedere i fuochi d’artificio nel paese vicino al suo. Ne era affascinato e non ne era per niente spaventato. Invece adesso gli sembrava d’impazzire. Era terrorizzato. A guidarlo solo l’istinto di scappare, tornare a casa o almeno nascondersi in un posto sicuro al riparo da quei rumori terrificanti. Il collare gli stringeva la gola, si sentiva soffocare ma era più forte di lui, doveva scappare! Uno strattone più forte e il guinzaglio scivolò via dalle mani di Davide. Invano il suo tentativo di fermarlo, Martino era già lontano. Correva disperato tra la folla che incantata, dai giochi pirotecnici non lo aveva nemmeno notato. La sua corsa continuò fino a una piccola baracca abbandonata ai bordi della spiaggia. I pescatori la utilizzavano in passato per tenerci le esche le canne e tutto il necessario per la pesca. Non gli era del tutto sconosciuta ma era buio era spaventato e non riusciva a capire dove potesse trovarsi. L’unico pensiero: Davide! Lui non l’avrebbe mai lasciato da solo, l’avrebbe cercato fino in capo al mondo. D’altronde era il suo migliore amico. Decise cosi di riposarsi un po’ nell’attesa che arrivasse Davide. Rannicchiato vicino alla porta della baracca con il muso sulle zampe anteriori si addormentò sognando di abbracciare presto il suo padrone. Dormiva ancora ma come sempre vigile e attento quando si sentì tirare la coda con forza. La bocca spalancata nel finto tentativo di morsicare il colpevole. Girò il muso all’attacco e vide Morriss che si divertiva beato. Il gelo gli trapasso tutto il corpo. «sono morto di nuovo? Che ho combinato questa volta?» così ruppe il silenzio il ragazzo/cane davvero spaventato. « Sei vivo come non lo sei mai stato mio caro Martino! Perdonami, Casper! Solo che è passato un anno proprio oggi e sono venuto a riscuotere il mio premio.. » « Tu sapevi che sarebbe andata a finire così, che Davide sarebbe diventato il mio padrone che proprio oggi sarei scappato da lui» mentre Martino parlava le sue sembianze umane riprendevano possesso del suo corpo, ma il ragazzo non si sentiva per niente a suo agio. «modestamente ho conoscenze importanti “ai piani alti” e qualcosa mi era stato anticipato» rispose Morriss con fare ironico. «Prima di portarti via con me voglio farti vedere due cose». Davanti a lui si materializzò uno schermo che proiettava degli ologrammi. «La prima immagine che vedi è tua madre nel momento stesso in cui ha appreso la notizia della tua morte.» Davanti a lui una visione terrificante: sua madre si dimenava tra le braccia di alcuni medici, con il viso straziato dal dolore e dalle lacrime, tremava convulsamente, finché all’improvviso stramazzò a terra svenuta. A seguire alcune immagini della quotidianità della donna. Non c’era un momento dove lei fosse serena o non piangesse, il velo di malinconia e di tristezza che aveva da quando suo marito l’aveva lasciata era diventato una maschera di dolore che le aveva plasmato totalmente i lineamenti. Spesso si chiudeva nella stanza di Martino e stringendo il suo cuscino implorava il figlio di perdonarla. Martino urlò al vento che non era colpa di sua madre che…no, lei non centrava. Si sentì lacerare il cuore, si buttò in terra e cominciò a prendere a pugni la sabbia. Morriss voleva abbracciarlo ma si limitò a sfiorargli la testa con la mano. Aveva sbagliato tutto, l’aveva resa ancora più infelice dandole un dolore che non l’avrebbe mai abbandonata. Ma Morriss gli aveva detto che c’era un’altra visione da mostrargli.

Questa volta davanti a lui le lacrime strazianti di Davide, la sua ansia, il suo correre a perdifiato per cercarlo. Il gridare che era il suo unico amico e per nulla al mondo avrebbe potuto fare a meno di lui. Questa volta Martino reagì violentemente. Velocemente strinse la sua mano destra al collo di Morriss conscio del fatto che non gli avrebbe fatto niente visto chi era in realtà, ma era stata una reazione spontanea. «cosa vuoi dimostrarmi Morriss? Forse che sono solo capace di fare soffrire le persone, che sono la causa di tutti i mali? Beh…questa volta ti sbagli di grosso, ho sbagliato tutto con mia madre ma ho coltivato la possibilità che mi hai dato con amore e intelligenza e mai e poi mai avrei fatto soffrire Davide. Lui ha bisogno di me, come ne aveva la mia mamma ma non posso tornare indietro perciò darò a lui tutto quello che avrei dovuto dare a lei. Nessuno soffrirà più per causa mia! » Morriss lo guardò soddisfatto. « e cosi ci sono riuscito.. Hai capito che non era questo che volevano coloro che ti amavano. Che Davide è solo un ragazzo con tanto dolore nel cuore. Che suo padre non l’ha abbandonato ma è come se lo facesse ogni volta che si vergogna di lui. Che tua madre si sentiva viva solo quando tornava a casa e vedeva il tuo viso anche se spesso imbronciato. E soprattutto hai capito che la vita è un bene troppo grande. Guarda me, dall’alto della mia posizione invidio te che puoi vivere ancora nelle sembianze di un cane. Ma proprio per questo la scelta è tua: vieni via con me, con il tuo bagaglio di ricordi sbiaditi, con ciò che hai imparato, sapendo che vicino a te c’erano davvero molte persone che ti amavano; oppure decidi di restare con Davide ma cancellando tutti i tuoi ricordi; sarà come se non fossi mai stato Martino». Morriss lo abbracciò affettuosamente.

…Era la sera dell’ultimo dell’anno, le persone erano in fibrillazione per i fuochi d’artificio. Davide teneva forte il guinzaglio nonostante avesse il cane in braccio stretto stretto a lui. Cominciarono i botti che stranamente a Casper piacevano, era divertito e a ogni esplosione leccava la faccia del suo padrone e ululava alla luna. Finiti i giochi pirotecnici si liberò dall’abbraccio del padrone e cominciò ad annusare i vestiti delle persone accanto a lui. Finché un odore strano acre fastidioso attirò la sua attenzione. In un attimo davanti a lui la sua vecchia vita di cui fino a quel momento non ricordava più nulla. Una piccola ferita si aprì nel suo cuore e poi Morriss. Casper fu terrorizzato «tranquillo sono qui solo per un salutino» con un cenno del capo gli indicò una donna tra la folla. Sua madre! Con coraggio le si buttò tra le braccia cominciando a leccarle il viso. Lei incredula ma per niente spaventata rispondeva alle coccole del cucciolo. Poi un istante i suoi occhi dentro quelli del cane… Martino! Solo un nome sospirato e una lacrima a rigarle il viso. Poi il mondo tornò alla normalità, il cane disorientato ritrovò Davide, ora potevano tornare a casa.

Daniela Bellandi